di Paul De Maeyer
ROMA, martedì, 30 agosto 2011 (ZENIT.org).- Nel suo discorso dopo la nuova vittoria dell’AKP (Partito per la Giustizia e e lo Sviluppo) alle elezioni legislative del 12 giugno scorso, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan aveva promesso di lavorare per tutti i cittadini del suo Paese, di tutte le religioni e tutti gli stili di vita. E sembra che questa volta ad Ankara si voglia fare sul serio. Il governo Erdogan ha approvato infatti un decreto-legge per la restituzione alle minoranze cristiane e a quella ebraica delle proprietà confiscate dal 1936 in poi.
Il nuovo decreto è entrato in vigore sabato 27 agosto dopo la sua pubblicazione sulla gazzetta ufficiale di Ankara, come annunciato dai media turchi, fra cui l’emittente NTV e il quotidiano di lingua inglese Today’s Zaman, che hanno lanciato la notizia solo poche ore prima della cena-festa dell’Iftar – la rottura del digiuno durante il mese del ramadan – organizzata domenica 28 agosto per la prima volta in onore di Erdogan dal rappresentante delle minoranze presso la Direzione generale delle Fondazioni religiose, Lakis Vingas, noto esponente della comunità ortodossa. All’evento, che si è svolto nel Museo archeologico di Istanbul ed è stato definito un “novum” nella storia della Turchia dalla rivista tedesca specializzata nei temi di migrazione e di integrazione MiGAZIN (29 agosto) , hanno partecipato i rappresentanti di 161 fondazioni non musulmane.
La nuova normativa sancisce che tutte le minoranze religiose riconosciute nel quadro del Trattato di Losanna, ratificato nel luglio del 1923 ad Ankara dall’allora nuovo governo di Mustafa Kemal Atatürk, hanno un anno di tempo per chiedere la restituzione di tutte le proprietà registrate come appartenenti alle fondazioni religiose nel censimento del 1936 e confiscate successivamente dallo Stato turco. Poiché il Trattato di Losanna riconosceva ufficialmente come “minoranze” solo quelle non musulmane storicamente presenti sul territorio turco, cioè armeni, greci ortodossi ed ebrei, significa che il decreto non contempla ad esempio la restituzione dei beni immobili espropriati ai cattolici latini. Secondo la Radio Vaticana (29 agosto), i cattolici caldei potranno invece beneficiare del decreto.
Il testo del ddl prevede non solo il ritorno degli edifici censiti nel 1936 ma anche i cimiteri e persino le sorgenti d’acqua appartenenti alle fondazioni non musulmane. Come spiega AsiaNews (29 agosto), verranno restituiti anche i beni immobiliari dai titoli di proprietà non definiti, ad esempio quelli di monasteri e parrocchie, che sono privi di personalità giuridica e dunque non esistono per la legge turca. Si stima che circa 1.000 proprietà immobiliari saranno restituite ai greco-ortodossi, circa 100 agli armeni e diverse aicaldei cattolici e agli ebrei. Secondo Today’s Zaman (28 agosto), almeno 157 case, 21 complessi di appartamenti, una fabbrica, tre cimiteri e tre locali notturni torneranno ad esempio all’Ospedale Greco di Balikli, un quartiere di Istanbul. La normativa stabilisce inoltre che le fondazioni non musulmane verranno risarcite se nel frattempo le proprietà confiscate dovessero essere state vendute a terzi. Secondo i calcoli dei media locali, quest’ultima operazione potrebbe costare allo Stato turco circa 700 milioni di euro (Domradio, 30 agosto).
Lo stesso Erdogan ha spiegato la decisione del suo governo – definita da AsiaNews un “coup de théâtre” (colpo di scena) – come un passo nella lotta contro le ingiustizie del passato e contro l’esclusione e la disuguaglianza in Turchia. “I tempi in cui i nostri cittadini venivano oppressi a causa della loro fede, la loro etnia, il loro abbigliamento o stile di vita del passato appartengono al passato del nostro Paese”, ha detto l’ex sindaco di Istanbul durante la cena dell’Iftar (MiGAZIN, 29 agosto). “I 74 milioni di persone che vivono in questo Paese sono cittadini di prima classe e sono ai nostri occhi – con tutte le loro differenze – uguali”, ha continuato il politico dell’AKP.
Le dichiarazioni del premier hanno suscitato reazioni molto positive, come dimostrano le parole del rabbino capo della Turchia, Ishak Haleva. “E’ un fatto straordinario. Oggi è una giornata storica. La luce dell’Impero ottomano continua a brillare”, ha detto Haleva, che ha parlato di “correzione di una ingiustizia”.
Entusiasta è stato anche il commento di uno dei più noti imprenditori della Turchia, Ishak Alaton, che ha qualificato la mossa del governo come “una specie di rivoluzione”, che spiana “la strada verso la pace sociale”. Secondo l’esponente della comunità ebraica, “fino ad oggi, abbiamo sempre parlato di cittadini di prima e seconda classe. Ma oggi abbiamo ci siamo lasciati alle spalle questa discriminazione. Ora tutti saranno uguali”.
Soddisfatta si è dichiarata anche l’avvocatessa Kezban Hatemi, da tempo impegnata nella difesa degli interessi delle minoranze, tra cui quella cattolica. “Questa è un primo passo nella storia della Repubblica turca e una mossa molto significativa”, ha detto a Today’s Zaman. Secondo la Hatemi, “questo è il ripristino di un diritto. Si tratta di un provvedimento richiesto dal Trattato di Losanna e che fa sentire i cittadini non musulmani in Turchia come cittadini con pari uguaglianza”.
Per il direttore dell’Ufficio per i Diritti umani dell’organizzazione cattolica tedesca Missio, Otmar Oehring, che da anni segue da vicino la situazione delle minoranze religiose in Turchia, se il decreto viene ratificato, sarà un passo “coraggioso e anche sorprendente” (Domradio, 30 agosto).
Al coro di “sì” si è unito anche il presidente della Conferenza Episcopale della Turchia, monsignor Ruggero Franceschini. Anche se la comunità dei cattolici latini rimane fuori dalle disposizioni del decreto, ha detto di accogliere la notizia “con gioia” (Radio Vaticana, 29 agosto).
Per i commentatori, la decisione va letta alla luce delle recenti condanne inflitte alla Turchia dalla Corte Europea dei Diritti umani. Al termine di una battaglia iniziata nel 2007, il tribunale con sede a Strasburgo aveva condannato nel giugno 2010 il Paese a restituire l’orfanotrofio di Büyükada, sull’omonima isola nel Mare di Marmara, al patriarcato ecumenico di Istanbul. La sentenza era stata giudicata di “grandissima importanza” (AsiaNews, 16 giugno 2010) perché comportava il riconoscimento esplicito dello stato giuridico del Patriarcato.
Non è da escludere che Erdogan – dotato di un grande intuito politico – ha voluto giocare d’anticipo ed impedire un ricorso alla Corte di Strasburgo da parte di altre entità cristiane, ad esempio i monaci del monastero siro-ortodosso di Mor Gabriel (cfr. ZENIT, 11 febbraio). Oltre a perdere una parte delle sue terre, il monastero situato nel sud-est dell’Anatolia rischia di dover abbattere anche i possenti muri che lo proteggono da attacchi e ladri. “Non vogliamo più belle parole, ma fatti”, aveva dichiarato il metropolita Mor Timotheus Samuel Aktas dopo un deludente incontro con il premier Erdogan, svoltosi nell’aprile scorso (Domradio, 2 giugno).
“Se il governo non avesse preso alcuna iniziativa, la Turchia avrebbe affrontato severe sanzioni dalla Corte Europea”, ha detto a Today’s Zaman il sociologo Ayhan Aktar, autore di vari libri sulle minoranze nel suo Paese. D’altronde, si potrebbe considerare il decreto un asso nelle mani di Erdogan nei colloqui con Bruxelles sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. In varie occasioni, l’UE ha chiesto infatti ad Ankara passi per eliminare le discriminazioni nei confronti delle minoranze religiose. In una prima reazione, un portavoce del Commissario per l’allargamento dell’UE, Stefan Füle, ha parlato di un passo “positivo e opportuno” (Domradio, 30 agosto). “La Commissione europea vigilerà con attenzione sull’attuazione della nuova legge, mantenendosi in contatto sia con le autorità turche che con le comunità religiose non musulmane”, ha aggiunto il portavoce.
Cauto si è detto, invece, un funzionario del governo greco. “Ci sono
state almeno cinque occasioni in cui sono state apportate delle modifiche alla legislazione corrente da quando l’AKP è al governo, ma non sono state molto soddisfacenti nella pratica”, ha detto il rappresentante di Atene, che ha voluto mantenere l’anonimato (The New York Times, 28 agosto). “Speriamo che questa volta i cambiamenti produrranno un vero cambiamento”, così ha auspicato.
Netto invece è stato il rifiuto da parte del presidente dell’Armenian National Committee of America (ANCA), Ken Hachikian. “Novantasei anni dopo il genocidio perpetrato contro gli armeni, greci e siriaci, questo decreto è una cortina di fumo per evitare conseguenze molto più ampie di quegli atti brutali”, ha dichiarato (Asbarez Armenian News, 28 agosto). Secondo Hachikian, con il decreto tornerà infatti “meno dell’uno per cento delle chiese e proprietà ecclesiastiche confiscate durante il genocidio armeno e nei decenni che lo seguirono”. Secondo esperti della Chiesa armena, degli oltre 2.000 luoghi di culto al servizio della comunità armena prima del 1915, meno di 40 funzionano oggi come chiese.