Vocazione all’amore: tutti sono chiamati, ma pochi rispondono

Superare una cultura che uccide la speranza

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di Carl Anderson*

NEW HAVEN, Connecticut, mercoledì, 30 settembre 2009 (ZENIT.org).- Qualche anno fa, durante un incontro di Benedetto XVI con alcuni studenti, due di questi gli hanno rivolto una domanda che poteva essere di chiunque, cattolici o non cattolici.

Gli hanno chiesto: “Esiste qualcosa o qualcuno, attraverso cui possiamo diventare importanti? Come è possibile sperare, quando la realtà nega ogni sogno di felicita, ogni progetto di vita?”.

Io credo che molte persone si sentano rappresentate in queste domande: i poveri, gli anziani, i malati, gli immigrati, la casalinga o i lavoratori. Nessuno vuole essere irrilevante o sentirsi inutile o in gabbia. Purtroppo, però, molte persone si sentono proprio cosi, nei diversi ambiti della loro vita. E credo che sia un sintomo pericoloso e da non trascurare. È sintomatico di una cultura in cui c’è qualcosa di così insalubre da riuscire a far perdere ogni speranza alle persone.

Sebbene la domanda dei due studenti appaia del tutto laica, l’unica vera risposta è quella di tornare alla vocazione originaria: la nostra chiamata all’amore.

Spesso, quando parliamo dei giovani e del futuro della Chiesa, viene fuori la questione della “crisi delle vocazioni”. Tuttavia, per affrontare questa crisi è essenziale sottolineare la base comune di ogni vocazione.

Per quanto diverse possono essere le vocazioni – sacerdozio, matrimonio, vita consacrata – esse hanno tutte il medesimo fine. Sono tutte manifestazioni della vocazione che ci accomuna tutti: la vocazione all’amore.

Ogni vocazione richiede il dono totale di sé. Ogni vocazione perdura per tutta la vita. Ognuna costituisce un cammino attraverso il quale diventiamo più somiglianti a Dio che è amore. In ognuna siamo chiamati all’amore per l’altro. Ognuna è manifestazione dell’amore di Dio.

Certamente, questa realtà non emerge sempre con chiarezza. Basta considerare lo stato in cui versa il matrimonio cattolico.

Se ipotizzassimo che il 23% dei preti abbandona il sacerdozio, saremmo convinti di aver dato loro una formazione inadeguata. Ma se negli Stati Uniti effettivamente il 23% degli adulti risulta essere divorziato, si tratta di un problema di formazione al matrimonio?

Se tre matrimoni cattolici falliti su cinque riguardano coniugi cattolici, qual è il senso del matrimonio cattolico?

Se il 69% dei cattolici tra i 18 e i 25 anni credono che “il matrimonio è ciò che gli sposi vogliono che sia”, quali ostacoli si saranno frapposti alla loro educazione cattolica? E se sono troppo pochi coloro che si avviano al sacerdozio e alla vita religiosa, ci dobbiamo chiedere: “Qual è il futuro delle nostre vocazioni?”.

Questo quadro potrà sembrare come una situazione senza alcuna speranza. Ma rimane il fatto che noi siamo stati creati per amore e che niente – neanche la nostra cultura secolarizzata – è in grado di sradicare la nostra fondamentale chiamata all’amore.

Non possiamo limitarci a considerare l’inattitudine all’impegno vocazionale come conseguenza di un’immaturità dilagante. Il problema è dovuto anche ad un senso di rifiuto della gente nei confronti di un tipo di amore che sentono come non autentico

Questo amore non autentico ha un nome: ipocrisia.

L’ipocrisia parla il linguaggio dell’amore, ma non ne porta il significato. Offre un dono unico e irripetibile, ma poi facilmente se lo riprende. La si può scorgere in un matrimonio in cui non c’è amore e non c’è attenzione, in un prete apatico o egocentrico, in un una suora priva di compassione.

La reazione che si ha in chi vede solo questo tipo di amore è quella di convincersi che l’amore vero non appartenga alle strutture create per l’amore. Quando nelle famiglie non c’è amore, allora l’amore è visto come qualcosa che va tenuto scisso dalla famiglia. Quando nella Chiesa non si trova l’amore, allora si deduce che l’amore deve essere cercato al di fuori della Chiesa.

Il secondo elemento positivo è che se noi viviamo bene la nostra vocazione, aiuteremo gli altri a vivere la loro. Aiuteremo coloro che già si sono impegnati in una vocazione ad essere fedeli. Aiuteremo coloro che ancora non si sono donati attraverso una particolare vocazione ad essere aperti e ad avere il coraggio di dire di sì alla chiamata. Una vocazione vissuta bene restituisce fiducia nell’amore.

La risposta – nelle parole di Papa Benedetto XVI – è di avere “questa consonanza, questa concordia tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che pensiamo con il cuore”.

Un altro aspetto dell’amore autentico è la perseveranza. La testimonianza che ciascuno di noi può dare è di continuare ad amare, attraverso la propria vocazione, anche nei momenti di aridità spirituale, come ci insegnano Madre Teresa, San Giovanni della Croce e molti altri santi. Questo tipo di esperienza, inoltre, non è solo un passo nel cammino spirituale della vita: è un’esperienza che ci avvicina a tutti coloro che si sentono in qualche modo lontani dall’amore di Dio.

Per certi versi, questo tipo di aridità spirituale, questa incapacità di “sentire” la forza dell’amore, è esattamente ciò che molti giovani di oggi provano. Nella perseveranza degli altri, loro possono trovare e vedere la forza dell’amore, la forza di un cuore che non si limita a sentire ma che vede e ama nella verità.

Per molti, la prova di questa autenticità è la gioia, e giustamente. E forse il maggiore discredito per ogni vocazione non è lo scandalo ma l’assenza di gioia – lo scandalo dell’assenza di gioia. Per questo, prima di diventare Papa, il cardinale Ratzinger ha affermato che la Chiesa non ha bisogno di riformatori, ma di persone che siano interiormente prese dal Cristianesimo, che lo vivano nella gioia e nella speranza e che si siano trasformate in persone di amore. Questi sono coloro che chiamiamo santi.

Ogni vocazione offre una particolare risposta al problema dell’amore autentico. E in questo senso tutte le vocazioni sono necessarie.

Inoltre, la trasformazione di Cristo delle vocazioni alla vita matrimoniale o religiosa è resa possibile grazie all’istituzione della Chiesa. Noi tutti siamo parenti non per il nostro sangue ma per il sangue di Cristo.

Nel sacrificio di Cristo sulla croce, la famiglia – agli occhi di Dio – è stata ampliata fino a comprendere tutti. Dio ha redento e si è impegnato non solo con un popolo eletto, un popolo definito da legami di sangue, ma per il popolo intero, un popolo definito da una comune origine, il Creatore, colui che ha instillato in noi una comune vocazione: la vocazione all’amore.

Come Papa Benedetto XVI ha scritto nella “Sacramentum caritatis”, “La comunione ha sempre ed inseparabilmente una connotazione verticale ed una orizzontale: comunione con Dio e comunione con i fratelli e le sorelle”. Non possiamo essere in comunione con i nostri fratelli se non siamo in comunione con Gesù Cristo.

Per questo motivo Ratzinger descrive l’intera storia umana come una storia del sì o no all’amore. E noi possiamo dire sì all’amore solo nel dono totale di noi stessi, anzitutto a Dio e poi al prossimo, ma sempre nell’amore.

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* Anderson è il Cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, nonché autore di bestseller secondo la classifica del New York Times.

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ZENIT Staff

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