Pasqua: la Pace viva che zampilla dal fondo dell’anima

VI Domenica di Pasqua, 9 maggio 2010

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di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 7 maggio 2010, (ZENIT.org).- “Gli disse Giuda, non l’Iscariota: ‘Signore, com’è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?’. Gli rispose Gesù: ‘Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la da’ il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate’” (Gv 14,23-29).

Il primo messaggio comunicato dal volto dell’Uomo della Sindone, anche a chi lo fissa senza fede, è un arcano senso di pace, definitiva, inalienabile; una pace viva che non sembra provenire dal regno dei morti. Per il credente, questa pace ha il sapore della gioia, poiché egli riconosce nell’Uomo della Sindone il “Vivente”, colui che “era morto, ma ora vive per sempre ed ha potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,18).

Il primo istante di questo “ora” eterno, è rimasto impresso nella Sindone come traccia luminosa della “Vita oltre la vita”; e come l’angelo Gabriele rallegrò Maria con l’annuncio dell’Incarnazione, così la Sindone rallegra il credente con l’annuncio della Risurrezione. Quest’immagine misteriosa è l’istantanea del ritorno al Padre di Colui che era disceso dal Cielo per abitare trentatre anni e nove mesi in mezzo a noi. Dal volto silenzioso e come addormentato di quest’Uomo, traspare l’abisso insondabile della Vita divina, la Vita tout-court, quella Vita Increata che è all’origine di ogni vita.

In un cadavere umano il volto fa pensare ad un cielo invernale, gelido, plumbeo, ma il Volto della Sindone è simile al cielo in una limpida notte d’estate, fissando il quale l’anima si sente trasportare oltre le stelle, al di là delle galassie, fino agli estremi confini del “Principio”. Tale contemplazione delle schiere celesti, pur essendo di per sé pacificante, non è tuttavia in grado di comunicare la pace a chi l’avesse gravemente perduta.

La contemplazione della Sindone, al contrario, promette questa pace, poiché le labbra ammutolite del Signore sembrano suggerire proprio le parole che Egli dice oggi ai suoi discepoli “Vi lascio la pace vi do la mia pace. Non come la da’ il mondo io la do a voi” (Gv 14,27).

Dicendo “la mia pace”, Gesù non lascia alternative: la sua pace è l’unica in grado di placare qualsiasi turbamento profondo che abbia infranto la nostra fragile pace interiore. Come intendere, allora, questa pace propria ed esclusiva di Gesù?

Può darcene l’idea il disastro ecologico di questi giorni nel Golfo del Messico. Cito al riguardo le parole di un esperto: “Questo è un fiume di petrolio in piena che scorre dal fondo dell’oceano e non sappiamo quando si fermerà” (intervista riportata da “Avvenire”, 1 maggio).

Leggendole, m’è venuto in mente un passo del profeta Isaia, di segno diametralmente opposto rispetto a quello della marea nera, ma metaforicamente utile alla riflessione sulla pace di Gesù, se sostituiamo alla menzione dell’oceano il fondo della coscienza, e all’esplosione della piattaforma petrolifera un evento drammatico come quello dell’aborto, che costituisce un vero e proprio “disastro” dell’anima.

In questo capitolo il profeta si rivolge alla nuova comunità che sta risorgendo in Gerusalemme dopo il terribile disastro della distruzione del tempio, seguito dalla deportazione in esilio. Come in un sogno, Isaia descrive ciò che vede: una carovana esultante che avanza verso la Città santa, formata dagli Israeliti che tornano dall’esilio e da una moltitudine di popoli attratti, come i Magi, dalla luce che rifulge sul colle di Sion. Rivolgendosi a Gerusalemme come ad una persona, le dice: “A quella vista sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché le ricchezze del mare si riverseranno su di te, verranno a te i beni dei popoli” (Is 60,5).

E’ finito il tempo del lamento ed è iniziato quello della gioia e della speranza!

Veniamo ora al giorno e al momento del “disastro” dell’aborto, pensando in particolare alla mamma che sta ingoiando la famigerata pillola RU 486, che ella sa benissimo essere un veleno mortale per il suo bambino. Posato il bicchiere, nel profondo della sua coscienza si apre una ferita dalla quale, come un fiume di petrolio, si riversa in tutta la sua persona l’inquinamento spirituale per ciò che ha fatto.

Ne è segno la morsa d’angoscia che comincia a stringerle il cuore, spingendola poi a rimedi palliativi la cui inutilità fa pensare a quelli messi in opera dai tecnici del Golfo per arginare la marea nera. Tali sono le misure di ordine umano, psicologico, farmacologico, ecc., con le quali si cercherà di darle sollievo, le quali sono però sostanzialmente insufficienti, poiché non vanno e non possono andare efficacemente al luogo profondo dell’“esplosione”, cioè alla coscienza della donna davanti a Dio, ferita dal pungiglione mortale del peccato.

Infatti, come l’unica soluzione reale al disastro petrolifero consiste nel fermare la fuoriuscita del veleno oleoso dal fondo dell’oceano (e ciò non basta a riparare i danni irreversibili inferti all’ecosistema), così la pace del cuore della mamma che ha abortito può essere ritrovata solo se la ferita della sua coscienza viene sanata in profondità, senza lasciare cicatrici, vale a dire con la “restitutio ad integrum” dell’intero “ecosistema” della sua persona: “spirito, anima e corpo”(1 Ts 5,23) .

In verità, il fiume di turbamento che la memoria non cessa di far scaturire dal fondo del cuore, può essere fermato solamente se nello stesso punto la donna lascerà zampillare la sorgente purissima dell’“acqua viva” promessa da Gesù alla donna samaritana (Gv 4,13), l’unico rimedio in grado di rigenerare la vita interiore e far rifiorire la persona, una volta che si è riconciliata con Dio: “perché queste acque dove giungono risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà” (Ez 47,9).

Sì, quest’acqua divina è il “dono di Dio” (Gv 4,10) che Gesù vuol dare ad ogni donna che ha abortito, “samaritana” in quanto assetata di verità, di amore vero, di perdono e di pace. Dovrà solo incontrare ed ascoltare molte volte il Maestro divino che la sta attendendo al pozzo dell’anima.

Ora comprendiamo il significato profondo di queste parole del Signore: “Non come la da’ il mondo io la do a voi” (Gv 14,27).

Gesù vuole aiutare tutti coloro che sono angosciati dal ricordo di un evento doloroso ed irreversibile (sia che si tratti di un peccato commesso, sia di un fatto accaduto senza volerlo) e che non sanno (e non possono) darsi pace.

La vera pace, infatti, non è quella che ci si può dare in un modo o nell’altro, cercando qualcuno o qualcun altro, ma è quella che Dio solo può e vuole dare. Essa dipende dall’armonia interiore della persona, cioè dalla sua amicizia con Dio in Gesù “via, verità e vita” dell’anima.

Ogni volta che tale comunione vitale è colpevolmente interrotta (come nel p
eccato di aborto volontario), dal fondo dell’anima si spande in tutta la persona come una morte spirituale, segnalata dal turbamento del rimorso che solo la grazia sacramentale della Confessione può dissolvere, donando insieme la pace propria di Gesù, la pace nel suo sangue, come annuncia Paolo: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete divenuti vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia,..per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace (Ef 2,13-1). Paolo la chiama anche “la pace di Dio che supera ogni intelligenza”(Fil 4,7), vale a dire che non ha spiegazione umana, né può essere ottenuta da risorse umane.

Il salmo 46/45 la descrive splendidamente come un fiume: “Un fiume e i suoi canali rallegrano la santa città di Dio…Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare. Perciò non temiamo se trema la terra, se vacillano i monti nel fondo del mare. Fremano, si gonfino le sue acque, si scuotano i monti per i suoi flutti” (vv. 3-5).

Il turbamento del cuore è come il mare in tempesta: quando il vento cessa, le onde non si placano all’istante, ma continuano a perturbare la superficie e a far ballare le imbarcazioni, fino al giorno dopo.

Questa è anche la dinamica della Confessione. Gesù lo sa bene, per questo dice: “abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). L’atto di fede che compio inginocchiandomi, confidando ciecamente nella Misericordia del Padre ed in Gesù, mi sottrae già dall’occhio del ciclone interiore, ma non elimina ancora il turbamento.

Per possedere la pace totale di Gesù, come un mare tranquillo che ricolma l’anima, dovrò attendere, continuare a navigare con Gesù senza timore, trovando sempre rifugio sotto la protezione materna della Regina della Pace.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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