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Passato il clamore seguito alla mia predica del Venerdì Santo in San Pietro, in presenza del papa, vorrei chiarire quali erano le mie intenzioni nel pronunciare le frasi incriminate dell’omelia, perché l’incidente non noccia al dialogo ebreo-cristiano, ma piuttosto lo incoraggi, e anche per mostrare che la reazione del mondo ebraico non è stata dappertutto la stessa.
Approfittando del fatto che quest’anno la Pasqua ebraica cadeva nella stessa settimana della Pasqua cristiana, avevo deciso di far giungere agli ebrei un saluto da parte dei cristiani, proprio dal contesto del Venerdì Santo che è stato sempre, per loro, occasione di comprensibile sofferenza. Tanto più che il tema centrale della predica era contro la violenza e, di essa, il popolo ebraico molta esperienza lungo i secoli. Già in passato, del resto, nel 1998, in una coincidenza analoga tra Pasqua ebraica e Pasqua cristiana, avevo dedicato tutta la predica del Venerdì Santo a mettere in luce le radici dell’antisemitismo cristiano, unendomi alla richiesta di perdono, lanciata in quel tempo al mondo ebraico dal papa Giovanni Paolo II. La stampa, anche ebraica, diede ampio risalto a quel discorso.
Pochi giorni prima del Venerdì Santo, mi è giunta la lettera di un amico ebreo italiano (la lettera esiste davvero, non è una mia finzione letteraria!); egli paragonava a certi aspetti dell’antisemitismo i continui attacchi alla Chiesa e al papa, in particolare l’uso dello stereotipo e il passaggio dalla responsabilità individuale a quella collettiva nel caso della pedofilia del clero. Ho deciso allora, dietro consenso dell’interessato, di citarla nella predica perché mi sembrava un gesto di grande nobiltà da parte di un ebreo, esprimere, in un momento come questo, la sua solidarietà con il capo della Chiesa cattolica, un gesto che, ritenevo, avrebbe incoraggiato i cristiani a fare altrettanto, in circostanze simili, nei confronti del popolo ebraico.
Né io né l’amico ebreo pensavamo minimamente all’antisemitismo della Shoa, ma all’antisemitismo come atteggiamento culturale, che è ben più antico e più diffuso della Shoa. L’antisemitismo, per esempio dell’affare Dreyfus, o quello che consiste nel far ricadere su tutto il popolo ebraico, anche attuale, la responsabilità della morte di Cristo. (Caso tipico,appunto, di passaggio dalla responsabilità individuale a quella collettiva!).
Così inteso, il paragone non mi sembrava così assurdo come si è voluto far credere. Poche settimane prima, un giornalista laico, Ernesto Galli della Loggia, sulla prima pagina del “Corriere della sera”, aveva denunciato il diffondersi, nella cultura moderna, di un vero e proprio “anticristianesimo”. Sono molti, del resto, a pensare che più che da amore e pietà per le vittime della pedofilia, la campagna dei media sia mossa da volontà di mettere in ginocchio la Chiesa. Qualcosa che ricorda l’ “Ecrasez l’infame” di Voltaire. L’ex sindaco di New York, Ed Koch, in un articolo del “The Jerusalem Post”, ha scritto: “Credo che i continui attacchi da parte dei media alla Chiesa Cattolica e a Papa Benedetto XVI siano diventate manifestazioni di anti-cattolicesimo. La sequela di articoli sugli stessi eventi non ha più, a mio parere, lo scopo di informare, ma semplicemente di punire”.
Questo non significa minimamente tacere o sottovalutare la gravità dei casi di pedofilia del clero. In quella stessa omelia parlavo, anche se non era il tema principale del discorso, della “violenza sui bambini di cui si sono sciaguratamente macchiati non pochi membri del clero”. In una predica alla Casa Pontificia dell’Avvento 2006 avevo addirittura proposto di indire un giorno di digiuno e di penitenza per esprimere solidarietà alle vittime della pedofilia, una proposta che ebbe larga eco nella stampa.
Come ha potuto dunque, da queste premesse ben intenzionate, svilupparsi una tempesta mediatica delle proporzioni che conosciamo? Lo ha spiegato un rabbino ebreo, una settimana dopo l’incidente, sul più diffuso quotidiano di Israele, “The Jerusalem Post” (11.04.2010), in un articolo intitolato “Siamo dei cattivi ascoltatori”. Vale la pena riassumerne alcuni passaggi perché mostrano come, intesa correttamente, la mia predica non costituisce un passo indietro nel dialogo tra ebrei e cristiani, ma un passo avanti.
Devo pensare, scrive il rabbino Alon Goshen Gottstein, che nessun portavoce ebreo che ha criticato l’affermazione del predicatore ha mai letto la sua omelia. Essi molto probabilmente hanno reagito a un giornalista che chiedeva un commento su una certa frase, e hanno dato una risposta in merito a quella frase. I giornalisti, estrapolando una citazione da un testo più lungo, fissano i termini del problema, i portavoce ebrei rispondono, ne nasce una storia, si crea uno scandalo…
Uno sguardo a ciò che il predicatore francescano ha realmente detto racconta una storia diversa, di cui il minimo che si possa dire è che dissipa l’impressione negativa generata dalle frasi che hanno fatto i titoli dei giornali. L’omelia del Venerdì Santo è stata per secoli il momento più temuto dagli ebrei. Dopo aver ascoltato tale omelia, la folla usciva per le strade e gli ebrei temevano per la loro vita. Le rappresentazioni teatrali della Passione del Venerdì Santo erano fonte costante di violenza contro i giudei…Con questo retroscena, sorprende notare ciò che Padre Cantalamessa ha fatto di questa occasione. Egli usa questo momento nella basilica di San Pietro, in presenza del papa, per augurare “Buona festa di Pasqua” agli ebrei! Ma il predicatore non si ferma qui: saluta noi ebrei con parole prese dalla Mishna, citate nell’Hagadda, il più popolare dei testi giudaici. Pensare agli ebrei come fratelli di fede durante la liturgia papale del Venerdì Santo è il frutto di decenni di lavoro nel campo delle relazioni giudeo-cristiane. Che questo abbia potuto essere detto così naturalmente e quasi a caso, questa è la vera notizia…
Non abbiamo colto tutto questo perché abbiamo notato solo il paragone tra i violenti attacchi contro la Chiesa e quelli perpetrati con gli ebrei. E anche in questo caso abbiamo omesso di ascoltare per intero la voce dell’ebreo citato dal Padre francescano. “C’è solo una risposta appropriata a tutto ciò: riconoscimento del significato sereno e profondo di quanto accaduto e dire: Grazie, P. Cantalamessa!”
P. Cantalamessa ha fatto le dovute scuse, ma anche noi dobbiamo esprimere le nostre scuse per aver mancato di ascoltare il messaggio come fu pronunciato, per aver permesso ai media di creare una falsa storia, ignorando quella vera. La battaglia contro le presentazioni selettive e superficiali del nostro messaggio religioso è una battaglia comune, nella quale le voci delle persone pensose di tutte le religioni devono collaborare. “Il tema dell’omelia del predicatore era contro la violenza. Questi ultimi fatti ci hanno mostrato come anche il cattivo ascolto può essere fonte di violenza”.
Alla voce del rabbino di Gerusalemme si è unita quella di Guido Guastalla, assessore alla cultura della comunità ebraica di Livorno, in un articolo pubblicato da “Cultura cattolica” e riassunto ne “L’Osservatore Romano” del 19 Aprile 2010. A causa della mia predica, una parte dell’opinione pubblica e della stampa italiana ha promosso, nei giorni dopo Pasqua, una campagna per sospendere la laurea honoris causa in Scienze della comunicazione che l’Università di Macerata aveva da tempo decretato di conferirmi. È stata di nuovo una ebrea, la docente di biologia Marisa Levi, il cui padre aveva perso l’insegnamento al tempo del fascismo, a prendere le mie difese. In una lettera di sostegno al Rettore, notava: “Il fatto che fossero state scritte da un ebreo rendeva molto più significative quelle parole di solidarietà al Papa, citate da padre Cantalamessa. Al di là di questo caso specifico, sono molto preoccupata da un sistema di informazione che
, a partire da parole chiave appositamente scelte e staccate dal contesto, le diffonde con rapidità estrema, senza sapere cosa la persona ha detto veramente”.
Spero che questa nota serva a rassicurare tanti miei lettori o ascoltatori sparsi nel mondo, sconcertati da ciò che hanno letto o ascoltato nei media, e soprattutto a convincere gli amici ebrei che i miei sentimenti nei loro confronti non sono cambiati e che hanno, nel predicatore della Casa Pontificia, un promotore, non un nemico del dialogo con loro.