– S.Em.R. Card. Tarcisio BERTONE, S.D.B., Segretario di Stato (CITTÀ DEL VATICANO)
Nell’Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, il Papa Giovanni Paolo II di v.m. ha voluto sottolineare come il Sinodo dei Vescovi “costituisca uno strumento quanto mai propizio per favorire la comunione ecclesiale” (m. 15). Questa comunione affettiva ed effettiva delle Chiese particolari con la Chiesa universale trova nell’azione dei Nunzi Apostolici uno snodo insostituibile e particolarmente importante nella realtà del Continente africano. Si tratta di una fitta rete di presenze che non è finalizzata soltanto a promuovere e sostenere i rapporti fra la Santa Sede e le Autorità statali, bensì intende prima di tutto “rendere sempre più saldi ed efficaci i vincoli di comunione fra la Sede Apostolica e le singole Chiese particolari” (Can. 364), attraverso l’assistenza e il consiglio che i Rappresentanti Pontifici prestano ai Vescovi. In quest’ ottica di comunione va pertanto collocata la missione diplomatica della Santa Sede, che, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, ha favorito il sorgere di Accordi o altre convenzioni con le Autorità statali.
I Rappresentanti Pontifici danno voce al Santo Padre, nella difesa della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, così come, in collaborazione con gli Episcopati, si adoperano in difesa della libertà religiosa e della promozione di un dialogo autentico, sia con le altre Chiese o comunità ecclesiali, che con gli appartenenti ad altre religioni, come pure, naturalmente, con le Autorità civili. Tale amore per l’uomo, la pace e la giustizia, che vuole guardare all’ Africa “nella luce di Dio”, non può che spingere i Rappresentanti Pontifici a testimoniare la sollecitudine del Santo Padre, e in lui della Chiesa universale, per il bene comune di ogni Paese.
– S. E. R. Mons. Jan OZGA, Vescovo di Doumé-Abong’ Mbang (CAMERUN)
Questa seconda Assemblea sinodale per l’Africa, per produrre i frutti auspicati, deve passare – mi sembra estremamente importante – attraverso la famiglia africana, dal momento che la formazione di una nuova cultura della riconciliazione, della giustizia e della pace è un’opera familiare prima ancora che sociale. Se questi tre valori traggono origine e fondamento dalla famiglia, la loro cultura può estendersi a livello dell’intera società africana.
La cultura della riconciliazione si distingue dall’atto di riconciliazione per il fatto che quest’ultimo è preciso e contingente, mentre la prima è uno stato mentale, fondato sulla promozione dell’amore, della carità, della conversione, della misericordia e di molti altri valori. Questo ruolo preponderante spetta prima di tutto ai genitori e poi alle istituzioni scolastiche, sociali ed ecclesiali, secondo il principio di correzione fraterna: “Se il tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui solo…” (Mt 18, 15-18).
La giustizia è il giusto apprezzamento, il riconoscimento, il rispetto dei diritti e del merito di ciascuno. La famiglia è chiamata a educare alla vera giustizia, la sola che porta al rispetto della dignità personale di ognuno, come Papa Giovanni Paolo II sottolinea nella Familiaris Consortio. Già Gesù aveva detto: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei…” (Mt 5, 20 ss).
La cultura della pace nella famiglia africana veniva garantita dal consiglio dei genitori e dei parenti, mediante lo svolgimento frequente della “palabre”, nucleo di felicità nella prosperità individuale e collettiva, in rapporto con Dio, i fratelli e le sorelle: “beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9).
– S. E. R. Mons. Albert VANBUEL, S.D.B., Vescovo di Kaga-Bandoro (REPUBBLICA CENTROAFRICANA)
In questi ultimi anni, nei momenti delle diverse crisi socio-politiche vissute dalla Repubblica Centro africana, non abbiamo mai mancato di ricordare i valori umani e cristiani necessari per giungere a una vita nella pace. In ogni momento la Chiesa è stata presente e solidale con le gioie e le sofferenze del popolo, per il quale vuole la felicità e la redenzione autentiche. I vescovi del Centro Africa non hanno mai cessato di vedere l’alba e l’avvento di un tempo propizio di pace, di giustizia e di riconciliazione per tutti.
La nostra Chiesa prende sempre più coscienza delle zone d’ombra esistenti al suo interno e anela con tutto il suo essere alla pace e alla comunione in seno alla Chiesa-Famiglia. Purtroppo alcuni vedono in ciò motivi di scoraggiamento od occasioni per arrendersi. È vero: qualche malinteso, qualche gesto recepito come offensivo hanno fatto soffrire gli uni o gli altri. Tuttavia è giunto il tempo di mostrarci all’altezza delle sfide del mondo attuale. Nel momento in cui l’ingiustizia, la corruzione, l’egoismo, le ribellioni… sono unanimemente respinti, la nostra Chiesa è chiamata a dare una testimonianza secondo il Vangelo che è Parola di Vita: una testimonianza di riconciliazione, di giustizia e di pace, ma soprattutto una testimonianza di comunione.
Negli ultimi mesi abbiamo deplorato i gesti di divisione tra i sacerdoti, tra i sacerdoti e i vescovi, tra i sacerdoti e i laici; certamente non è questo il Vangelo che dobbiamo annunciare. Siamo stati mandati a costruire una Chiesa unita nello Spirito di Dio che ci guida. Non possiamo dunque lacerare il Corpo di Cristo.
L’Anno Sacerdotale donatoci dal Santo Padre può ispirarci e offrirci un orientamento: fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote e fedeltà di ogni battezzato.
Vi è l’aspirazione generale a un tempo di pace, di giustizia e di riconciliazione. Gli eventi che abbiamo vissuto e che continuiamo a vivere in questo tempo dimostrano che c’è sempre una ragione di speranza e che nella notte in cui viviamo si prospettano l’aurora e il giorno.
Ognuno di noi è debole, peccatore; ma insieme dobbiamo ascoltare la Parola di Dio, dobbiamo viverla, per costruire nella comunione la nostra Chiesa-Famiglia.
Che Dio ci benedica e ci dia la forza della perseveranza e di una testimonianza autentica!
– S. E. R. Mons. Jean-Baptiste TIAMA, Vescovo di Sikasso, Presidente della Conferenza Episcopale (MALI)
La Chiesa in Mali opera a fianco di altri figli del paese affinché giunga ai malinesi quella pace profonda che tutti auspicano, malgrado le difficili situazioni che stanno affrontando.
Vivendo in un regime di democrazia, nel paese i governi politici si alternano bene e senza confronti armati. Talvolta però la democrazia è stata svilita da manipolazioni della costituzione e ribellioni armate. Nel nord del paese, le insurrezioni dei Tuareg hanno minacciato di compromettere la pace nazionale. Tuttavia, grazie a un attaccamento autentico al valore della pace, la perdita di vite umane è stata limitata. Le cerimonie simboliche della riconquista della pace hanno permesso di curare le ferite.
Nel 2003, con la loro lettera pastorale “E se riabilitassimo la politica!”, i vescovi hanno richiamato l’attenzione dei partiti politici sul loro compito di educare i militanti, di animare la scena politica e di essere subordinati al primato del servizio alla nazione e non degli interessi di parte delle coalizioni o dei loro membri.
Con un tasso di crescita del 5% nel 2008, il Mali sta attualmente accumulando ricchezza. Tuttavia la povertà imperversa ovunque, con i suoi corollari di corruzione e di malversazione; i poveri sembrano essere facile preda dell’ingiustizia. Anche la Chiesa ha sofferto per una disputa fondiaria.
La Chiesa è presente nell’ambito dell’educazione e della sanità attraverso i suoi organismi e le sue associazioni e il sostegno ai suoi partner nello sviluppo. Quest’anno, la Caritas del Mali celebra i suoi 50 anni. Sono numerosi gli aiuti urgenti e i programmi di promozione sociale ed economica che testimoniano il legame inscindibile tra fede e azione.
I leader religiosi (cattolici, protestanti e musulmani) hanno tratto vantaggio dal fatto ch
e lo stato li invita agli incontri di riflessione sulle grandi questioni della società per creare “la sacra alleanza dei religiosi”. È un circolo di qualità, dove i leader delle comunità religiose, in caso di crisi, si scambiano vedute e decidono insieme le azioni per promuovere la pace tra le loro rispettive comunità, ma anche tra alcuni gruppi sociali e il governo. Oggi, il problema dell’AIDS rappresenta uno degli impegni della sacra alleanza.
Alcuni recenti movimenti sociali sorti a seguito di un nuovo codice delle persone e della famiglia hanno aperto un vasto cantiere di riflessione su legge, democrazia e valori culturali, specialmente religiosi.
– Rev. P. Edouard TSIMBA, C.I.C.M., Superiore Generale della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria (Missionari di Scheut) (UNIONE DEI SUPERIORI GENERALI)
Uomini e donne fedeli al Vangelo si impegnano, talvolta fino al martirio, per un mondo più giusto e solidale. Le nostre popolazioni sono riuscite a ottenere riconciliazioni nazionali che sono d’esempio per gli altri continenti. Deve quindi cambiare il modo di concepire quelle società che non si ritengono suscettibili di miglioramento.Resta però ancora molto da fare. Le nostre belle dichiarazioni, i nostri documenti non cambiano automaticamente la realtà dei nostri popoli. I messaggi di riconciliazione, di pace, di giustizia e d’unità non sono destinati innanzitutto all’esterno. Sono anche per noi stessi, perché la crisi all’esterno è anche “ad intra”. La riconciliazione non può attuarsi con discorsi e dichiarazioni. Essa è un’opzione di vita fondamentale che esige da noi una conversione quotidiana in seno alla nostra Chiesa e alle nostre comunità. La nostra missione di sanare i rapporti tra le persone non può adempiersi se le nostre comunità per prime non praticheranno il perdono autentico, la ricerca della verità, il desiderio di giustizia, in breve, un amore genuino in una vera comunità di fratelli e sorelle… Non serve parlare di pace agli altri se non regna una vera pace nelle nostre comunità.
Dobbiamo rinnovare il modo di pensare i nostri impegni religiosi. Tempi di formazione permanente si rendono indispensabili. È inoltre imperativo promuovere un movimento efficace di rifondazione.
Che le nostre scuole e università formino i cuori e non soltanto le menti; che le fabbriche d’armi da guerra cessino d’esistere.
– S. Em. R. Card. Christian Wiyghan TUMI, Arcivescovo di Douala (CAMERUN)
Il peccato, allontanando l’uomo da Dio, lo costituisce nemico di Dio. Dio prende l’iniziativa di salvare l’uomo. Quest’ultimo torna a Dio con la preghiera tramite il pentimento. I suoi sacrifici tendono a “placare Dio”, fino ad allora adirato per la sua disobbedienza.
È in Gesù Cristo che l’uomo è pienamente riconciliato con Dio. Cancellando la disobbedienza di Adamo (Rm 5, 19), Gesù realizza la pace per mezzo del sangue della sua Croce. Il Cristo compie la riconciliazione dell’uomo con Dio.
Riconciliati con Dio in Gesù Cristo, gli uomini sono tra loro fratelli e sorelle. L’accoglimento della Parola di Cristo porta gli uomini a farsi riconciliare con Dio. I fedeli di Cristo diventano missionari del perdono.
Così, dunque, per riconciliarsi con il prossimo, la riconciliazione con Dio è un requisito imprescindibile. La riconciliazione nelle nostre famiglie, tra i popoli della terra, non è possibile senza Dio. Solo gli uomini riconciliati con Dio possono costruire un mondo di pace e di giustizia.
– S. E. R. Mons. Claudio Maria CELLI, Arcivescovo titolare di Civitanova, Presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali (CITTÀ DEL VATICANO)
Il messaggio finale della Prima Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, tenutasi nel 1994, sottolineava le sfide della comunicazione per la Chiesa-famiglia di Dio in Africa accennando alla necessità di essere creativa nel primo areopago del tempo moderno: “Fino a quando siamo soltanto consumatori in questo settore, correremo il rischio di cambiare cultura senza volerlo, senza neanche saperlo”.
L’esortazione “Ecclesia in Africa” ha consacrato 11 articoli ai media e alla comunicazione sociale e ne ha fatto uno dei 5 pilastri per l’edificazione della “Chiesa-famiglia di Dio”. In seguito al primo sinodo sono state create facoltà di comunicazione sociale in seno alle università cattoliche, emittenti radiofoniche e televisive. Oggi sono operative almeno 163 radio ripartite in 32 paesi (prima del 1994 erano appena 15) che sono gestite ed animate da diocesi, congregazioni ed organizzazioni cattoliche. Qualche diocesi ha un sito Internet; innumerevoli sono le pubblicazioni a livello sia regionale che diocesano o parrocchiale.Nell’agosto 1999 il CEPACS ha pubblicato un piano pastorale continentale intitolato “Per una chiesa comunicativa” dove sono incorporate le raccomandazioni dell'”Ecclesia in Africa”.
Non vi è dubbio che ci sono “evoluzioni positive” ma l'”lnstrumentum Laboris” conferma che non si è dato molto seguito alle decisioni prese. Finora molti non sanno nulla del piano pastorale del CEPACS pubblicato nel 1999. Senza coordinazione e pianificazione la comunicazione (EIA n° 126) non può essere efficace: bisogna dunque stabilire strategie e piani pastorali regionali e nazionali, inimmaginabili, però senza la presenza di risorse umane competenti.
Sembrerebbe opportuno sostenere anche le associazioni dei comunicatori cattolici, “fornendo una sana formazione umana, religiosa e spirituale”. Penso all’UCAP ( Unione cattolica africana della stampa) il ramo continentale dell’UCIP.
Le recenti tecnologie dell’informazione danno luogo a una nuova cultura che chiamiamo digitale. È vero che nel grande contesto africano tale cultura è ancora poco rilevante ma i dati recenti dimostrano che la crescita è sorprendentemente rapida. Tutto questo pone una sfida pastorale alla Chiesa in Africa: come dialogare, come essere presenti, come evangelizzare tale cultura?
È bene infine sottolineare anche l’esigenza di dare vita quanto prima ad una agenzia di stampa continentale per la Chiesa in Africa.
Nello scorso Aprile, il nostro Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, in collaborazione con l’AMECEA, ha organizzato un seminario di studio, per circa 80 giovani, sul tema della comunicazione al servizio della giustizia, della pace e della riconciliazione. Questa prima iniziativa risponde alla esigenza di promuovere a tutti i livelli la formazione. La sfida cui facevo riferimento non si risolve solo con macchine tecnologiche sempre più sofisticate ma soprattutto con persone formate appositamente nel settore della comunicazione. Per questo motivo il Pontificio Consiglio è disponibile a collaborare con le varie Conferenze Episcopali fornendo borse di studio per favorire la formazione di sacerdoti e religiose.
– S. E. R. Mons. Joseph KUMUONDALA MBIMBA, Arcivescovo di Mbandaka-Bikoro (REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO)
Fin dall’insediamento della Chiesa in Africa e in particolare nella RD del Congo, l’istruzione scolastica ha sempre beneficiato di una speciale attenzione da parte della Chiesa. Per quest’ultima, le scuole a tutti i livelli nonché gli istituti superiori e le università rappresentano i luoghi d’apostolato. La Chiesa si è impegnata a garantire una formazione integrale dell’uomo secondo la visione evangelica, per favorire la sua crescita e renderlo capace di mettere i suoi talenti a servizio della comunità.
Tuttavia, la crisi multiforme legata a guerre continue ha provocato conseguenze dolorose nell’ambito dell’educazione. Se non stiamo attenti, queste conseguenze deplorevoli rischiano di protrarsi a lungo poiché un’istruzione trasmessa male compromette il futuro delle nuove generazioni e sacrifica potenzialità che sarebbero potute essere utili a tutta la nazione. Questo è ingiusto e non garantisce la pace poiché i giovani frustrati sono in balia di chi pesca in acque torbide.
In un clima di tolleranza verso pratich
e disoneste, non viene garantita la qualità dell’insegnamento. Gli organizzatori, i gestori e i genitori sono consapevoli che i diplomi consegnati non rappresentano il livello intellettuale e morale idoneo alle esigenze del mondo scientifico e del lavoro. Naturalmente, la Chiesa che continua a investire buona parte del suo personale, non è soddisfatta di questi risultati.
Per migliorare le prestazioni della Chiesa in ambito scolastico, proponiamo:
1. Di ideare un sistema di gestione scolastica che garantisca la libertà della Chiesa nella formazione qualitativa dei giovani;
2. Di sollecitare un accordo diretto tra gli organismi internazionali (UNESCO) e la Chiesa affinché i mezzi stanziati per la formazione dei giovani possano essere impiegati effettivamente e direttamente per la loro educazione;
3. Che le congregazioni che hanno come carisma l’educazione investano maggiormente nelle scuole rivolgendo una particolare attenzione ai bambini delle famiglie povere per evitare l’emergere delle classi sociali;
4. Che la formazione garantita punti alla creazione di posti di lavoro.
In questo modo, siamo certi che la Chiesa in Africa potrà assolvere bene alla sua missione in un ambiente in cui si inventa il futuro; così sarà in grado di garantire a tutti i giovani le stesse opportunità e le stesse possibilità per un futuro di giustizia e pace.
– S.Em.R. Card. Renato Raffaele MARTINO, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (CITTÀ DEL VATICANO)
Nel suo discorso conclusivo durante la conferenza di presentazione in Africa del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (Dar-es-Salaam, Tanzania, 27-30 agosto 2008), il Cardinale Renato Raffaele Martino chiese ai partecipanti di applicare il documento con discernimento alle diverse realtà socioculturali del loro paese, senza aspettare che lo facesse qualcun altro al posto loro o per loro, perché ne andava della responsabilità delle Chiese locali del continente. Fu lieto di constatare che queste avevano contribuito, attraverso numerose iniziative, alla diffusione del Compendio. Spetta agli africani stessi di essere sale della terra e luce del mondo in questo bel continente, così vario e così ricco.
I vescovi sono incoraggiati a trovare le forme più adatte alla diffusione e all’interpretazione corretta della dottrina sociale, a tradurla e a insegnarla, anche nelle lingue africane, in particolare nelle case di formazione sacerdotale e religiosa, nella catechesi, nei centri e negli istituti di studi superiori cattolici, nelle associazioni professionali, soprattutto presso i parlamentari, i politici e i magistrati cattolici.
L’impegno a favore della riconciliazione, della giustizia e della pace e il compito di trasformare le realtà sociali non possono essere realizzati senza l’ispirazione della dottrina sociale della Chiesa, che continua a offrire la sua luce per indicare i cammini dell’uomo, della società e della Chiesa nel mondo attuale.
Per favorire una conoscenza profonda e una migliore diffusione di questa dottrina, suggerisco di creare in Africa un Istituto superiore cattolico, di vocazione continentale e universale, specializzato nell’insegnamento sociale.
– Rev. P. Gérard CHABANON, M. Afr., Superiore Generale dei Missionari d’Africa [Padri Bianchi] (UNIONE DEI SUPERIORI GENERALI)
Vorrei sviluppare il tema del dialogo interreligioso come cammino di riconciliazione. La carta del mondo – e quella dell’Africa in particolare – è costellata di conflitti sanguinosi, alcuni dei quali purtroppo stanno andando avanti da troppo tempo. Penso in particolare alla situazione dei paesi dei Grandi Laghi, ma anche al Darfur. Questi conflitti hanno quasi tutti, senza eccezione, una dimensione e degli elementi religiosi.
Il dialogo interreligioso, come sappiamo, può assumere diverse forme: dal dialogo della vita al l’incontro spirituale. È un cammino stretto, talvolta difficile e pericoloso, che esige anzitutto una grande fiducia nell’altro. Una fiducia che non sia ingenuità, bensì desiderio di comprendere, di conoscere, d’amare. Ritengo che le fondamenta del dialogo interreligioso siano anzitutto gli atteggiamenti spirituali.
Ma questo dialogo non è riservato agli specialisti. In molte grandi città africane rappresenta l’esperienza quotidiana di numerose famiglie cristiane, che condividono lo stesso tetto, la stessa cucina con i loro fratelli e le loro sorelle musulmani. I responsabili nella Chiesa hanno il dovere di aiutare questi cristiani, di illuminarli e di invitarli a camminare insieme verso un futuro migliore. Per fare ciò, dobbiamo tutti superare un certo numero di pregiudizi, di idee preconcette e di propositi allarmisti.
Vorrei, per concludere, fare una proposta concreta. Molte conferenze episcopali, diocesi e parrocchie hanno costituito delle commissioni di Giustizia e Pace. Invece di creare, di aggiungere un’altra commissione per il dialogo interreligioso, suggerisco che in queste commissioni di Giustizia e Pace già esistenti vengano inserite una o due persone sensibili alle questioni interreligiose, che consentirebbero di chiarire, di spiegare e di accompagnare questa dimensione essenziale.
– S. E. R. Mons. Joachim NTAHONDEREYE, Vescovo di Muyinga (BURUNDI)
In Burundi, la duplice esperienza contrastante di una guerra civile omicida e del ben arduo compito di restaurare la pace attraverso la riconciliazione nella giustizia, ci ha convinti dell’esigenza di lavorare assieme, a livello regionale e interregionale.
Benché diversa da un paese all’altro, la storia dei conflitti sociopolitici, nella nostra regione, presenta delle costanti comuni che reclamano la necessità di coniugare e di coordinare gli sforzi nella ricerca della riconciliazione e della pace.
Quindi, noi membri della Conferenza dei Vescovi Cattolici del Burundi, incoraggiati dall’esperienza fatta assieme con la Conferenza Episcopale della Tanzania dal 2002 nella pastorale dei rifugiati e delle persone sfollate a causa della guerra, desideriamo proporre quanto segue: che questa assemblea rinnovi ancora la raccomandazione già proposta dalla Ecclesia in Africa di una “solidarietà pastorale organica” (EA, 131-135). A livello regionale e interregionale dobbiamo avere a cuore la necessità di un lavoro in sinergia mediante organi effettivi di analisi delle situazioni e di coordinamento dell’attività, come pure meccanismi appropriati di controllo e di valutazione.
E per quanto riguarda la Regione dei Grandi Laghi, ripetiamo all’ACEAC e all’AMECEA come pure alle Conferenze Episcopali del Kenya, dell’Uganda, della RDC, del Ruanda e della Tanzania, la nostra proposta di tenere ben presto una Conferenza Internazionale sulla pace e la riconciliazione in questa regione. La Conferenza ci darebbe l’occasione di discutere assieme dell’attuazione di tale raccomandazione e del nostro dovere comune di essere il sale e la luce nella dinamica della Conferenza permanente iniziata dai nostri responsabili politici per la sicurezza, lo sviluppo, la democrazia e il buon governo nella regione.
– S. E. R. Mons. Jean-Claude BOUCHARD, O.M.I., Vescovo di Pala, Presidente della Conferenza Episcopale (CIAD)
Nel corso di questo sinodo diciamo e ripetiamo che la Chiesa-famiglia di Dio è il luogo e il sacramento del perdono, della riconciliazione e della pace, ma in che modo essa esercita questo ministero? Qual è il legame tra i diversi interventi al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace e l’esercizio del ministero sacramentale stesso? E nella vita dei cristiani e delle comunità, qual è il legame tra l’esercizio di questo “ministero della riconciliazione” (2 Cor 5, 18) di cui anch’essi sono depositari in quanto membri della Chiesa, e la celebrazione in Chiesa del sacramento della riconciliazione per se stessi? In altre parole, il sacramento, come viene attualmente celebrato nelle nostre comunità, è il risultato e la fonte del ministero della riconciliazio
ne? Una Chiesa riconciliata che sia anche riconciliatrice? O questo sacramento non diventa piuttosto una sorta di rito, svolto rapidamente, per mettersi in regola personalmente con Dio, lungi da quello che dice l’apostolo Paolo: “la nostra capacità viene da Dio che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3, 5-6).
Lo svolgimento di questo sinodo sulla Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace deve essere per le nostre comunità e per le nostre Chiese un’occasione di rinnovamento del modo di vivere il sacramento del perdono e della riconciliazione? Occorre fare in modo che questo sacramento sia vissuto, individualmente e comunitariamente, “nello Spirito che dà la vita”.
– Rev. Francesco BARTOLONI, C.PP.S., Moderatore Generale dei Missionari del Preziosissimo Sangue (UNIONE DEI SUPERIORI GENERALI)
La Chiesa africana comprende che la riconciliazione è la prima opera di Dio in Cristo. In questo senso, la riconciliazione è più una spiritualità che una strategia, ma deve essere una spiritualità che porti i membri della Famiglia di Dio in Africa a diventare ambasciatori per Cristo (2 Cor 5, 20) capaci di creare uno spazio per la verità, la giustizia, la salvezza e la nascita di in una nuova creazione (2 Cor 5, 17). È questa la spiritualità che guida anche la Chiesa che, quale ambasciatrice di Cristo, deve impegnarsi nel dialogo con la spiritualità delle popolazioni che professano l’Islam e le religioni tradizionali africane.
Ma l’Africa non è soltanto un luogo di sofferenza e di sfruttamento; è anche un continente dove molti paesi stanno vivendo un rapido sviluppo sociale ed economico. La Chiesa ha la grande opportunità di incoraggiare e di guidare tale sviluppo mediante la formazione di una leadership onesta che si adoperi per la felicità e la crescita sociale di tutta la popolazione del paese, senza distinzioni di razza, religione e status sociale. Dobbiamo incoraggiare le popolazioni africane affinché riconoscano e accettino di avere, con l’aiuto di Dio, la capacità di determinare il proprio destino. Qui la Chiesa ha la possibilità di perorare l’importanza incessante delle dimensioni spirituali della cultura, che per lungo tempo sono state al centro della cultura africana.
La Chiesa africana deve rendere testimonianza della riconciliazione avvenuta per mezzo di Cristo e del suo ministero di riconciliazione. Possiamo far ciò, innanzitutto, testimoniando che viviamo come una comunità di fede riconciliata. Non può esservi proclamazione autentica di riconciliazione senza questo primo passo (53). La via per la riconciliazione in Africa inizia col riconoscimento del nostro bisogno di essere riconciliati come Chiesa. Il Corpo di Cristo, che è la Chiesa africana, deve essere unito nell’amore di Cristo. Dobbiamo rappresentare il modello di unità in cui tutte le membra del corpo desiderano condividere la sofferenza di una di esse, così come condividiamo la gioia gli uni degli altri (1 Cor 14, 26). In questo senso, manifestiamo il potere unificante delle acque battesimali e del Sangue Prezioso di Cristo, e possiamo invitare tutti a partecipare al mistero di redenzione di Cristo.
– S. E. R. Mons. Robert Christopher NDLOVU, Arcivescovo di Harare, Presidente della Conferenza Episcopale (ZIMBABWE)
Quanti operano in seno alla Chiesa, a prescindere dalla loro posizione, hanno il dovere e la responsabilità di essere agenti di evangelizzazione e di testimonianza cristiana. Lo stesso vale per le istituzioni ecclesiali. I vescovi devono essere agenti profetici della Parola nel nostro tormentato continente africano. Devono parlare a nome degli oppressi, che invocano il loro Signore affinché li liberi. Nell’assolvimento dei propri compiti devono anche dare un buon esempio di fratellanza nella Chiesa-famiglia di Dio e di unità nella famiglia cristiana. Devono operare inoltre a stretto contatto con i loro sacerdoti, che sono comunque i loro principali collaboratori nell’opera di evangelizzazione. Un motivo di preoccupazione, secondo me, è dato dall’aperto sostegno che alcuni sacerdoti e religiosi offrono a partiti politici. Ciò porta come conseguenza alla divisione delle comunità cristiane che sono chiamati a servire. Non è neppure insolito sentire che alcuni sacerdoti non sostengono le attività di Giustizia e Pace nelle loro parrocchie. È quindi vitale che i candidati al sacerdozio comprendano bene la dottrina sociale della Chiesa durante gli anni della loro formazione. Penso che a questo riguardo la Chiesa non abbia investito abbastanza. Il clero inoltre ha bisogno di una comprensione aggiornata del bisogno di curare a tutti i livelli la sofferenza umana: si tratti di conflitti familiari, di conflitti etnici o di traumi post bellici.
I fedeli laici si trovano in una posizione migliore come efficienti operatori di riconciliazione, di ricomposizione, di giustizia e di pace nelle comunità. È necessaria un’incessante formazione permanente per renderli sempre più efficienti. Tale formazione può attuarsi tramite i programmi delle Piccole Comunità Cristiane o le attività di movimenti e associazioni.
I cattolici in generale hanno la debolezza di non farsi coinvolgere attivamente e fattivamente in politica. Talvolta, quando si impegnano attivamente in politica, diventano agenti di distruzione, come è avvenuto di recente nel mio paese, lo Zimbabwe.
È nostra speranza che il Sinodo possa suggerirci modi adeguati per migliorare le nostre società attraverso un’autentica riconciliazione operando per una giustizia e una pace sostenibili nel nostro amato continente.
– S. E. R. Mons. Evaristus Thatho BITSOANE, Vescovo di Qacha’s Nek, Presidente della Conferenza Episcopale (LESOTHO)
La Chiesa in Lesotho, come molte altre Chiese locali in Africa, è impegnata nei settori della salute, dell’istruzione e del servizio ai poveri.
Il Lesotho è cattolico per circa il 50% e la Chiesa ha la maggioranza di scuole nel paese. Date queste premesse, si potrebbe sperare che i principi cattolici prevalgano nello sviluppo del paese. Al contrario, le persone accolgono qualsiasi cosa che consenta loro di portare il pane a tavola, anche se si oppone al magistero della Chiesa.
Molti paesi africani hanno sottoscritto il Protocollo di Maputo e il Lesotho non fa eccezione. Anche se i servizi offerti dai nostri ospedali cattolici sono apprezzati da molti, temiamo che numerosi aborti verranno effettuati in cliniche private.
Ciò di cui la Chiesa del Lesotho ha urgente bisogno al fine di continuare a svolgere il suo servizio ai poveri è che le Chiese sorelle dei paesi sviluppati facciano pressione sui loro governi affinché non impongano ideologie che sono estranee agli africani.
In questo periodo di transizione verso l’indipendenza finanziaria, l’Africa ha ancora bisogno del sostegno delle Chiese sorelle del mondo sviluppato.
– S. E. R. Mons. Franklyn NUBUASAH, S.V.D., Vescovo titolare di Pauzera, Vicario Apostolico di Francistown (BOTSWANA)
Il Botswana è un piccolo paese democraticamente stabile con un buon governo e rispettoso delle leggi. Siamo un paese di medio benessere, che attira gente dalle altre parti dell’Africa. Siamo un asilo di pace perché non abbiamo mai conosciuto guerre e conflitti nel nostro paese. Un gran numero di profughi vi ha cercato asilo. Abbiamo la pace grazie al ricorso tradizionale al “kgotla”, cioè alla corte del governatore, dove il dialogo è rispettato. È nostra convinzione che la guerra peggiore sia quella delle parole. La chiesa ha introdotto questa pratica culturale nelle parrocchie per aiutare a creare e a promuovere la pace e la comprensione.
In questo momento si vive una certa tensione nei settori delle nostre risorse, del mercato del lavoro e dell’assistenza sanitaria provocata da quanti soffrono della situazione socio-politica della regione. Ci preoccupa la xe
nofobia, dovuta alla gravità dell’attuale crisi economica. La Chiesa si è schierata con la gente nel promuovere la pace e la fratellanza. Le minoranze non sono mai dovute ricorrere alla violenza per far conoscere i loro problemi.
L’AIDS rappresenta una sfida per i paesi dell’Africa meridionale. Il Botswana sta lavorando duramente per prevenire nuove infezioni. Le cure sono disponibili ai cittadini, ma purtroppo non ai rifugiati e agli stranieri che vivono nel paese. L’AIDS ha distrutto le fondamenta della società del Botswana. Ha il potenziale di servire come arma di guerra o di conflitti. Come si può perdonare qualcuno che ti ha infettato volontariamente con il virus killer?
La Chiesa cattolica è in Botswana soltanto da 81 anni e conta il 4% della popolazione. I nostri istituti di istruzione hanno contribuito all’educazione e alla formazione di leaders del paese, promuovendo in tal modo la prevalente cultura della pace.
La Chiesa opera anche, a livello ecumenico, col Consiglio Mondiale delle Chiese e altre ONG per alleviare le sofferenze e promuovere la fratellanza, eliminando così la necessità di farsi guerra per magre risorse. Cerchiamo di essere il sale che conserva la pace, restando fedeli alle nostre pratiche culturali che promuovono la pace. La Chiesa in Africa può imparare dalle esperienze del Botswana nel promuovere la pace.
– Rev. P. Jacob BEYA KADUMBU, C.I., Vicario Generale dei Giuseppini del Belgio (UNIONE DEI SUPERIORI GENERALI)
Il primo sinodo africano aveva definito le Comunità Ecclesiali Viventi (CEV) una priorità pastorale delle Chiese d’Africa. Per questo, la Chiesa in Africa non può cogliere le sfide della riconciliazione, della giustizia e della pace trascurando l’esperienza e il contributo di queste piccole comunità.
Esse sono luoghi di prevenzione e di risoluzione dei conflitti, luoghi in cui il mistero di Cristo si rivela e diventa una realtà conosciuta, creduta e vissuta. In queste comunità regnano la gratuità, la solidarietà, un destino comune; ciascuno è spinto a costruire la Famiglia di Dio, famiglia completamente aperta sul mondo e che non esclude nessuno.
Purtroppo, questo approccio è ben lungi dall’essere reale, come dimostrano alcuni massacri e saccheggi in Africa in cui sono coinvolti alcuni membri delle CEV. La sincerità della loro fraternità e della loro solidarietà è rimessa in discussione. È dunque necessario e urgente che la fraternità umana delle CEV cessi di fondarsi sul sangue per radicarsi nella fede in Gesù Cristo.
Oltre al sacramento della riconciliazione, strumento privilegiato di riconciliazione con Dio, con se stessi e con gli altri, le CEV vivono altre esperienze di riconciliazione, come la “palabre” che non possiamo sottovalutare.
In definitiva, le CEV continuano a essere i luoghi di celebrazione e di vita delle virtù teologali.
– S. E. R. Mons. Cyprian Kizito LWANGA, Arcivescovo di Kampala (UGANDA)
Per realizzare la visione della Caritas Africa, che è quella di avere la vita e averla in abbondanza (Gv 10, 10), riteniamo che la nostra missione sia quella di rendere testimonianza all’amore di Dio (At 1, 8) lavorando allo sviluppo integrale dell’essere umano con un’attenzione prioritaria ai poveri e ai più bisognosi. L’Africa affronta quotidianamente sfide enormi e fasce estese della popolazione di molti paesi africani sono afflitte dai conflitti, dal malcontento sociale, dalle guerre, dalle catastrofi naturali e dalle calamità quali siccità, inondazioni e cicloni. Le malattie, compreso l’AIDS/HIV, la malaria e altre patologie di cui si parla meno, causano molte difficoltà alle persone e alle famiglie.
In ogni paese, la Caritas è presente per affrontare questi numerosi problemi e per portare sollievo ai membri più deboli della società. Il ruolo della Caritas, tuttavia, non è solo quello di intervenire in situazioni di emergenza e di offrire assistenza. Il suo ruolo va ben oltre questa fase. È infatti chiamata a contribuire allo sviluppo integrale delle persone. Tale missione combinata della Caritas viene spesso fraintesa, ma è comunque ben svolta nel continente africano.
Una rapida occhiata al lavoro che le organizzazioni della Caritas in Africa svolgono dietro le quinte mostra il largo spettro di attività che vengono svolte in ogni paese africano. Il potenziamento delle comunità, l’educazione e la formazione finalizzata allo sviluppo delle aree rurali, la sanità, la gestione ambientale, la capacità di creare uno sviluppo sostenibile, la formazione alla gestione delle abilità personali, la formazione a governare e la consulenza psico-sociale sono alcune delle attività che numerose organizzazioni della Caritas in Africa condividono. Esse contribuiscono pienamente e nel vero senso della parola alla riconciliazione e alla promozione della giustizia sociale nei paesi dove operano.
L’operato di molte organizzazioni nazionali della Caritas in Africa è sostenuto da vari partner dei paesi sviluppati di altre regioni del mondo. Questa efficace collaborazione è assai lodevole. Come confederazione condividiamo valori e principi comuni, rispettiamo la dignità degli esseri umani, crediamo nella solidarietà e nella condivisione, ci dedichiamo al servizio e siamo convinti che la sussidiarietà sia la chiave per la cooperazione armonica fra partner.
– S. E. R. Mons. Jorge Enrique JIMÉNEZ CARVAJAL, C.I.M., Arcivescovo di Cartagena en Colombia (COLOMBIA)
Migliaia e migliaia di esseri umani di razza nera giunsero in America per essere venduti all’asta e condannati a lavorare fino alla morte.
Cartagena ebbe la triste fortuna di essere uno dei porti principali di questo infame commercio, ma ebbe quella più grande di accogliere la grande testimonianza di santità del gesuita Pedro Claver, apostolo degli schiavi, il cui corpo riposa nella nostra Cattedrale, il quale visse per proteggerli, guidarli verso la fede e insegnar loro l’amore verso Dio e l’amore di Dio, amore che senza dubbio li aiutò a sopravvivere e che oggi permette loro di esprimersi dalla prospettiva della fede cristiana.
Pedro Claver aspettava le “navi negriere” in un’ottica diversa da quella di coloro che commerciavano con esse. Per quei trafficanti, arrivavano “schiavi da lavoro”, ma per l’apostolo arrivavano “figli di Dio” che chiedevano di conoscere tutta la verità del Vangelo. Dunque il Nero cresce nella Fede e la vive, ma si domanda perché il compagno, che professa la stessa fede, usi la frusta e non trova risposta.
Tutto questo capitolo della “Storia Universale dell’Infamia”, come la chiama Sábato, è stato scritto 15 secoli dopo l’avvento di nostro Signore Gesù e fa parte di una tenebra che dobbiamo lasciarci alle spalle per raggiungere livelli di dignità più elevati in un mondo “falsamente globalizzato”.
L’Africa è la “Grande Patria” di tutte le nostre nigrizie, dal Canada fino alla Terra del Fuoco, ivi compresa la meravigliosa presenza di questa razza nelle Antille e nei Caraibi.
Tante delle cose che hanno reso grande il Continente americano sono state possibili unicamente grazie al contributo dei neri, eredi di tante ricchezze ancor oggi sconosciute, eredi di una grande abbondanza di simboli che con il tempo avrebbero arricchito il messaggio cristiano, eredi di quella stessa gioia con cui i loro antenati abbracciarono la fede, non importa quanto la vita sia stata dura con loro. La storia dell’Africa in America non è storia di ieri, è un oggi vivo!
Per tale motivo credo che questo Sinodo debba spendere una parola per i neri americani (spero che abbiate notato che uso la parola “americano” per riferirmi a tutta l’America, quella del nord, quella centrale, quella delle Antille, quella caraibica e quella del sud). Gran parte del loro cuore è ancora vivo e continuerà a vivere in Africa, per tanto percepiranno e vivranno come proprio ciò che accadrà in quel continente.
– S. E. R. Mons. Velasio DE PAOLIS, Arcivescovo titolare di Telepte, Presi
dente della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede (CITTÀ DEL VATICANO)
Il tema della giustizia occupa un posto fondamentale nella riflessione di questa assemblea. Essa è nel titolo, e percorre anche tutto il testo dello Instrumentum Laboris, come pure della Relatio ante disceptationem.
La vita cristiana ha alla radice l’amore cristiano, che Gesù presenta come segno della sua presenza nei suoi discepoli (Cf. 13, 25). Ma la realizzazione della testimonianza dell’ amore passa necessariamente attraverso la testimonianza della giustizia.
Il concetto rigoroso di giustizia, che appartiene all’antichità ed è stato elaborato e perfezionato dalla tradizione cristiana come virtù che dà a ciascuno ciò che gli spetta fa parte del patrimonio cristiano; anzi nella fede cristiana assurge ad uno splendore nuovo, perché nella fede cristiana risplende in modo luminoso la dignità della persona umana, con la serie dei diritti e doveri, che ne sono il prolungamento. La giustizia così, pur strada dell’ amore e via all’amore, e quindi aperta alla gratuità e all’amore, conserva un suo ruolo specifico, come sottolinea il Santo Padre Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate, n. 6.
La giustizia deve essere tradotta nella prassi; anzi è la prassi che costituisce la verifica della dottrina che si enuncia. Sarebbe vano proclamare i diritti, se essi non fossero protetti con mezzi adeguati. La giustizia si instaura con una retta amministrazione della giustizia, che assicura all’interno della comunità il suum per ogni fedele. Questo presuppone che esistano e vengano rettamente usati mezzi adeguati, si rispettino le, leggi della Chiesa, attraverso gli organismi competenti, particolarmente attraverso i tribunali previsti dalla legislazione canonica. La giustizia viene garantita quando tutti si sottomettono alla stessa legge della Chiesa e si rispettano i diritti di tutti. Si esige soprattutto che l’esercizio dell’autorità sia veramente evangelico, come servizio alle persone, secondo l’insegnamento di Gesù e sul suo esempio. Come i discepoli si riconoscono dalla pratica dell’ amore evangelico, analogamente l’esercizio dell’ autorità in modo evangelico si riconosce dal fatto che è attuato ad immagine del Figlio dell’uomo che è venuto non per essere servito, ma per servire e fare dono della propria vita.
– S. E. R. Mons. Joseph Mukasa ZUZA, Vescovo di Mzuzu (MALAWI)
Nel promuovere la riconciliazione, la giustizia e la pace, la Chiesa cattolica deve lavorare insieme alle altre Chiese cristiane e ai musulmani. In Malawi la Chiesa cattolica offre servizi sanitari, educativi, orientati allo sviluppo e all’amministrazione pubblica, mediante i seguenti organismi ecumenici e interreligiosi:
– Commissione per gli Affari Pubblici (PAC) che si occupa di educazione civica, diritto, costituzionalismo e buon governo.
– Commissione Cristiana per i Servizi (CSC), che si occupa di sviluppo.
– Associazione cristiana sanitaria del Malawi (CHAM), che coordina e offre consulenza alle Chiese in materia di sanità.
– Associazione degli Educatori Cristiani del Malawi (ACEM) che coordina le attività educative delle Chiese.
– Associazione Interreligiosa del Malawi per la cura dell’AIDS, che coordina e sostiene le comunità di fede che si occupano di HIV/AIDS.
– Centro Ecumenico di Consulenza (ECC), che si occupa di formazione alla consulenza, soprattutto in materia di AIDS/HIV.
Mentre siamo grati di lavorare tutti insieme in queste istituzioni ecumeniche e interreligiose, dobbiamo riconoscere che esistono ancora diffidenza e cattiva volontà. È una sfida, ma noi continuiamo a lavorare insieme per il bene della nostra gente e della nostra nazione, il Malawi, il Cuore Caldo dell’Africa.
Successivamente, è intervenuto il Delegato fraterno Sua Grazia Bernhard NTAHOTURI, Arcivescovo della Provincia della Chiesa Anglicana di Burundi (BURUNDI), di cui segue l’intervento:
Il tema scelto per questo Sinodo è un argomento che riguarda l’Africa di oggi. Attraverso questa Assise, la Chiesa (cattolica) rende manifeste le sfide della sua opera pastorale a favore della società africana. La Chiesa invita tutti i suoi membri e gli altri cristiani, come pure gli altri credenti e le persone di buona volontà, a una dinamica orientata alla rivelazione di un Dio creatore e salvatore dell’umanità; un Dio d’amore e fonte di vita, per trasformare le situazioni in cui l’africano è chiamato a vivere.
Quando ci guardiamo intorno, nel profondo dell’Africa, osserviamo numerose situazioni preoccupanti, quali la degenerazione generalizzata della qualità della vita, l’insufficienza dei mezzi per l’educazione dei giovani, la carenza di servizi sanitari e sociali elementari, senza contare la persistenza di malattie endemiche, la terribile epidemia dell’AIDS, l’orrore delle guerre fratricide alimentate da un traffico di armi senza scrupoli, lo spettacolo vergognoso e avvilente dei rifugiati e dei profughi, ecc.
L’Africa si sta muovendo verso la crescita, non è statica. L’Africa è in moto in tutte le direzioni: politica, economica, sociale e culturale, e soprattutto spirituale. L’Africa è un continente di opportunità. La Chiesa-famiglia di Dio in Africa deve essere caratterizzata dal senso profondo di una fratellanza che va oltre i limiti della propria famiglia, della propria tribù od etnia, lungo la via sacra che riporta a Cristo, pienezza di vita. Poiché Lui è vivo, noi vivremo e i membri della famiglia ecumenica risponderanno “presente” all’appuntamento della fraternità.
Sono intervenuti i seguenti Uditori e Uditrici:
– Rev.da Suora Felicia HARRY, N.S.A. (O.L.A.), Superiora Generale delle Suore Missionarie di Nostra Signora degli Apostoli (GHANA)
Collaborazione è la parola chiave nella ricerca di riconciliazione, di pace e di giustizia da parte della Chiesa nell’Africa attuale. Noi religiose d’Africa vorremmo vedere una maggior collaborazione fra noi e le Autorità della Chiesa nello sforzo congiunto di portare il messaggio di Cristo alla nostra gente. Collaborazione non soltanto quando le decisioni già prese devono essere applicate, ma prima, cioè partecipando al processo decisionale contribuendovi con il nostro “genio” femminile della dolcezza, della tenerezza, della disponibilità all’ascolto e al servizio degli altri (cfr Il, 114), in modo da poter influire sulla vita delle parrocchie dove lavoriamo. Inoltre le religiose africane, che insegnano il catechismo ai bambini, decorano le chiese parrocchiali, puliscono, rammendano e cuciono vestiti, vorrebbero fare parte dei diversi consigli parrocchiali. Non vogliamo restare al margine del corpo principale della parrocchia, vogliamo esserne parte integrante. Non vogliamo accollarci le responsabilità del sacerdote che guida la parrocchia, vogliamo solo essere considerate alla pari nella vigna del Signore; vogliamo condividere la responsabilità della Chiesa nell’operare per la riconciliazione, la pace e la giustizia nel nostro continente.
L’adagio secondo cui la carità comincia a casa propria non è fuori luogo in questo contesto. Se la nostra Chiesa in Africa spera nella riconciliazione, nella pace e nella giustizia per il nostro continente, dobbiamo incominciare dall’interno. Come? Ecco alcuni suggerimenti:
-Nessun gruppo dovrebbe ritenersi superiore allo scopo di dominare sugli altri;- Dovrebbe operarsi un cambiamento di mentalità verso le donne, specialmente le religiose, nella Chiesa africana;
– Tutti dovrebbero convertirsi in cuor loro.
– Rev. P. Seán O’LEARY, M.Afr., Direttore dell’Istituto “Denis Hurley Peace” (SUDAFRICA)
Il Denis Hurley Peace Institute (DHPI) è stato istituito dalla Conferenza episcopale del Sudafrica (SACBC) al fine di condividere con altri la storia tragica del passato del Sudafrica, un passato fondato sul razzismo costituzionale; il miracolo della transizione che introdusse l’alba della vera democrazia, nonché le ardue sfide della costr
uzione, ricostruzione e riconciliazione che sono oggi il vero nucleo dell’opera della Chiesa in Sudafrica.
L’esperienza ci ha mostrato che l’enorme impatto della Chiesa cattolica sul continente raramente viene avvertito nelle situazioni di conflitto. I tentativi della Chiesa di intervenire nei conflitti restano aleatori. Dobbiamo sostenere maggiormente i vescovi e le diocesi che si trovano sulla linea del fronte. In questa stessa stanza, molte persone che hanno vissuto l’esperienza della guerra nel loro territorio hanno saputo mantenere viva la speranza nel cuore della loro gente per molti anni, in condizioni quasi disperate. Questi sono eroi, di cui non si celebrano le gesta!
Il suggerimento della Conferenza episcopale del Sudafrica è che vengano identificate le persone giuste (vescovi, sacerdoti, religiosi e laici) per essere formate a vegliare sulla pace, sui negoziati e sul mantenimento delle fragili strutture della stessa. Allo scoppio di un conflitto concreto o potenziale, due o tre di queste persone ben formate potrebbero essere invitate a intervenire nel paese in questione, soprattutto a sostegno della Chiesa locale di quell’area. L’idea sarebbe sempre quella di offrire sostegno alla Chiesa locale.
Tale iniziativa si tradurrebbe nell’istituzione di un nostro gruppo di “Pastori della Pace”, come conseguenza diretta di questa augusta Assemblea.
Non è mia intenzione oberare la Commissione Pontificia di Giustizia e Pace con altro lavoro, ma ritengo che sia l’autorità più competente della Chiesa per poter organizzare una simile iniziativa.
– Rev.da Suora Pauline ODIA BUKASA, F.M.S., Superiora Generale delle Suore “Ba-Maria”, Buta Uele (REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO)
La donna africana è emarginata a tutti i livelli. È quasi esclusa dal processo globale dello sviluppo del continente. È vittima degli usi e costumi ancestrali ed è lei, attualmente, a portare il peso di tutti i conflitti armati che lacerano l’Africa e in particolare la Repubblica Democratica del Congo. In questo momento, in cui la Chiesa in Africa si impegna a lavorare per la riconciliazione dei suoi figli e delle sue figlie, la donna non può più essere ignorata. Ha un grande ruolo da svolgere.
Ai nostri giorni, il dinamismo e la determinazione delle donne a provvedere alla sopravvivenza delle loro famiglie, a stare con i loro figli e ad educarli, è una risorsa da capitalizzare per il suo pieno coinvolgimento nel processo della riconciliazione in vista della pace autentica.
Pur riconoscendo gli sforzi che già mettete in atto a favore della dignità della donna, noi, le vostre mamme e donne consacrate, chiediamo a voi, Vescovi nostri Padri in questa Chiesa-Famiglia, di: promuovere la dignità della donna assicurandole gli spazi necessari perché possa sviluppare i propri talenti all’interno delle strutture ecclesiali e sociali; promuovere le associazioni o le ONGS femminili che già lottano per la promozione della donna mediante l’alfabetizzazione e l’educazione; riprendere e creare scuole della Chiesa cattolica per assicurare ai giovani un’educazione ai valori cristiani, africani e umani in grado di consolidare la struttura familiare; denunciare tutte le violazioni fatte contro le donne, i bambini e tutto il popolo e dire ad alta voce agli autori di questa tragedia, a livello nazionale e internazionale, la grave responsabilità che hanno davanti a Dio e davanti alla storia. E che giustizia sia fatta.
– Rev.da Suora Geneviève UWAMARIYA, Suora di Santa Maria di Namur (RWANDA)
Condividerò con voi la mia esperienza di riconciliazione con i detenuti presunti autori dei genocidi. E vi metterò a parte dei frutti della mia testimonianza presso di loro e presso le loro vittime sopravvissute.
Sono una sopravvissuta al genocidio dei Tutsi del Rwanda nel 1994.
Gran parte della mia famiglia è stata massacrata nella nostra chiesa parrocchiale. La vista di questo edificio mi riempiva di orrore e di ribellione, proprio come l’incontro con alcuni detenuti mi riempiva di disgusto e di rabbia.
È in questo stato d’animo che mi accadde un fatto che ha cambiato la mia vita e i miei rapporti.
Il 27 agosto 1997, alle 13.00, un gruppo dell’associazione delle “Dame della misericordia divina” mi portarono in due prigioni della regione di Kibuye, la mia città natale. Venivano per preparare i detenuti al giubileo del 2000. Dicevano: “Se hai ucciso, ti impegni a chiedere perdono alla vittima sopravvissuta, così l’aiuti a liberarsi dal peso della vendetta, dell’odio e del rancore. Se sei vittima, ti impegni ad offrire il tuo perdono a colui che ti ha fatto torto, così lo aiuti a liberarsi dal peso del suo crimine e dal male che c’è in lui”.
Questo messaggio ebbe su di me un effetto inaspettato…
Dopo di questo, uno dei prigionieri si alzò in lacrime, cadde in ginocchio davanti a me supplicandomi dicendo ad alta voce: “misericordia”. Rimasi pietrificata riconoscendo l’amico di famiglia che era cresciuto con noi e aveva condiviso tutto.
Mi confessò di essere stato lui ad uccidere il mio papà e mi descrisse nei particolari la morte dei miei.
Un sentimento di pietà e di compassione m’invase, lo rialzai, lo abbracciai e, singhiozzando, gli dissi: “sei e rimani mio fratello”. In quel momento sentii come un peso cadere… Ritrovai la pace interiore e ringraziai colui che ancora stringevo fra le braccia.
Con mia grande sorpresa, lo udii gridare: “la giustizia può fare il suo corso e condannarmi a morte, adesso sono libero!”.
Anch’io volevo gridare a chi voleva ascoltarmi: “vieni a vedere ciò che mi ha liberato, puoi ritrovare anche tu la pace interiore”.
A partire da quel momento, la mia missione fu di percorrere chilometri per portare la posta dei detenuti che chiedevano perdono ai sopravvissuti. Così furono distribuite 500 lettere mentre riportavo anche le lettere di risposta dei sopravvissuti ai detenuti ridiventati miei amici e miei fratelli… Ciò ha permesso degli incontri fra i carnefici e le vittime. Vi sono stati numerosi gesti concreti a marcare la riconciliazione:
– un villaggio per vedove e orfani del genocidio è stato costruito dai detenuti;
– come pure il memoriale davanti alla chiesa di Kibuye;
– in varie parrocchie, sono nate delle associazioni di ex-detenuti con sopravvissuti e funzionano molto bene.
Da questa esperienza, deduco che la riconciliazione non è tanto voler riportare assieme due persone o due gruppi in conflitto. Si tratta piuttosto di rimettere ciascuno nell’amore e lasciare che avvenga la guarigione interiore che permette la liberazione reciproca.
E sta in questo l’importanza della Chiesa nel nostro paese, dato che essa ha come missione offrire la Parola: una parola che guarisce, libera e riconcilia.