ROMA, venerdì, 30 aprile 2010 (ZENIT.org).- Dopo un periodo di forte crisi seguito al Concilio Vaticano II, oggi si avverte sempre più il bisogno di dare nuova linfa a un’apologetica che, pur rimanendo nel solco della tradizione, sia capace di rispondere più direttamente ai quesiti degli uomini del nostro tempo.
E’ quanto è emerso in sintesi dal Congresso internazionale dal titolo “Una nuova apologetica per un nuovo millennio”, tenusoti a Roma il 29 e 30 aprile, presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, in cui sono stati approfonditi quei motivi di credibilità della fede cattolica che permettono di proclamare in maniera convincente ed esporre i contenuti della rivelazione con un linguaggio comprensibile per i contemporanei.
Nel saluto al convegno padre Pedro Barrajón, L.C., Rettore dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, ha detto che “oggi l’oppositore alla fede non ha un volto preciso. È piuttosto una corrente difficile da definire e da precisare che si ispira a correnti relativiste e laiciste”.
“La fede – ha continuato – è messa in questione non solo con argomentazioni di ragione ma soprattutto con la presentazione parziale di fatti storici che hanno conquistato ampi spazi culturali e mediatici dove si evidenziano gli errori degli uomini di Chiesa”.
Tuttavia, ancora oggi, la domanda su Dio e quindi sul senso della vita rimane “la più grande sfida dell’uomo contemporaneo”. E infatti “il fenomeno religioso non solo sopravvive a chi voleva ucciderlo, ma sembra più dinamico, operativo e influente nella vita sociale, culturale, economico e addirittura politica”.
Allo stesso tempo, però, si assiste a “un revival delle diverse forme di religiosità, un fenomeno per alcuni imprevisto, per altri inquietante”, soprattutto negli antichi paesi di ispirazione cristiana dove “l’offuscamento della fede convive con forme di ricerca appassionata di una verità che sazi pienamente il desiderio dell’uomo di luce e di amore”.
Armonia tra fede e ragione
Nel suo intervento mons. Giuseppe Lorizio, docente ordinario di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Lateranense e l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater”, ha parlato dell’urgenza di restaurare l’armonia tra fede e ragione.
“Oggi – ha detto – si può con sollievo prendere atto di un generalizzato, anche se forse non ancora unanime, consenso dei teologi fondamentali intorno alla necessità di riprendere, accanto alla dimensione dogmatica della propria area disciplinare, la riflessione relativa alla dimensione apologetica della stessa”.
Per recuperare una rinnovata armonia tra fede e ragione, però, occorre “partire dal carattere prismatico dell’atto di fede, dove è possibile all’interno di ciascuna delle sue dimensioni fondamentali (affettività, volontà libera e conoscenza) attivare percorsi che siano in grado di recuperare l’integralità dell’atto stesso, superando ogni riduzionismo tendente ad enfatizzare ed assolutizzare ciascuno di questi aspetti”.
“L’urgenza del recupero di tale armonia – ha continuato – è determinata dalla necessità di porre al riparo la fede stessa da ogni possibile deriva fondamentalista e dalla altrettanto perniciosa esclusione del credere dalla vita pubblica e dalla convivenza civile di popoli e nazioni”.
Mons. Lorizio ha quindi incoraggiato a “raccogliere la sfida di chi ha recentemente definito la fede una ‘pubblica virtù’ (Michael Walzer), con la consapevolezza che, quando ciò accade, non esprime il tutto della fede”.
“Essa resta in effetti – ha spiegato – una realtà complessa e al tempo stesso misteriosa”, soprattuto nel suo carattere di dono che non va disgiunto dall’aspetto “della scelta, del coinvolgimento affettivo e dell’esercizio della ragione”.
“Come se Dio ci fosse”
Nel prendere la parola il prof. Corrado Gnerre, docente di Storia delle Dottrine teologiche all’Università Europea di Roma, ha illustrato il modello di apologetica indicato da Benedetto XVI con una celebre espressione che da Cardinale pronunciò a Subiaco, il 1° aprile 2005, a pochi giorni dalla sua elezione al Soglio pontificio.
In quell’occasione disse: “Dovremmo (…) capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita ‘ veluti si Deus daretur’, ‘come se Dio ci fosse’.”
L’affermazione del Papa, ha spiegato il prof. Gnerre, “non si presenta come una sorta di opzione fra le tante (ma più conveniente) nel senso esclusivamente pascaliano; bensì un’affermazione che non esclude ma completa l’evidenza razionale di Dio: Dio esiste ed è dimostrabile (Sapienza 13,1)…inoltre è conveniente sul piano esistenziale credere in Lui. Insomma: credendo in Dio l’uomo non solo rispetta la recta ratio ma è anche più felice, vive anche meglio”.
L’intuizione di Benedetto XVI, ha commentato, cioè quella di voler “ricostruire la struttura fondamentale del rapporto uomo-reale, partendo dall’imprescindibilità della presenza di Dio” è tutt’altro che un’espressione “morbida” sul piano metafisico.
Correnti filosofiche contro il cristianesimo
Nel suo intervento, invece, Giacomo Samek Lodovici, docente di Storia delle dottrine morali e Ricercatore in filosofia morale all’Università Cattolica di Milano, ha tratteggiato i lineamenti fondamentali di alcune delle principali correnti filosofiche in contrasto con il cristianesimo: il nichilismo, il relativismo, lo scientismo ed il consequenzialismo.
Il nichilismo, ha spiegato, sostiene che Dio non esiste però “non formula una prova filosofica convincente dell’inesistenza di Dio. Infatti, i discorsi sull’origine del concetto di Dio (di Marx, Freud e Nietzsche) non dimostrano che Dio non esiste: quand’anche fosse esatta, l’analisi sull’origine di un concetto è diversa dall’analisi sulla verità o falsità del concetto stesso”.
“Se poi la dimostrazione dell’inesistenza di Dio viene individuata nel suicidio – ha aggiunto –, come ritiene Kirillov (ne I demoni di Dostoevskij), si può rispondere che Dio non asseconda le sfide dell’uomo e lo lascia a tal punto libero da consentirgli di suicidarsi”.
Per il relativismo, invece, la verità non esiste ed è inconoscibile, ma così facendo cade in contraddizione” perché “proprio mentre dice: ‘tutto è soggettivo’ pretende di dire qualcosa di oggettivo, cioè che: ‘tutto è soggettivo’” e “proprio mentre dice: ‘tutto è relativo’, pretende di dire qualcosa di assoluto, cioè che: ‘tutto è relativo’”.
“E se l’affermazione relativista presenta se stessa come un’interpretazione che non pretende di essere vera, allora si cade in un regresso all’infinito – ha spiegato il docente –. Ma un’infinità di interpretazioni comporta almeno una conoscenza vera: se infinitamente interpretiamo di interpretare è vero (perlomeno) che stiamo interpretando”.
Per lo scientismo, “solo la scienza può conoscere la verità, solo gli enunciati scientifici hanno un valore conoscitivo” pertanto “l’etica, la religione, la filosofia, l’estetica, ecc. sono squalificate e l’uomo non può indagare sulle grandi domande esistenziali, su Dio, sull’immortalità dell’anima, sul bene/male, sulla libertà, ecc”.
“Un enunciato è scientifico solo se il suo oggetto è suscettibile di una quantificazione-misurazione – ha detto il docente –. Tuttavia, l’affermazione: ‘un enunciato è scientifico solo se il suo oggetto è quantificabile-misurabile’ non ha un oggetto quantificabile e misurabile, perciò (mantenendo i presupposti dello scientismo) non ha portata conoscitiva, non può dire la verità e dunque lo scientismo si autosqualifica”.
Nel consequenzialismo, poi, “la m
oralità degli atti va giudicata esclusivamente in base alle loro conseguenze, dunque non esistono atti intrinsecamente e sempre malvagi, né una dignità intangibile dell’essere umano”.
“Ora, però, le conseguenze di un atto non sono quasi mai definitive, bensì sono gravide di altre conseguenze, le quali producono ulteriori conseguenze e così via all’infinito. Pertanto, è impossibile calcolare le conseguenze dell’agire, dato che l’uomo non può conoscere il futuro”.
“In questo modo, tutto diventa lecito e permesso, dato che non esistono né il bene né il male, in quanto gli atti umani non sono né buoni né malvagi”, ha concluso.
I temi della nuova apologetica
Dal canto suo don Pietro Cantoni, docente di Metafisica ed Ecclesiologia presso lo Studio Teologico Interdiocesano “Mons. Enrico Bartoletti” di Camaiore (LU), ha affermato che i temi della nuova apologetica, pur potendo inserirsi nella sequenza divenuta classica di demonstratio religiosa, demonstratio christiana, demonstratio catholica secondo i tre soggetti fondamentali – Dio, Gesù Cristo e la Chiesa –, devono tuttavia adattarsi ai diversi interlocutori e al contesto in cui si trovano.
Ad esemprio, ha osservato, il tema “’Chiesa cattolica’, alla luce di un ecumenismo malinteso e frainteso” è “rimasto un po’ troppo in ombra. All’interno della Chiesa cattolica esistono infatti delle tensioni che, pur essendo ‘interne’ hanno un evidente significato apologetico. Una di queste si polarizza attorno al Concilio Ecumenico Vaticano II”, e sul suo valore di rottura o di continuità.
A questo proposito, ha spiegato, “la Chiesa è una realtà vivente” e che “per una non debole analogia, si identifica con Cristo stesso. Ne è infatti il Corpo. Si tratta quindi di una realtà viva, che nella storia è soggetta a sviluppo. Uno sviluppo non ‘tranquillo’ e scontato, ‘meccanico’, ma, ad immagine di Cristo, travagliato, combattuto e spesso ‘crocifisso’”.
“Una metodologia corretta sia teologicamente che apologeticamente – ha continuato –, non si affanna a ‘dimostrare’ direttamente la continuità. Per due fondamentali ragioni: il contenuto è il mistero di Cristo e il mistero non si dimostra, ma se ne mostra piuttosto la credibilità, mettendo in luce la sua armonia interna, sia sincronica che diacronica e confutando le obiezioni che vorrebbero evidenziarne le distonie e le rotture”.
“Non si dimostra – ha precisato – anche perché la continuità è presupposta, come il dato da cui si parte: l’onere di provare che essa non sussiste sta tutto dalla parte di chi la mette in discussione”.