In ricordo del 34.mo della morte di Paolo VI

Testo dell’omelia del cardinale Tettamanzi nella Messa della Solennità della Trasfigurazione del Signore in San Pietro

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di Dionigi Tettamanzi

ROMA, mercoledì, 8 agosto 2012 (ZENIT.org) – Carissimi, in questa santa liturgia il Signore ci raggiunge ancora una volta con il dono della sua parola: una parola che penetra nel cuore ed è destinata a rinnovare la nostra vita nella logica e nel dinamismo della fede. Ci è dato così,nell’ascolto della parola di Dio,di fare nostra – in un certo senso – la visione del profeta Daniele (7, 9-10.13-14). 

Con i suoi occhi contempliamo la figura del Vegliardo, cioè dell’Eterno, di Dio che è tutto candore e fuoco, servito e assistito da migliaia e miriadi di persone. E un’altra visioneancora ci è offerta: “Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo”, al quale vengono dati “potere, gloria e regno”; un potere eterno e universale, un regno che non sarà mai distrutto. È il Messia, il Figlio prediletto di Dio, il capo e salvatore della nuova umanità.

La parola di Dio ci regala oggi anche la testimonianza vissuta dall’apostolo Pietro (2 Pt1,16-19): l’aver ascoltato una voce straordinaria che, come vertice, porta a compimento tutte le voci dei profeti: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. L’apostolo poi ci invita alla grande attesa: “finchè non spunti il giorno e non sorga nei nostri cuori la stella del mattino”. È l’attesa tipica della speranza cristiana, ossia l’incontro personale definitivo con Cristo, il Figlio amato, nella visione del suo splendidissimovolto in un oceano di gioia per sempre.

Infine il racconto dell’evangelista Marco (9,2-10) ci immerge e ci invita a prendere parte all’esperienza spirituale vissuta dai tre apostoli scelti da Gesù: Pietro, Giacomo e Giovanni. Siamo così portati – insieme con loro – “su un alto monte”, quasi un nuovo Sinai; qui vediamo Gesù trasfigurato con le sue vesti “splendenti, bianchissime”, in colloquio familiare con Elia e Mosè: uno spettacolo che ci incanta, come avviene per Pietro che esclama: “Maestro, è bello per noi stare qui”.

Ed ora eccoci di fronte al segno della presenza viva di Dio stesso: “Si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: ‘Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!’”. Infine, la sorpresa di trovare “Gesù solo” e di ricevere da lui, scendendo dal monte, l’ordine perentorio di “non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti”.

Ma perché? Lo stesso evangelista ci offre un interessante spunto di risposta quando scrive degli apostoli che obbediscono sì al comando di Cristo, ma tenendosi aperta nel cuore una domanda: “domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti”.

Emerge così il senso profondo che Gesù da al suo trasfigurarsi davanti agli apostoli e in loro a tutti noi: è profezia di quella gloria che il Padre gli riserveràfacendolo risorgere da morte come frutto dell’amore e del dono totale di sè vissuto nelle tenebre delle sofferenze incontrate nella passione e sulla croce per la salvezza dell’umanità: di tutti e di ciascuno.

Riflettendo ora, nell’ascolto della Parola di Dio e nella preghiera, su questo senso della Trasfigurazione di Gesù possiamo coglierne i frutti di grazia e le esigenze morali per la nostra vita cristiana.

In questo ci è di aiuto l’esperienza spirituale e la parola di Papa Paolo VI, della cui piissima morte facciamo amorosa e commossa memoria in questa celebrazione eucaristica.
Si sa che Papa Montini amava molto la solennità liturgica della Trasfigurazione del Signore: la sentiva come momento di grande e profonda spiritualità.

È significativo, ad esempio, che la sua prima enciclica, Ecclesiam suam, sia stata pubblicata con la data del 6 agosto 1964. Un altro piccolissimo ma degno particolare è questo: per l’abside della rinnovata cappella del Seminario Lombardo dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma, richiesto di un parere da parte del Rettore, Paolo VI suggeriva immediatamente la raffigurazione mosaicale del mistero della Trasfigurazione.

Soprattutto ci è dato, come singolare regalo,il testo del Discorso preparato per l’Angelus del 6 agosto 1978,che il Ponteficeperò non potè pronunciare a Castel Gandolfo perché malato. Come si sa, la sera di quello stesso giorno veniva lui stesso “trasfigurato” dalla morte.

Le parole di questo Discorso sono diventate realtà: dicono ormai, ne siamo certi, la condizione definitiva della vita beata di Paolo VI, accesa per sempre nel cuore stesso di Dio. E confido qui il mio ardente desiderio – e sono sicuro che è condiviso da tanti (tutti) – che presto la Chiesa possa venerare Paolo VI come beato: un desiderio che mi si riaccende ogniqualvolta leggo i suoi scritti e penso al suo servizio d’amore alla Chiesa e all’umanità.

Ecco le sue parole: “La Trasfigurazione del Signore… getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana e ci fa rivolgere la mente al destino immortale che quel fatto in sé adombra. 

Sulla cima del Tabor, Cristo disvela per qualche istante lo splendore della sua divinità, e si manifesta ai testimoni prescelti quale realmente egli è, il Figlio di Dio, «l’irradiazione della gloria del Padre e l’impronta della sua sostanza» (Cfr. Hebr. 1, 3); ma fa vedere anche il trascendente destino della nostra natura umana, ch’egli ha assunto per salvarci, destinata anch’essa, perché redenta dal suo sacrificio d’amore irrevocabile, a partecipare alla pienezza della vita, alla «sorte dei santi nella luce» (Col. 1, 12). 

Quel corpo, che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli, è il corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria, perché siamo «partecipi della natura divina» (2 Petr. 1, 4). 

Una sorte incomparabile ci attende, se avremo fatto onore alla nostra vocazione cristiana: se saremo vissuti nella logica consequenzialità di parole e di comportamento, che gli impegni del nostro battesimo ci impongono”. 

Carissimi, nei riguardi della Trasfigurazione del Signore – come in rapporto  a tutti gli altri “misteri” riguardanti la persona, la vita e la missione di Cristo – siamoinvitati al “sì” gioioso e impegnativo della fede.Possiamo fare della nostra fede un canto servendoci del Prefazio ambrosiano: “Cristo rivelò la sua gloria davanti a testimoni da lui prescelti e nella povertà della nostra comune natura fece risplendere una luce incomparabile. Preparò così i suoi discepoli a sostenere lo scandalo della croce, anticipando nella trasfigurazione il destino mirabile di tutta la Chiesa, sua sposa e suo corpo, chiamata a condividere la sorte del suo Capo e Signore”. 

Il “sì” della nostra fede in questo mistero significa, in concreto, impegno diconoscenza, di contemplazione e preghiera, di vita coerente, testimonianza e slancio missionario e grande letizia spirituale. A sollecitarci in questo è l’imminente Anno della Fede, indetto da Benedetto XVI nel cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II. Esso ci ricorda l’analogo Anno della Fede voluto da Paolo VI nel 1967. 

Ed è a lui che in tema di fede desideriamo lasciare l’ultima parola, riprendendola da una sua udienza del mercoledì: “E cantando ora il Credo sul sepolcro dell’Apostolo, che ha avuto da Cristo la missione di confermare nella fede i fratelli, meglio comprenderemo il valore della fede nella vita cristiana: non più peso essa ci sembrerà, ma energia e gaudio; non più temeremo di immergerci nella vita profana del mondo, dove non saremo sperduti e naufraghi, ma testimoni sereni e forti d’una luce vigiliare e notturna, la fede nel tempo presente, foriera della luce piena del giorno eterno” (Udienza del mercoledì, 20 aprile 1966).

Così sia.

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ZENIT Staff

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