Si sono giocati nello scorso weekend due entusiasmanti quarti di finale del campionato mondiale di rugby che si sta svolgendo in Inghilterra: la nazionale albiceleste argentina ha asfaltato l’Irlanda, i Wallabies australiani hanno eliminato al cardiopalma e di misura il Galles.
Le due vincenti si incontreranno nei prossimi giorni in una semifinale, l’altra vedrà gli Springbox sudafricani opposti ai campioni in carica neozelandesi degli All Blacks.
Il rugby è tra gli sport di squadra quello probabilmente più duro, a tratti violento, ma i cui valori di lealtà sportiva lo caratterizzano e lo differenziano nettamente rispetto all’amato calcio.
Storicamente considerato uno sport elitario e rigorosamente amatoriale, negli ultimi decenni il rugby ha assunto un carattere meno classista affermandosi anche come sport popolare e professionistico con buona attenzione mediatica.
I continui contatti tra i giocatori avversari sono regolamentati da un codice di fair play molto chiaro e la stessa gerarchia delle infrazioni al regolamento prevede che l’arbitro sia un elemento di tutela della salute dei partecipanti, dello spirito del gioco e di rispetto della sua natura agonisticamente selvaggia.
Come sempre accade nel mondo dello sport business anche questo evento si è imposto all’attenzione degli appassionati televisivi – noi “matti per lo sport” – per la rivoluzionaria introduzione, oltre ad altre diavolerie tecnologiche che rendono possibile la visione in slow motion di alcune azioni controverse per favorire le decisioni arbitrali, della telecamera go….. fissata sul corpo dell’arbitro.
Ad un ‘teletifosissimo’ di calcio come me, abituato ai dialoghi criptati tra calciatori ed arbitri con la mano rigorosamente piazzata sulla bocca ad evitare ogni possibile lettura del linguaggio labiale, è parso incredibile entrare virtualmente nel corpo dell’arbitro, sentire ogni parola rivolta ai giocatori nell’intento di spiegare con finalità educativa ogni decisione.
Altrettanto impensabile l’immagine di energumeni avvicinarsi a pochi centimetri dalla telecamera fino a bagnarla di sangue e sudore per sentirsi redarguiti per aver indotto volontariamente l’avversario al fuorigioco. É questa la differenza tra il calcio ed il rugby: le regole del calcio sono fatte, come nella vita, per essere aggirate… nel rugby per apprezzare il contenimento che esse stesse determinano, per consentire il bel gioco, in inglese il fair play.
È comunque strano sentirsi virtualmente nel corpo dell’arbitro… senza temerne le conseguenze fisiche negative o i rischi del tradimento della coniuge (le moglie dell’arbitro sono notoriamente oggetto di attenzioni particolari da parte dei tifosi per la presunta infedeltà).
Immedesimarsi in un’altra persona è un’attitudine tipicamente umana. Comporta un’attenzione verso l’altro che permette di avere una visione delle situazioni non unicamente soggettiva ma più contestuale. È una funzione mentale, quella dell’empatia, che somiglia a quella di un Bluetooth di un telefono cellulare o di un tablet e che permette a due technical devices di sintonizzare i contenuti delle operazioni in corso riducendo la possibilità che entrino in conflitto.
Negli esseri umani l’empatia sintonizza gli stati emotivi informando sulla disponibilità delle persone a scambiare contenuti della propria coscienza. Più informazioni condivise attraverso i social network formano la base per una community, più informazioni empaticamente sintonizzate tra gruppi reali di persone determinano la cultura, il senso comune e la coscienza collettiva. Non è un mistero che la mescolanza tra comunicazioni virtualmente mediate e condivisioni relazionali stia determinando una grande quantità di cambiamenti sociali, del sentire comune e delle valutazioni culturali. È la realtà aumentata o modificata.
Nel caso del rugby televisivo sentirsi nei panni dell’arbitro fa immedesimare il telespettatore nei valori di questo splendido sport cavalleresco. Rende il tifoso più disponibile a comprendere le ragioni del regolamento, dell’avversario, ad accettare le decisioni… anche quelle spiacevoli.