Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture per la Domenica XXVIII del Tempo Ordinario (Anno B) — 11 ottobre 2015.
Come di consueto il presule offre anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
Rito Romano
Sap. 7, 7-11; Sal 89; Eb. 4,12-13; Mc. 10,17-30
Rito Ambrosiano
Is 43,10-21; Sal 120; 1Cor 3,6-13; Mt 13,24-43
VII Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.
1) La strada.
Anche nel brano evangelico di questa domenica vediamo Cristo in cammino verso Gerusalemme, e anche oggi vediamo un incontro del Messia con uno che non vuole entrare in polemica con Lui. Questo uomo è ricco e, anche se giovane, sa che prima o poi avrebbe dovuto abbandonare le sue ricchezze. “Credo che venisse chiamato in una specie di giudizio dal timore della morte e si rodeva in mezzo alle sue delizie, pensando di dover abbandonare i suoi beni. Li aveva ammassati, senza sapere per chi, e desiderava qualcosa di eterno” (Sant’Agostino). Dunque vedendo che quanto possedeva gli sfuggiva di mano chiese al Signore: “Maestro buono, qual bene devo compiere per conseguire la vita eterna?” E’ come se dicesse: “Starei bene, ma quel che possiedo fa presto a scomparire. Dimmi come possa appropriarmi di ciò che sarà per sempre; dimmi come possa giungere al possesso di ciò che non debba mai perdere” (Id.). Dunque questo giovane ricco corre incontro a Gesù, si mette in ginocchio davanti a Lui e a Colui, che è la Via, chiede il senso, la direzione della vita.
Cristo gli risponde citando alcuni dei dieci comandamenti, quelli significativi nella dimensione sociale, e che riguardano l’amore del prossimo, banco di prova dell’amore di Dio: “Conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre…”.
Al giovane che Gli risponde di averli osservati, Gesù propone di andare oltre, e render più radicale e profondo l’amore per Dio, mettendo questo amore al primo posto tra i valori della vita, e gli suggerisce: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”.
L’esigenza fondamentale della sequela è il primato di Dio, il resto è un di più, si può possedere o non possedere, ma è necessario che il cuore, non sia totalmente legato, assorbito nelle ricchezze, nei beni temporali, ma desideri profondamente, quel “tesoro che è nei cieli”. Il cuore dell’uomo, come Sant’Agostino insegna, è fatto per Dio, e a Lui deve aspirare, pur “servendosi” delle realtà temporali. Lasciamo quindi che il Signore penetri nei nostri cuori con la spada della Sua parola, perché alla luce della Sua sapienza possiamo valutare le cose terrene ed eterne, e diventare liberi e poveri per il Suo regno.(cfr. Colletta della Messa di oggi)
Gesù invita questo giovane e i suoi discepoli , noi compresi ,al viaggio integrale per la sua sequela, con un rigore che non ha precedenti. In un passo analogo a quello di San Marco, l’Evangelista Luca scrive: “Mentre era in cammino, sulla strada, un tale gli disse: ‘Io ti seguirò dovunque tu vada’. Gesù gli disse: ‘Le volpi hanno tane, e gli uccelli del cielo hanno nidi; il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo’… Un altro gli disse: ‘Ti seguirò, Signore, ma prima permettimi di accomiatarmi dai miei di casa’. Gli rispose Gesù: ‘Chiunque guarda indietro, mentre mette mano all’aratro, è inadatto per il regno di Dio’” (Le. 9, 57-58…61-62).
Seguire Cristo, infatti, comporta che si sia disposti a vivere qualcosa in più rispetto al “non rubare”, “non uccidere”, ecc. Oltre a non commettere il male dovremmo porci il problema su come realizzare il bene e soprattutto come “essere” persone vere nell’amore.
Gesù aveva già annunciato che per salvare la propria vita bisognava essere disposti a perderla per amor Suo, cioè che per seguirLo occorreva rinnegare se stessi e portare la propria croce (Mc 8,34-35).
2) Seguire con gli occhi, seguire con i passi, seguire con il cuore.
L’uomo ricco che andò da Cristo era sincero e si guadagnò uno sguardo pieno d’amore da parte di Gesù, che con questo sguardo è come se gli dicesse: “Una sola cosa ti manca, decisiva per te. Rinuncia a possedere, investi nel tesoro del cielo, e il tuo cuore sarà libero e potrà seguirmi”. Ma né lo sguardo né le parole di Gesù ebbero effetto. Quest’uomo, rattristato, ha tuttavia preferito ritornare alla sicurezza che gli procurava la propria ricchezza. Non ha potuto o voluto capire che gli veniva offerto un bene incomparabilmente più prezioso e duraturo di tutte le sue ricchezze: l’amore di Cristo che comunica la pienezza di Dio (Ef 3,18-19). Alla proposta di comunione che era implicita nella domanda di Cristo di seguirLo, quest’uomo preferì la solitudine.
Eppure Cristo lo aveva guardato con amore. Gesù guardò il ricco e quello sguardo di Gesù fu come una carezza, come un bacio … bacio che il maestro dava al discepolo al tempo di Gesù: come nel caso di Giuda (cf. Mc 14,45 e par.). Potremmo interpretare questo sguardo come fece San Beda, il Venerabile, commentando lo sguardo di Gesù sul pubblicano Matteo (cf. Mt 9,9: “Gesù vide il pubblicano, lo vide facendogli misericordia, e lo chiamò dicendogli: ‘Seguimi!’” (Omelie 21, CCL 122,150). Gesù non gli disse: “Va tutto bene, ma se vuoi fare qualcosa di più, allora va’ e vendi i tuoi beni…”, ma: “Ti manca una cosa, lascia tutto e seguimi me” (cf. Mc 10,21). Ecco dove Gesù aveva portato il giovane con il suo sguardo di amore misericordioso. Purtroppo, quest’uomo non credette a questo sguardo e a queste parole, divenne triste e si tirò indietro (cfr. Mc 10,22). Non credette a quello sguardo, non credette a quell’amore e non fu capace di seguirlo con i passi del cuore.
Questo giovane ricco non ebbe il coraggio di abbracciare Cristo e la sua proposta di vita evangelica, e il motivo è detto con chiarezza: “Poiché aveva molti beni”. Il distacco dai beni, la povertà è condizione indispensabile per la sequela. E lo è per tre ragioni:
1. La fede in Dio che è Padre provvidente, che se ha cura degli uccellini e dei gigli dei campi, ha ancor più cura di ciascuno di noi.
2. Un’esigenza di fraternità: come si può continuare a possedere tutto ciò che si ha, quando ci accorgi che attorno a te ci sono fratelli che mancano del necessario?
3. E un’esigenza di libertà: legato a troppe cose (e non si tratta soltanto di soldi), che assorbono tutto il nostro tempo e la nostra attenzione, come possiamo trovare lo spazio e il gusto per le cose di Dio?
Queste tre ragioni possono essere sintetizzate con una parola sola: verginità, che Jacopone da Todi chiama: innamorata povertà.
3) Verginità: povertà di sé per la pienezza di Dio.
La verginità è “povertà innamorata, che permette di possedere ogni cosa in spirito di libertà” (Jacopone da Todi, O amor de povertate), è la modalità di accogliere lo sguardo e l’amore di Cristo su di sé, seguendoLo senza riserve, senza chiedere garanzie o avere vie di fuga. Si lascia tutto anche la propria carne per seguire Gesù, senza nostalgie e senza indecisioni, per il cammino che è Lui. Il distacco richiesto è un guadagno, un affare, non una perdita. E questo è profondamente vero anche a uno sguardo semplicemente umano: nella sobrietà di quei beni, che il Vangelo chiama ricchezze, si trova la possibilità di altri beni ben più importanti ed umani, essenziali per l’
uomo come l’aria che respira: il tempo per Dio, la gioia della fraternità, la liberazione dall’ansia del possesso, la libertà, la serenità.
Chi mediante la verginità mette Dio al primo posto nella sua vita, questi entra a far parte della Sua “famiglia”, dove trova fratelli e sorelle da amare, padri e madri da venerare, case e campi ove lavorare. Trova l’amore. La verginità non è negazione dell’amore, è pienezza e totalità dell’amore. Per questo il Rituale della Consacrazione delle Vergini fa pregare così: “Ferventi nella carità, nulla antepongano al tuo amore» (Preghiera di consacrazione delle vergini, in Pontificale Romano, riformato a norma dei Decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, Consacrazione delle Vergini, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1980, n. 38, p. 77).
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LETTURA PATRISTICA
Clemente di Alessandria
Quis dives, 11-14
“Vendi ciò che hai“. Che significa? Non quello che alcuni ammettono così a prima vista, che cioè il Signore ci comandi di far getto dei beni posseduti e di rinunciare alle ricchezze; ci comanda piuttosto di bandire dall’anima i pensieri usuali sulla ricchezza, la passione morbosa verso di essa, le preoccupazioni, le spine dell’esistenza che soffocano il seme della vita. Non è infatti nulla di grande e di desiderabile l’essere privi di ricchezze ma non per lo scopo di raggiungere la vita eterna: altrimenti i miserabili che non hanno nulla, che son privi di ogni mezzo, che mendicano ogni giorno il sostentamento, gli accattoni che giacciono per le vie e che pur non conoscono Dio e la giustizia di Dio, solo perché sono tanto poveri e non sanno procacciarsi da vivere e son privi anche del minimo necessario, dovrebbero essere i più beati e amati da Dio e i soli atti a possedere la vita. Non è una novità rinunciare alle ricchezze ed elargirle ai poveri e ai mendici: molti l’han fatto, prima che il Salvatore scendesse quaggiù: alcuni per aver tempo di dedicarsi agli studi e alla sapienza morta, altri per una fama vuota ed una gloria vana: gli Anassagora, i Democrito, i Cratete.
Cos’è dunque la novità, da lui annunciata come qualcosa proprio di Dio, che solo vivifica e che non salvò gli antichi? Cos’è la rarità, cos’è la «nuova creazione», che il Figlio di Dio proclama e insegna? Non qualcosa di manifesto o che altri han già fatto egli ci prescrive, ma qualcosa d’altro, più grande, più divino e più perfetto, che da quella vien simboleggiato: liberare l’anima e la sua intima disposizione dalle passioni, e rescindere ed estirpare dalla radice ciò che è estraneo alla ragione. È questa la scienza propria dell’uomo di fede, è questo l’insegnamento degno del Salvatore. Quegli antichi disprezzarono le cose esteriori, rinunciarono ai loro beni e li distribuirono, ma son convinto che alimentarono così le passioni dell’anima. Crebbero nella superbia, nella millanteria, nella vanagloria, e nel disprezzo degli altri uomini, come se avessero compiuto qualcosa di sovrumano. E come potrebbe il Salvatore comandare a coloro che vivranno in eterno ciò che è di danno e di rovina per la vita che egli promette? Inoltre è possibile anche questo: che uno deponga il peso dei propri possessi e tuttavia porti radicata e vivida in sé la brama e l’anelito alle ricchezze, ed è possibile anche che uno ne abbia perso l’uso, ma per la privazione e il desiderio di ciò che ha sperperato sia tormentato da una duplice sofferenza: la mancanza del necessario e il pentimento di ciò che ha fatto. È impossibile, è impensabile, infatti, che chi manca del necessario per la vita, non abbia l’animo tutto agitato e continuamente stimolato dalla continua ricerca di una situazione migliore: in che modo e dove se la possa procurare.
Ma quanto meglio è il contrario: che uno possegga il necessario, e così non debba soffrire lui e abbia da elargire agli altri ciò che conviene. Che possibilità ci sarebbe di beneficare il prossimo, se tutti non possedessero nulla? E come si potrebbe negare che questa dottrina non sia in netto contrasto con molti altri ottimi insegnamenti del Signore? “Fatevi degli amici con il mammona di iniquità, affinché quando giungerete alla fine, vi accolgano nelle tende eterne” (Lc 16,9). “Preparatevi tesori in cielo, dove né la ruggine, né la tignola distruggono, né i ladri scavano” (Mt 6,20). E come si potrebbe dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi e accogliere i pellegrini – e a quelli che non fan ciò vien minacciato il fuoco e le tenebre esteriori -, se prima non si possedesse tutto questo? Anzi, egli stesso comanda di accoglierlo come ospite a Zaccheo e a Matteo, che pur erano ricchi e pubblicani; e non comanda loro di rinunciare alle ricchezze, ma, dopo aver suggerito il retto uso e vietato quello ingiusto, soggiunge: “Oggi si è compiuta la salvezza per questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo” (Lc 19,9). Loda dunque l’uso delle ricchezze, imponendo però di comunicarle agli altri: dar da bere a chi ha sete, dar del pane a chi ha fame, accogliere lo straniero e vestire l’ignudo. Ora, nessuno può compiere questi uffici senza le ricchezze; eppure il Signore ci comanda di rinunciarvi. Che altro fa dunque se non imporre di dare e non dare, di nutrire e non nutrire, di accogliere e non accogliere, di comunicare agli altri e non comunicare? Ma ciò è assolutamente contraddittorio.
Non si hanno perciò da rigettare le ricchezze che devono servire a vantaggio del prossimo; sono possessi perché la loro caratteristica è di essere possedute e son dette beni perché servono al bene, e sono state preparate da Dio per i bisogni degli uomini. Esse dunque sono presenti, sono a portata, come materia, come strumento per servire ad un buon uso a chi bene le conosce. Se ne usi con intelligenza, lo strumento è intelligente; ma se manchi di intelligenza, partecipa alla tua mancanza di intelligenza, pur non avendone colpa. Un tale strumento, dunque sono le ricchezze. Ne puoi usare con giustizia: ti sono ministre di giustizia. Qualcuno ne usa ingiustamente? Scopriamo che sono ministre di ingiustizia. La loro natura è di servire, non di comandare. Non dobbiamo dunque rimproverare loro di non avere in sé né il bene né il male e di essere fuori causa; bensì dobbiamo rimproverare chi può usarne o bene o male come gli pare, cioè la mente e il giudizio umano, che è libero in sé e padrone di usare delle cose a lui concesse. Nessuno cerchi dunque di distruggere la ricchezza, ma le passioni dell’anima, che non permettono l’uso migliore dei beni, non lasciano che l’uomo sia veramente virtuoso e capace di usare rettamente della ricchezza. L’ordine dunque di rinunciare ai nostri beni e di vendere ciò che si possiede lo si deve intendere in questo modo: è stato impartito contro le passioni dell’animo.