CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 25 marzo 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della prima predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, pronunciata questo venerdì mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” alla presenza di Papa Benedetto XVI.
Il tema delle meditazioni quaresimali è “Al di sopra di tutto vi sia la carità” (Colossesi 3, 14).
Le tre prediche successive avranno luogo venerdì 1° aprile, venerdì 8 aprile e venerdì 15 aprile.
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LE DUE FACCE DELL’AMORE: EROS E AGAPE
1. Le due facce dell’amore
Con le prediche di questa Quaresima vorrei continuare nello sforzo, iniziato in Avvento, di portare un piccolo contributo in vista della rievangelizzazione dell’occidente secolarizzato che costituisce in questo momento la preoccupazione principale di tutta la Chiesa e in particolare del Santo Padre Benedetto XVI.
C’è un ambito in cui la secolarizzazione agisce in modo particolarmente diffuso e nefasto, ed è l’ambito dell’amore. La secolarizzazione dell’amore consiste nello staccare l’amore umano, in tutte le sue forme, da Dio, riducendolo a qualcosa di puramente “profano”, in cui Dio è “di troppo” e anzi da fastidio.
Ma il tema dell’amore non è importante solo per l’evangelizzazione, cioè nei rapporti con il mondo; lo è anche, e prima di tutto, per la vita interna della Chiesa, per la santificazione dei suoi membri. È la prospettiva in cui si colloca l’enciclica “Deus caritas est” del Santo Padre Benedetto XVI e in cui ci collochiamo anche noi in queste riflessioni.
L’amore soffre di una nefasta separazione non solo nella mentalità del mondo secolarizzato, ma anche, dal versante opposto, tra i credenti e in particolare tra le anime consacrate. Semplificando al massimo, potremmo formulare così la situazione: nel mondo troviamo un eros senza agape; tra i credenti troviamo spesso una agape senza eros.
L’eros senza agape è un amore romantico, più spesso passionale, fino alla violenza. Un amore di conquista che riduce fatalmente l’altro a oggetto del proprio piacere e ignora ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé. Non occorre insistere nella descrizione di questo amore perché si tratta di una realtà che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, propagandata com’è in maniera martellante da romanzi, film, fiction televisive, internet, riviste cosiddette “rosa”. È quello che il linguaggio comune intende, ormai, con la parola “amore”.
Più utile per noi è capire cosa si intende per agape senza eros. In musica esiste una distinzione che ci può aiutare a farci un’idea: quella tra il jazz caldo e il jazz freddo. Ho letto da qualche parte questa caratterizzazione dei due generi, anche se so che non è l’unica possibile. Il jazz caldo (hot) è il jazz appassionato, ardente, espressivo, fatto di slanci, di sentimenti e quindi di impennate e di improvvisazioni originali. Il jazz freddo (cool) è quello che si ha quando si passa al professionismo: i sentimenti diventano ripetitivi, all’estro si sostituisce la tecnica, alla spontaneità il virtuosismo.
Stando a questa distinzione, l’agape senza eros ci appare come un “amore freddo”, un amare “con la cima dei capelli”, senza partecipazione di tutto l’essere, più per imposizione della volontà che per intimo slancio del cuore. Un calarsi dentro uno stampo precostituito, anziché crearsene uno proprio irripetibile, come irripetibile è ogni essere umano davanti a Dio. Gli atti di amore rivolti a Dio somigliano a quelli di certi innamorati sprovveduti che scrivono all’amata lettere copiate da un prontuario.
Se l’amore mondano è un corpo senz’anima, l’amore religioso così praticato è un’anima senza corpo. L’essere umano non è un angelo, cioè un puro spirito; è anima e corpo sostanzialmente uniti: tutto quello che fa, compreso amare, deve riflettere questa sua struttura. Se la componente legata al tempo e alla corporeità, viene sistematicamente negata o repressa, l’esito sarà duplice: o si tira avanti stancamente, per senso del dovere, per difesa della propria immagine, oppure si cercano compensazioni più o meno lecite, fino ai dolorosissimi casi che stanno affliggendo la Chiesa. Al fondo di molte deviazioni morali di anime consacrate, non lo si può ignorare, c’è una distorta e contorta concezione dell’amore.
Abbiamo dunque un duplice motivo e una duplice urgenza di riscoprire l’amore nella sua originaria unità. L’amore vero e integrale è una perla racchiusa dentro due valve che sono l’eros e l’agape. Non si possono separare queste due dimensioni dell’amore senza distruggerlo, come non si possono separare tra loro idrogeno e ossigeno senza privarsi con ciò stesso dell’acqua.
2. La tesi dell’incompatibilità tra i due amori
La riconciliazione più importante tra le due dimensioni dell’amore è quella pratica che avviene nella vita delle persone, ma proprio perché essa sia resa possibile è necessario cominciare con il riconciliare tra loro eros e agape anche teoricamente, nella dottrina. Questo ci consentirà tra l’altro di conoscere finalmente cosa si intende con questi due termini tanto spesso usati e fraintesi.
L’importanza della questione nasce dal fatto che esiste un’opera che ha reso popolare in tutto il mondo cristiano la tesi opposta della inconciliabilità delle due forme di amore. Si tratta del libro del teologo luterano svedese Anders Nygren, intitolato “Eros e agape[1]. Possiamo riassumere il suo pensiero in questi termini. Eros e agape designano due movimenti opposti: il primo indica ascensione e salita dell’uomo a Dio e al divino come al proprio bene e alla propria origine; l’altra, l‘agape, indica la discesa di Dio all’uomo con l’incarnazione e la croce di Cristo, e quindi la salvezza offerta all’uomo senza merito e senza risposta da parte sua, che non sia la sola fede. Il Nuovo Testamento ha fatto una scelta precisa, usando, per esprimere l’amore, il termine agape e rifiutando sistematicamente il termine eros.
San Paolo è quello che con più purezza ha raccolto e formulato questa dottrina dell’amore. Dopo di lui, sempre secondo la tesi di Nygren, tale antitesi radicale è andata persa quasi subito per dar luogo a tentativi di sintesi. Appena il cristianesimo entra in contatto culturale con il mondo greco e la visione platonica, già con Origene, c’è una rivalutazione dell’eros, come movimento ascensionale dell’anima verso il bene e verso il divino, come attrazione universale esercitata dalla bellezza e dal divino. In questa linea, lo Pseudo Dionigi Areopagita scriverà che “Dio è eros”[2], sostituendo questo termine a quello di agape nella celebre frase di Giovanni (1 Gv 4,10).
In occidente una sintesi analoga è operata da Agostino con la sua dottrina della caritas intesa sì come dottrina dell’amore discendente e gratuito di Dio per l’uomo (nessuno ha parlato della “grazia” in maniera più forte di lui!), ma anche come anelito dell’uomo al bene e a Dio. Sua è l’affermazione: “Ci hai fatto per te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”[3]; sua è anche l’immagine dell’amore come di un peso che l’attira l’anima, come per forza di gravità, verso Dio, come al luogo del proprio riposo e del proprio piacere[4]. Tutto questo, per Nygren, inserisce un elemento di amore di sé, del proprio bene, quindi di egoismo, che distrugge la pura gratuità della grazia; è una ricaduta nell’illusione pagana di far consistere la salvezza in una ascesa a Dio, anziché nella gratuita e immotivata discesa di Dio verso di noi.
Prigionieri di questa impossibile sintesi tra eros e ag
ape, tra amore di Dio e amore di sé, restano, per Nygren, san Bernardo quando definisce il grado supremo dell’amore di Dio come un ”amare Dio per se stesso” e un “amare se stesso per Dio”[5], san Bonaventura con il suo ascensionale “Itinerario della mente a Dio”, come pure san Tommaso d’Aquino che definisce l’amore di Dio effuso nel cuore del battezzato (cf. Rom 5,5) come “l’amore con cui Dio ci ama e con cui fa sì che noi amiamo lui” (amor quo ipse nos diligit et quo ipse nos dilectores sui facit”)[6]. Questo infatti verrebbe a dire che l’uomo, amato da Dio, può a sua volta, amare Dio, dargli qualcosa di suo, ciò che distruggerebbe l’assoluta gratuità dell’amore di Dio. Sul piano esistenziale la stessa deviazione, secondo Nygren, si ha con la mistica cattolica. L’amore dei mistici, con la sua fortissima carica di eros, altro non è, per lui, che un amore sensuale sublimato, un tentativo di stabilire con Dio un rapporto di presuntuosa reciprocità in amore.
Chi ha rotto l’ambiguità e riportato alla luce la netta antitesi paolina è stato, secondo l’autore, Lutero. Fondando la giustificazione sulla sola fede egli non ha escluso la carità dal momento fondante della vita cristiana, come gli rimprovera la teologia cattolica; ha piuttosto liberato la carità, l’agape, dall’elemento spurio dell’eros. Alla formula della “sola fede”, con esclusione delle opere, corrisponderebbe, in Lutero, la formula della “sola agape”, con esclusione dell’eros.
Non sta a me qui stabilire se l’autore ha interpretato correttamente su questo punto il pensiero di Lutero che – va detto – non ha mai posto il problema in termini di contrasto tra eros e agape, come ha fatto invece tra fede e opere. È significativo tuttavia il fatto che anche Karl Barth, in un capitolo della sua “Dommatica ecclesiale”, arriva allo stesso risultato di Nygren di un contrasto insanabile tra eros e agape: “Dove entra in scena l’amore cristiano – egli scrive –, ha inizio immediatamente il conflitto con l’altro amore e questo conflitto non ha più fine”[7]. Io dico che se questo non è luteranesimo, è però certamente teologia dialettica, teologia dell’aut-aut, dell’antitesi, non della sintesi.
Il contraccolpo di questa operazione è la radicale mondanizzazione e secolarizzazione dell’eros. Mentre infatti una certa teologia estrometteva l’eros dall’agape, la cultura secolare era ben felice, da parte sua, di estromettere l’agape dall’eros, cioè ogni riferimento a Dio e alla grazia dall’amore umano. Freud ha fornito a ciò una giustificazione teorica, riducendo l’amore a eros e l’eros a libido, a pura pulsione sessuale che lotta contro ogni repressione e inibizione. È lo stadio a cui è ridotto oggi l’amore in molte manifestazioni della vita e della cultura, soprattutto nel mondo dello spettacolo.
Due anni fa mi trovavo a Madrid. Nei giornali non si faceva che parlare di una certa mostra d’arte in atto nella città, intitolata “Le lacrime dell’eros”. Era una mostra di opere artistiche a sfondo erotico – quadri, disegni, sculture – che intendeva mettere in luce l’inscindibile legame che c’è, nell’esperienza dell’uomo moderno, tra eros e thanatos, tra amore e morte. Alla stessa costatazione si arriva, leggendo la raccolta di poesie “I fiori del male di Baudelaire” o “Una stagione all’inferno” di Rimbaud. L’amore che per sua natura dovrebbe portare alla vita, porta invece ormai alla morte.
3. Ritorno alla sintesi
Se non possiamo cambiare di colpo l’idea d’amore che ha il mondo, possiamo però correggere la visione teologica che, senza volerlo, la favorisce e la legittima. È quello che ha fatto in maniera esemplare il Santo Padre Benedetto XVI con l’enciclica “Deus caritas est”. Egli riafferma la sintesi cattolica tradizionale esprimendola con in termini moderni. “Eros e agape, vi si legge, – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro […]. La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni” (nr. 7-8). Eros e agape sono uniti alla fonte stesa dell’amore che è Dio: “Egli ama – continua il testo dell’enciclica – e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape” (nr. 9).
Si capisce l’accoglienza insolitamente favorevole che questo documento pontificio ha incontrato anche negli ambienti laici più aperti e responsabili. Essa da una speranza al mondo. Corregge l’immagine di una fede che tocca il mondo in tangente, senza penetrarvi dentro, con l’immagine evangelica del lievito che fa fermentare la massa; sostituisce all’idea di un regno di Dio venuto a “giudicare” il mondo, quella di un regno di Dio venuto a “salvare” il mondo, a cominciare dall’eros che ne è la forza dominante.
Alla visione tradizionale, propria sia della teologia cattolica che di quella ortodossa, si può apportare, credo, una conferma anche dal punto di vista dell’esegesi. Quelli che sostengono la tesi dell’incompatibilità tra eros e agape si basano sul fatto che il Nuovo Testamento evita accuratamente – e, a quanto pare, volutamente – il termine eros, usando al suo posto sempre e solo agape (a parte qualche raro uso del termine philia, che indica l’amore di amicizia).
Il fatto è vero, ma non sono vere le conclusioni che si traggono da esso. Si suppone che gli autori del NT siano al corrente sia del senso che il termine eros aveva nel linguaggio comune –l’eros cosiddetto “volgare” – sia il senso elevato e filosofico che aveva, per esempio, in Platone, il cosiddetto eros “nobile”. Nell’accezione popolare, eros indicava più o meno quello che indica anche oggi quando si parla di erotismo o di film erotici, cioè il soddisfacimento dell’istinto sessuale, un degradarsi piuttosto che innalzarsi. Nell’accezione nobile esso indicava l’amore per la bellezza, la forza che tiene insieme il mondo e spinge tutti gli esseri all’unità, cioè quel movimento di ascesa verso il divino che i teologi dialettici ritengono incompatibile con il movimento di discesa del divino verso l’uomo.
È difficile sostenere che gli autori del Nuovo Testamento, rivolgendosi a persone semplici e di nessuna cultura, intendessero metterli in guardia dall’eros di Platone. Essi evitarono il termine eros per lo stesso motivo per cui un predicatore evita oggi il termine erotico o, se lo usa, lo fa solo in senso negativo. Il motivo è che, allora come adesso, la parola evoca l’amore nella sua espressione più egoistica e sensuale[8]. Il sospetto dei primi cristiani nei confronti dell’eros era ulteriormente aggravato dal ruolo che esso svolgeva negli sfrenati culti dionisiaci.
Appena il cristianesimo entra in contatto e in dialogo con la cultura greca del tempo, cade immediatamente, abbiamo già visto, ogni preclusione nei confronti dell’eros. Esso viene usato spesso, negli autori greci, come sinonimo di agape ed è impiegato per indicare l’amore di Dio per l’uomo, come pure l’amore dell’uomo per Dio, l’amore per le virtù e per ogni cosa bella. Basta ormai, per convincersene, un semplice sguardo al “Lessico Patristico Greco” del Lampe[9]. Quello di Nygren e di Barth è dunque un sistema costruito su una falsa applicazione dell’argomento cosiddetto “ex silentio”.
4. Un eros per i consacrati
Il riscatto dell’eros aiuta anzitutto gli innamorati umani e gli sposi cristiani, mostrando la bel
lezza e la dignità dell’amore che li unisce. Aiuta i giovani a sperimentare il fascino dell’altro sesso non come qualcosa di torbido, da vivere al riparo da Dio, ma al contrario come un dono del Creatore per la loro gioia, se vissuto nell’ordine da lui voluto. A questa funzione positiva dell’eros sull’amore umano accenna anche il papa nella sua enciclica, quando parla del cammino di purificazione dell’eros che porta dall’attrazione momentanea al “per sempre” del matrimonio (nr. 4-5).
Ma il riscatto dell’eros deve aiutare anche noi consacrati, uomini e donne. Ho accennato all’inizio al pericolo che corrono le anime religiose, che è quello di un amore freddo, che non scende dalla mente al cuore. Un sole invernale che illumina ma non riscalda. Se eros significa slancio, desiderio, attrazione, non dobbiamo avere paura dei sentimenti, né tanto meno disprezzarli e reprimerli. Quando si tratta dell’amore di Dio –ha scritto Guglielmo di St. Thierry – il sentimento di affetto (affectio) è anch’esso grazia; non è infatti la natura che ci può infondere un tale sentimento[10].
I salmi sono pieni di questo anelito del cuore a Dio: “A te, Signore, innalzo l’anima mia…”, “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente”.”: “Presta dunque attenzione -dice l’autore della “Nube della non conoscenza – a questo meraviglioso lavoro della grazia nella tua anima. Esso non è altro che un impulso improvviso che sorge senza alcun preavviso e punta direttamente a Dio, come una scintilla che si sprigiona dal fuoco…Colpisci questa fitta nube della non conoscenza con la freccia acuminata del desiderio d’amore e non muoverti di lì, qualunque cosa capiti”[11]. È sufficiente, per fare ciò, un pensiero, un moto del cuore, una giaculatoria.
Ma tutto ciò non ci basta e Dio lo sa meglio di noi. Noi siamo creature, viviamo nel tempo e in un corpo; abbiamo bisogno di uno schermo su cui proiettare il nostro amore che non sia soltanto “la nube della non conoscenza”, cioè il velo di oscurità dietro cui si nasconde il Dio che nessuno ha mai visto e che abita in una luce inaccessibile…
La risposta che si da a questa domanda, la conosciamo bene: proprio per questo Dio ci ha dato il prossimo da amare! “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi…Chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 12 20). Ma dobbiamo stare attenti a non saltare un anello decisivo. Prima del fratello che si vede c’è un altro che pure si vede e si tocca: c’è il Dio fatto carne, c’è Gesù Cristo! Tra Dio e il prossimo c’è ormai il Verbo fatto carne che ha riunito i due estremi in una sola persona. È in lui ormai che trova il suo fondamento lo stesso amore del prossimo: “L’avete fatto a me”.
Cosa significa tutto questo per l’amore di Dio? Che l’oggetto primario del nostro eros, della nostra ricerca, desiderio, attrazione, passione, deve essere il Cristo. “Al Salvatore è preordinato l’amore umano fin dal principio, come a suo modello e fine, quasi uno scrigno così grande e così largo da poter accogliere Dio […]. Il desiderio dell’anima va unicamente al Cristo. Qui è il luogo del suo riposo, poiché lui solo è il bene, la verità e tutto ciò che ispira amore”[12]. Questo non significa restringere l’orizzonte dell’amore cristiano da Dio a Cristo; significa amare Dio nella maniera in cui egli vuole essere amato. “Il Padre vi ama perché voi mi amate” (Gv 16, 27). Non si tratta di un amore mediato, quasi per procura, per cui chi ama Gesù “è come se” amasse il Padre. No, Gesù è un mediatore immediato; amando lui si ama, ipso facto, anche il Padre. “Chi vede me, vede il Padre”, chi ama me ama il Padre.
È vero che neppure Cristo si vede, ma c’è; è risorto, è vivo, ci è accanto, più realmente di quanto lo sposo più innamorato sia accanto alla sposa. È qui il punto cruciale: pensare a Cristo non come a una persona del passato, ma come il Signore risorto e vivente, con cui posso parlare, che posso anche baciare se lo voglio, sicuro che il mio bacio non termina sulla carta o sul legno di un crocifisso, ma su un volto e su delle labbra di carne viva (anche se spiritualizzata), felici di raccogliere il mio bacio.
La bellezza e la pienezza della vita consacrata dipende dalla qualità del nostro amore per Cristo. Solo esso è capace di difendere dagli sbandamenti del cuore. Gesù è l’uomo perfetto; in lui si trovano, a un grado infinitamente superiore, tutte quelle qualità e attenzioni che un uomo cerca in una donna e una donna nell’uomo. Il suo amore non ci sottrae necessariamente al richiamo delle creature e in particolare all’attrazione dell’altro sesso (questa fa parte della nostra natura che egli ha creato e non vuole distruggere); ci da però la forza di vincere queste attrazioni con una attrazione più forte. “Casto –scrive san Giovanni Climaco – è colui che scaccia l’eros con l’Eros”[13].
Distrugge forse, tutto questo, la gratuità dell’agape, pretendendo di dare a Dio qualcosa in cambio del suo cuore? Annulla la grazia? Nient’affatto, anzi la esalta. Che cosa infatti, in questo modo, diamo a Dio se non quello che abbiamo ricevuto da lui? “Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo” (1 Gv 4, 19). L’amore che diamo a Cristo è il suo stesso amore per noi che gli rimandiamo, come fa l’eco con la voce.
Dov’è allora la novità e la bellezza di questo amore che chiamiamo eros? L’eco rimanda a Dio il suo stesso amore, ma arricchito, colorato o profumato della nostra libertà. Ed è tutto quello che lui vuole. La nostra libertà lo ripaga di tutto. Non solo, ma cosa inaudita, scrive il Cabasilas, “ricevendo da noi il dono dell’amore in cambio di tutto quello che ci ha dato, si ritiene nostro debitore”[14]. La tesi che contrappone eros e agape si basa su un’altra ben nota contrapposizione, quella tra grazia e libertà, e anzi sulla negazione stessa della libertà nell’uomo decaduto (sul “servo arbitrio”).
Io ho provato a immaginare, Venerabili Padri e fratelli, cosa direbbe Gesù risorto, se, come faceva nella vita terrena quando entrava di sabato in una sinagoga, adesso venisse a sedersi qui al posto mio e ci spiegasse di persona qual è l’amore che egli desidera da noi. Voglio condividere con voi, con semplicità, quello che penso ci direbbe; ci servirà per fare il nostro esame di coscienza sull’amore:
L’amore ardente:
E’ mettere me sempre al primo posto.
E’ cercare di piacermi in ogni momento.
E’ confrontare i tuoi desideri con il mio desiderio.
E’ vivere davanti a me come amico, confidente, sposo ed esserne felice.
E’ essere inquieto se pensi di stare un po’ lontano da me.
E’ essere pieno di felicità quando sono con te.
E’ essere disposto a grandi sacrifici pur di non perdermi.
E’ preferire di vivere povero e sconosciuto con me, piuttosto che ricco e famoso senza di me.
E’ parlarmi come all’amico più caro in ogni momento possibile.
E’ affidarti a me guardando al tuo futuro.
E’ desiderare perderti in me come meta della tua esistenza.
Se sembra anche voi, come sembra a me, di essere lontanissimi da questo traguardo, non ci scoraggiamo. Abbiamo uno che può aiutarci a raggiungerlo se glielo chiediamo. Ripetiamo con fede allo Spirito Santo: Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium et tui amoris in eis ignem accende: Vieni, Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore.
[1] Edizione originale svedese, Stoccolma 1930, trad. ital. Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni, Bologna, Il Mulino, 1971
[2] Pseudo- Dionigi Areopagita, I nomi divini, IV,12 (PG, 3, 709 ss.)
[3] S. Agostino, Confessioni I, 1.
[4] Commento al vangelo di Giovanni, 26, 4-5.
[5] Cf. S. Bernardo, De diligendo Deo, IX,26 –X,27.
[6] S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Lettera ai Romani, cap. V, lez.1, n. 392-293; cf. S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 9, 9.
[7] K. Barth, Dommatica ecclesiale, IV, 2, 832-852; trad. ital. K. Barth, Dommatica ecclesiale, antologia a cura di H. Gollwitzer, Bologna, Il Mulino 1968, pp. 199-225.
[8] Il senso che i primi cristiani alla parola eros si deduce chiaramente dal noto testo di S. Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani, 7,2: “Il mio amore (eros) è stato crocifisso e non c’è in me fuoco di passione…non mi attirano il nutrimento di corruzione e i piaceri di questa vita”. “Il mio eros” non indica qui Gesù crocifisso, ma “l’amore di me stesso” , l’attaccamento ai piaceri terreni, nella linea del paolino “Sono stato crocifisso con Cristo, non vivo più io” (Gal 2, 19 s.).
[9] Cf. G.W.H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, pp.550.
[10] Guglielmo di St. Thierry, Meditazioni, XII, 29 (SCh 324, p. 210).
[11] Anonimo, La nube della non conoscenza, Ed. Áncora, Milano, 1981, pp. 136.140.
[12] N. Cabasilas, Vita in Cristo, II,9 (PG 88, 560-561)
[13] S. Giovanni Climaco, La scala del paradiso, XV,98 (PG 88,880).
[14] N. Cabasilas, Vita in Cristo, VI, 4 .