In questa seconda domenica di agosto dedicata per molti al riposo, la liturgia sembra andare controcorrente, proponendoci una riflessione sui temi della vigilanza, della responsabilità e del giudizio. Il Vangelo di oggi inizia con una forte parola di incorragiamento per il grande dono che abbiamo già ricevuto. “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno.” (Lc 12,32).
Queste parole contengono una promessa, ma anche un comando. La promessa di Dio è quella di ricevere in eredità il suo regno, quella vita eterna e beata alla quale ogni essere umano anela dal profondo del suo cuore. Il comando è quello di essere un piccolo gregge, che vuol dire in altre parole, rimanere uniti nel vincolo della pace nei vari ambiti in cui ci troviamo: la famiglia, la comunità cristiana, la società.
Proprio per garantire questa unità, è necessario superare tutti gli ostacoli che impediscono tale comunione. Con grande chiarezza e sintesi, l’evangelista Luca presenta la radice di ogni discordia: l’avarizia sfrenata, la bramosia delle ricchezze, il desiderio di accumulo. “Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma.” (Lc 12,33).
I beni costituiscono spesso un ostacolo alla comunione. Al contrario, la condivisione di ciò che si possiede crea condivisione, fraternità, solidarietà. La corruttibilità degli elementi della materia non riguarda solo i beni materiali, ma anche l’animo di chi li possiede. Tra il cuore e beni materiali si rischia di creare una tale simbiosi a tal punto che la “corrosione delle ricchezze” rischia di contagiare la purezza del cuore.
L’invito a essere sempre pronti con la cintura ai fianchi, significa non adagiarsi sulle proprie ricchezze che tendono ad immobilizzarci, come accade esattamente ad un abito lungo senza una cintura.
Avere la cinta ai fianchi, significa essere liberi di muoversi, per andare incontro ai bisogni dell’altro, e compiere così il servizio che ci è stato affidato dal padrone. “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa.” (Lc 12,35-36).
Ancora una volta queste parole sembrano dirci di non farci governare dai beni. Il Signore è il padrone della vita. Se manteniamo la lampada della fede sempre accessa, ossia, se ci ricordiamo di questo insegnamento sui beni terreni per non trasformarli in idoli o divinità da servire, allora la vita acquista un senso e un orientamento diverso, perchè volge lo sguardo all’eternità di Dio.
Quel servizio di condivisione e di compassione verso il prossimo diventerà la causa della nostra gioia, perchè saremo serviti da quello stesso padrone che abbiamo servito. La ricompensa del servizio a Dio sarà essere serviti da Dio stesso. Per questo la tradizione dei Padri ha intravisto in questo parole la vita eterna come luogo di assoluto riposo da ogni fatica, perchè sarà Gesù Cristo stesso ad essere il nostro servitore.
“Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!” (Lc 12, 37-38).
I frutti di questo avvenimento escatologico non è solo qualcosa del futuro, ma li iniziamo a pregustare sulla terra. Ogni volta che ci accostiamo alla banchetto eucaristico veniamo serviti da Cristo stesso che offre la sua stessa vita.
Infine, viene fatto riferimento alla figura del ladro, che acquista una duplice significato. Il ladro è colui che si impossessa impropriamente dei beni altrui sottraendoci la vana tranquillità che deriva dal loro possesso.
Il ladro è anche figura di Cristo che rapisce la nostra vita terrena per donarci la vita eterna. Per i servitori fedeli del Vangelo, questo rapimento non costituisce una dramma ma una gioia. Essere svegli e vigilanti sino a quando la nostra anima sarà rapita in cielo è pegno di beatitudine e giubilo.
Queste parole, che richiedono una costanza nel servizio, sembrano essere troppo esigenti, soprattutto verso coloro che si impegnano già tanto nel servire gli altri. “Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?».” (Lc 12,41).
Delle volte viene in mente il pensiero: ma io già faccio tanto, un po’ di rilassatezza e riposo me lo posso permettere, considerato il ruolo che occupo, e visto tutto quello che faccio ogni giorno per gli altri. La logica di Gesù è diversa. Coloro ai quali è stata affidata una grande responsabilità, la devono svolgere sempre con il massimo impegno e grande dedizione. Se abbiamo avuto tanto, dobbiamo dare tanto.
La lunga attesa del ritorno del nostro padrone Gesù Cristo alla fine della nostra vita e alla fine dei tempi, ci potrebbe portare a correre il rischio di vivere la vita solo per noi stessi, e maltrattare coloro che Dio ci ha affidato. E questo avviene quando teniamo per noi stessi i talenti che abbiamo ricevuto, senza impegnarli tutti i giorni per arricchire di amore il prossimo. E se non li facciamo fruttare questi talenti, essi si svaluteranno, perderanno valore, ed in noi verrà eclissata la speranza della vita eterna.
Quando invece pensiamo si spendere la nostra esistenza come servi inutili, allora Egli verrà e busserà alle porte della nostra vita trasferendoci dall’abitazione del nostro corpo alla dimora del cielo preparata per noi fin dall’eternità (Gv 14, 2-3).