ROMA, giovedì, 24 settembre 2009 (ZENIT.org).- La Chiesa ha la responsabilità di richiamare tutti al “dovere della solidarietà verso coloro che vivono in situazioni di maggiore vulnerabilità, come rifugiati e migranti”.
E’ quanto afferma in una intervista a “L’Osservatore Romano” l’Arcivescovo Antonio Maria Vegliò, Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti.
Pur ammettendo che “non compete al magistero della Chiesa valutare le scelte politiche in questo campo”, il presule ricorda che quello all’asilo è “un diritto umano fondamentale”, il cui rispetto “viene prima dei problemi concreti legati alla sua attuazione”.
“Bisogna ricordare – aggiunge – che l’80 per cento dei rifugiati del mondo – che solo lo scorso anno 2008 sono stati 42 milioni – si trova nei Paesi in via di sviluppo, così come la stragrande maggioranza degli sfollati, stando ai dati diffusi dal ‘Global Trends’, il rapporto statistico annuale pubblicato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr)”.
“Concretamente, se fissiamo l’attenzione sui Paesi dell’Unione europea, emergono chiare indicazioni sul diritto d’asilo: la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Carta europea dei diritti dell’uomo e le direttive dell’Unione sul diritto d’asilo esplicitano la prassi concordata da adottare nei confronti dei rifugiati riconosciuti come tali”.
“I problemi – commenta – sorgono, come sempre, laddove vi sono risorse da condividere e ricchezze da distribuire, vale a dire alloggio, casa, sanità, istruzione, impiego lavorativo, e via dicendo”.
“Lo Stato, in tale contesto, deve vigilare e agire in modo da garantire questi beni a tutti, autoctoni e non, comprese le fasce di popolazione più vulnerabili, tra cui vi sono i rifugiati”, sottolinea mons. Vegliò.
Purtroppo, spiega, “nei recenti Paesi di rifugio – come Italia, Grecia, Malta e nazioni dell’Est europeo – il rifugiato è ancora troppe volte confuso con l’immigrato per motivi economici e non gode dei dovuti sostegni sociali”.
Tuttavia, avverte, “non bisogna dimenticare che i motivi di fuga sono molto complessi e spesso le persone non scappano da persecuzioni politiche direttamente rivolte alle loro persone, ma da situazioni generali di pericolo e di violazione dei diritti umani, che rendono la vita impossibile in numerosi Paesi, per cui risulta difficile distinguere tra migranti ‘economici’ e rifugiati”.
“Il vero problema, poi, risiede nell’accesso allo status di rifugiato – prosegue mons. Vegliò –. Dal momento, infatti, che esso reclama diritti, gli Stati tendono a concederlo a un numero limitato di persone per risparmiare denaro e strutture, anche perché tendenzialmente le domande si moltiplicano”.
Inoltre, spiega ancora, “la tendenza recente sviluppata dai Paesi dell’Unione europea è quella della esternalizzazione del diritto d’asilo, che mira a impedire l’accesso al territorio dell’Unione e a obbligare i richiedenti asilo a fermarsi nei Paesi di transito”.
A questo riguardo il presule mette tuttavia in guardia sul fatto che “un’eccessiva chiusura delle frontiere determina l’aumento dell’immigrazione irregolare e alimenta le organizzazioni malavitose che trafficano esseri umani”.
Inoltre, continua, “il mancato investimento in progetti di inserimento dei figli degli immigrati nell’area della formazione crea insuccesso e abbandono scolastico, alimentando il disagio giovanile e la conseguente criminalità o devianza”.
Allo stesso tempo, “l’insufficiente attenzione alla situazione abitativa di immigrati e cittadini autoctoni più poveri favorisce la crescita di ghetti e di aree socialmente degradate”.
Riflettendo ancora sui provvedimenti per frenare l’immigrazione come misura preventiva per combattere la criminalità, il presule afferma che “le paure dei cittadini possono essere alimentate o sottaciute da chi amministra la cosa pubblica e da chi gestisce i canali dell’informazione, anche in risposta a propri interessi”.
“Tutto ciò non può essere ingenuamente ignorato e deve essere affrontato con oggettività, per non rischiare di creare reazioni xenofobe e razziste”, osserva.
“Sicurezza e legalità – conclude – si raggiungono solo con il positivo apporto di tutti, anche degli immigrati. Allo stesso tempo, sia gli immigrati che gli autoctoni devono poter vivere sicuri e rapportarsi in egual misura alle leggi del Paese in cui vivono”.