L'omelia come testimonianza di vita nuova

di padre Piero Gheddo*

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ROMA, lunedì, 24 maggio 2010 (ZENIT.org).- Diversi lettori mi hanno telefonato o scritto a proposito del mio articolo pubblicato da ZENIT sull’omelia domenicale (11 maggio 2010 http://www.zenit.org/article-22418?l=italian). Gli amici sacerdoti soprattutto, uno dei quali scrive: “Tu dici che nell’omelia domenicale bisogna dare testimonianza della propria fede, fino a commuovere chi ci ascolta. Ho sempre saputo che l’omelia domenicale serve per spiegare le letture della Sacra Scrittura e per presentare le verità della nostra fede. Oggi c’è un’ignoranza spaventosa circa le verità di fede. Mi pare che prima di applicare la fede alle situazioni concrete e alla vita, bisogna spiegare bene in cosa crediamo e cosa dice la Parola di Dio”.

L’omelia domenicale deve durare 10-12 minuti al massimo: se supera questo tempo il predicatore deve sapere che distrugge quel che di buono ha detto (a parte casi eccezionali). L’amico giornalista Giorgio Torelli mi dice che ogni tanto, alla Messa domenicale, visita diverse chiese di Milano, proprio per sentire cosa dicono i sacerdoti. Il giudizio che dà non è complessivamente positivo dal punto di vista della comunicazione. Gli dà fastidio che, dopo aver letto il Vangelo (chi viene in chiesa lo conosce quasi a memoria), spesso il prete lo racconta di nuovo con parole sue, dando varie spiegazioni storiche, esegetiche, dottrinali. Una volta, mi dice, nel Vangelo si legge la parabola del buon samaritano. Poi il prete racconta la stessa parabola appena letta, spiegando chi erano i samaritani, i leviti, i sacerdoti del tempio, perchè la strada da Gerusalemme a Gerico era favorevole agli agguati dei briganti, perché gli ebrei non si fermavano a soccorrere un samaritano, cose che non interessavano nessuno o quasi. Insomma, quando giunge a dare alcune esortazioni pratiche per la vita dei fedeli, cioè a incarnare il Vangelo nella vita, la gente non ascoltava più, aspettava solo che finisse di parlare.

Oggi la televisione abitua a sentire di vita comune. “All’uomo interessa l’uomo” diceva Montanelli ai suoi redattori e lui certo sapeva farsi leggere! Gesù sapeva farsi ascoltare, naturalmente perché compiva miracoli, aveva un enorme fascino personale e diceva verità straordinarie (pensiamo alle Beatitudini!), ma credo anche perchè parlava in parabole, cioè raccontava fatti concreti che allora tutti capivano. La parabola del buon Samaritano, in quel mondo bloccato dal fariseismo, era una novità assoluta, oggi è un fatto talmente risaputo (da chi viene in chiesa) che dà persino fastidio rileggerlo e poi sentirlo raccontare di nuovo.

Mi permetto di raccontare una mia piccola esperienza. Quando ho commentato il Vangelo della domenica per due anni (1994-1996 – Anno A e B) alla TV di Rai Uno tutti i sabati sera dalle 19,30 alle 19,45, dopo la lettura del brano evangelico incominciavo raccontando un fatto, un’esperienza di vita missionaria,  cioè un fatto reale dei nostri giorni che incarnava il contenuto dottrinale e morale del Vangelo appena letto. Parlando una decina di minuti, applicavo quel Vangelo alla nostra vita quotidiana. Alla Rai mi dicevano che gli ascolti erano cresciuti da una media di 700-800.000 a circa due milioni e ricevevo in media più di venti lettere al giorno (in seguito, hanno spostato l’orario del Vangelo domenicale dalle 19,30 alle 17 e gli ascolti sono molto diminuiti).

Qualcuno però mi scriveva o diceva che era troppo facile per me, che ho visitato le missioni in tutto il mondo, trovare fatti originali, interessanti da raccontare. Certo, mi è stato utile il giornalismo perché ho sempre scritto tutti gli incontri e le interviste, ma sono convinto che qualsiasi prete, se scrive e ricorda i fatti importanti e degni di memoria della sua vita sacerdotale e pastorale, accumula un notevole materiale predicabile, cioè esperienze di vita pastorale da tradurre in parabole, che applicano il Vangelo alla vita di tutti i giorni.

L’importante, secondo la mia esperienza, è trasmettere la fede nella vita, quindi anche commuoversi e commuovere, non fare una mini-lezione di teologia o di esegesi biblica.  

Il grande mistico don Divo Barsotti (1914-2006), interrogato sulle omelie d’oggi, affermava (“Il Focolare, Mensile dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa”, Firenze, aprile 1999, pag. 6): “Gran parte della predicazione cristiana non ha più successo perchè è diventata come la dottrina: non è più una testimonianza di vita. Negli Apostoli, ma anche nei grandi santi sacerdoti che ha avuto la Chiesa, la parola non era soltanto la trasmissione di una dottrina concettuale, era una vita nuova che il sacerdote e il cristianesimo portano nel mondo. Troppo spesso siamo dei ripetitori di luoghi comuni o anche di cose grandi (poche), ma ripetere soltanto non basta all’efficacia del ministero. Quello che si impone oggi per il sacerdote non è di rendersi uguale agli altri, perché così perdiamo di credibilità e di efficacia, è invece di diventare credibile con la sua vita”.

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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l’Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.

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ZENIT Staff

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