«Una tragedia che potrebbe ripetersi. Vi sono molti altri migranti nelle mani di Isis». Così il sacerdote eritreo don Mussie Zerai commenta ad Aiuto alla Chiesa che Soffre l’uccisione dei circa trenta cristiani etiopi ed eritrei per mano dello Stato Islamico, ripresa in un video diffuso dal gruppo terrorista il 19 aprile.
Don Zerai, fondatore e presidente dell’agenzia Habeshia, è noto per il suo impegno in difesa dei richiedenti asilo e dei migranti in fuga da guerre, dittature, terrorismo e persecuzione. Un impegno che nei mesi scorsi gli è valso la candidatura al premio Nobel per la Pace.
«Le persone uccise dai jihadisti speravano di iniziare una nuova vita e ricevere protezione in Europa». Come loro molti altri cristiani affrontano lunghi viaggi, anche per fuggire da situazioni di persecuzione. E nel loro cammino incontrano gravi discriminazioni a causa della loro fede.
«Nei campi di detenzione in Libia i cristiani sono sempre stati discriminati e maltrattati – riferisce il sacerdote ad ACS – Nei giorni scorsi mi hanno informato che in un centro di Misurata i cristiani sono obbligati a pregare assieme ai musulmani e ad osservare il digiuno nel mese del ramadan. Con la differenza che mentre al calar del sole i detenuti musulmani ricevono del cibo, ai cristiani è negato anche questo diritto».
In merito alla tragica vicenda dei dodici cristiani gettati in mare nel Canale di Sicilia lo scorso 14 aprile, il sacerdote invita invece alla cautela. «Le dinamiche non sono ancora state confermate dalla magistratura ed è la prima volta che si hanno notizie di discriminazioni religiose tra i migranti sui barconi. Spero che non sia vero, altrimenti sarebbe terribile».
Tra i migranti cristiani uccisi dallo Stato Islamico vi erano almeno tre eritrei, identificati attraverso il video diffuso dai jihadisti. Don Zerai racconta la persecuzione vissuta dai fedeli nel suo paese, non a caso noto come la “Corea del Nord d’Africa”. Secondo i dati dell’ultimo rapporto sulla libertà religiosa di Aiuto alla Chiesa che Soffre in Eritrea sarebbero circa 1.200 i cristiani detenuti in carcere anche per motivi religiosi.
«Molti leader cristiani, soprattutto pentecostali, sono stati arrestati e torturati e alcuni di loro hanno trovato la morte in carcere. Perfino il patriarca ortodosso eletto canonicamente si trova ora agli arresti domiciliari ed è stato sostituito da un patriarca vicino al regime».
Lo stretto controllo governativo riguarda anche la Chiesa cattolica le cui pubblicazioni – “colpevoli” di denunciare ingiustizie e abusi – sono state chiuse già da dieci anni. «Ci hanno vietato di pubblicare la traduzione della Dottrina sociale della Chiesa in lingua tigrina. I censori sostengono che contenga temi politici».
Don Zerai teme possibili rivendicazioni in seguito alla lettera pastorale scritta dai quattro vescovi di Eritrea nel giugno 2014: una chiara denuncia delle difficili condizioni in cui versa la Chiesa locale. «Il regime non ha ancora agito perché non vuole apparire vendicativo. Ma i vescovi si attendono una dura reazione in futuro».
Migliore la situazione dei cristiani in Etiopia, «dove tuttavia – dichiara ad ACS-Italia padre Habtesilassie Haillemariam, sacerdote del Pontificio Collegio Etiopico – si inizia ad avvertire la pressione di paesi confinanti a maggioranza islamica, quali Sudan e Somalia».
Molto apprezzato è stato il messaggio di cordoglio che Papa Francesco ha inviato al Patriarca della Chiesa Ortodossa etiopica, Abuna Matthias. «Le parole del Santo Padre avranno anche un importante effetto sui rapporti ecumenici, che trovano un ostacolo nell’identificazione tra la Chiesa cattolica e l’invasore italiano, ampiamente diffusa ancora oggi».
Recentemente il Papa ha inoltre invitato l’Europa ad un impegno più esteso in favore delle migliaia di migranti che cercano una vita migliore nel Vecchio continente.
«È importante agire alla radice e non limitarsi a rispondere all’emergenza – dichiara ad ACS don Mussie Zerai – Ogni anno si ripetono le stesse tragedie. Tragedie annunciate. Per combattere il traffico e porre fine alla morte nel deserto o nel Mediterraneo di tanti migranti innocenti si deve dare loro un’alternativa legale e soprattutto cercare di risolvere nei loro paesi di origine, problemi quali dittature, guerre, persecuzione e contesti socioeconomici per nulla dignitosi».