Pubblichiamo di seguito l’intervento che il Cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin ha pronunciato ieri presso la Pontificia Università Lateranense nel corso della presentazione del libro “Riflessioni d’alta quota” a cura di Mons. Leonardo Sapienza:
Intervento del Cardinale Segretario di Stato
Eccellenze,
Sig. Rettore Magnifico,
Reverendo P. Sapienza,
Signore e Signori,
Cari amici,
Rivolgo a tutti voi un cordiale saluto, mentre ringrazio per il cortese invito. Non so se le brevi riflessioni che sto per condividere con voi saranno “d’alta quota”, come il titolo del volume richiederebbe. Posso dirvi però che è stato bello lasciarmi condurre ad alta quota dalle fotografie e dalle parole del libro, che intendono spingerci verso l’alto.
Verso l’alto era il motto preferito del Beato Piergiorgio Frassati, il quale amava camminare in gruppo in montagna per ritrovarvi sia la bellezza di condividere con gli altri gioie e asprezze del percorso, sia il senso del vivere, che consiste, appunto, nell’ascendere verso l’Alto, con la maiuscola. Verso l’alto è pure un’espressione utilizzata da San Giovanni Paolo II, di cui ricordiamo l’affetto per la montagna, quando, davanti a uno spettacolare scenario alpino, disse: «Guardando le cime dei monti si ha l’impressione che la terra si proietti verso l’alto, quasi a voler toccare il cielo; in tale slancio l’uomo sente in qualche modo interpretata la sua ansia di trascendenza e di infinito» (Angelus, 7 settembre 1986).
Papa Benedetto aggiunse, a tale proposito, che «a contatto con la natura, la persona ritrova la sua giusta dimensione, si riscopre creatura, capace di Dio perché interiormente aperta all’infinito» (cit., pag. 90). La montagna, dunque, può rappresentare la parabola della vita, protesa verso l’infinito. Sul come arrivarci, vale per la montagna come per la vita la citazione, ancora di Giovanni Paolo II, riportata a pag. 12 del volume: «Le grandi vette si raggiungono solo con il sacrificio». Non vorrei dirlo per “deformazione professionale”, quasi a lasciar intendere che i buoni traguardi, come in diplomazia, si conseguono quasi sempre attraverso un cammino fatto di varie rinunce e molta pazienza. In realtà, è esperienza concreta di ciascuno che le vette dell’esistenza si raggiungano attraverso il sacrificio. Ed è una consapevolezza che ben si allena a contatto con la montagna: chi di noi, salendovi, non si è chiesto il motivo di aver intrapreso tanta fatica, soprattutto quando la cima sembra non arrivare mai e lungo il cammino l’ardore iniziale svanisce presto? Poi, però, arrivati in vetta e guardando giù, si è colti dalla sorpresa di vedere gli stessi paesaggi in modo nuovo, come realtà che solo dall’alto, insieme, rivelano la propria armoniosa bellezza.
E si staglia davanti agli occhi un altro insegnamento prezioso: dall’alto si rivede il sentiero percorso da un’altra prospettiva. Si capisce che non si sarebbe potuto percorrerne nessun altro, che per raggiungere la meta non si sarebbe potuto accorciare il cammino. Così è nella vita: solo custodendo una prospettiva alta si può dare un senso unitario alle fatiche che il cammino di ogni giorno richiede; solo attraverso i tornanti dei sacrifici, la forza di volontà nel proseguire insieme, l’incoraggiamento vicendevole e la pazienza quotidiana di avvicinarsi al Cielo, si arriva, passo dopo passo, a toccare con mano l’infinito per cui siamo stati creati.
Non è dunque un caso che i momenti “salienti” della storia della salvezza Dio li abbia ambientati sui monti: dal Sinai, dove diede a Mosè le parole della Legge, al Carmelo, dove rivelò per mezzo di Elia la sua unicità e santità, gli esempi sarebbero molti già prima di Gesù. Il quale in altura tenne il suo primo e più celebre discorso, detto appunto “della montagna”, per poi mostrare la sua gloria trasfigurandosi sul monte Tabor e compiere ogni Scrittura sul Calvario; per ascendere infine al cielo dal Monte degli Ulivi. Pare insomma che Dio per rivelarsi abbia dato appuntamento all’umanità in alto. Perché solo staccandosi dal vivere “terreno”, orizzontale, l’uomo ritrova basi di vita davvero stabili, fondate in cielo più che in terra, radicate nelle cose di lassù piuttosto che in quelle di quaggiù (cfr Col 3,1), più nella sete dell’infinito a cui aspiriamo che nelle cose finite per cui ci affanniamo.
L’essenziale può allora condensarsi nelle parole di Giovanni Paolo I: «Bisogna avere più fame di santità, più nostalgia delle vette» (cit., pag. 52). Dando la voce ad alcuni dei Papi citati nel testo, non ho menzionato la Laudato si’, che costituisce il filo rosso del volume, al punto che esso pare quasi la trasposizione per immagini dell’Enciclica. Non mi soffermo su di essa perché il Rettore offrirà opportuni spunti su un documento attualissimo, che ci richiama alla cura nei riguardi del creato. Solo, vorrei evocare un’immagine che credo abbiamo ancora negli occhi, pur non essendo più raffigurabile in alcun volume. Infatti, se i bravi fotografi che hanno immortalato alcuni tra i boschi più caratteristici del Trentino e del Veneto vi tornassero oggi, non potrebbero scattare le stesse istantanee. Troverebbero i resti di quanto accaduto un anno fa: lande devastate e desolate, laddove prima vi erano milioni di alberi dal legno pregiato e in certi casi unico. Si trattò di un evento naturale, che tuttavia non può non farci riflettere sulle cause profonde degli squilibri climatici ai quali sempre più sovente assistiamo.
Papa Francesco ripete che mentre Dio perdona sempre e l’uomo a volte, la natura non perdona mai. E le colpe che non perdona sono esclusivamente nostre. Molto spesso è la cieca avidità di denaro a impedire di vedere al di là dei guadagni immediati, facendo cadere nell’oblio l’avvenire delle generazioni future e, pensando alle montagne, le nefaste conseguenze legate allo scioglimento dei ghiacciai e all’abbattimento selvaggio degli alberi. Basti pensare al dramma della deforestazione amazzonica. Il nostro volume si apre con un aforisma dell’antica cultura cinese: «Come può rimanere bella la montagna, quando ogni giorno le si sottrae qualcosa? Come può rimanere bella una foresta, se ogni giorno il taglialegna abbatte un albero?». Le Riflessioni d’alta quota potranno aiutare il lettore a elevarsi, anche provocandolo a comprendere come sia compito suo salvaguardare il creato, che non è semplicemente qualcosa di esterno alla vita, ma, in un certo senso, la ripresentazione del nostro mondo interiore, con la sua bellezza da coltivare e custodire e le sue opacità da prevenire e contrastare.
Anche Papa Francesco, nel recente Messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato del 1° settembre, parla di un libro. Attingendo alla sapienza francescana, descrive l’ambiente che ci circonda come «il primo “libro” che Dio ha aperto davanti ai nostri occhi, perché ammirandone la varietà ordinata e bella fossimo ricondotti ad amare e lodare il Creatore». «In questo libro – prosegue – ogni creatura ci è stata donata come una parola di Dio», ascoltabile nel silenzio e nella preghiera. Aggiungerei che nel libro del creato le montagne sono le parole più alte. Credo allora che le quasi duecento pagine del volume che presentiamo oggi siano altrettanti spunti per aiutarci a ritrovare nella creazione, come disse Santa Teresa di Calcutta, quel «poema di Dio che ne predica la tenerezza» (cit., pag. 126).
Da ultimo, ma non per importanza, una parola di gratitudine, sentimento che nasce spontaneo anche solo sfogliando rapidamente il volume. Il grazie, prima che agli autori, va all’Autore remoto, al Creatore «per le bellezze delle montagne e dei boschi, che portano in sé – come disse Giovanni Paolo II (cit., pag. 16) – la visibilità dell’invisibile». Ma un plauso va certamente a quanti hanno ideato, curato e pubblicato un libro che permette di avere tra le mani immagini e parole che ci aiutano a contemplare le meraviglie della creazione.