Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: La fede – un dono da fare crescere in noi e da condividere con gli altri

XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C –  6 ottobre 2019

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Rito romano

XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C –  6 ottobre 2019

Ab 1,2-3;2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10

Fede come granello di senape[1]

 

Rito ambrosiano

VI Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

1Re 17,6-16; Eb 13,1-8; Mt 10,40-42

La missione degli apostoli prosegue quella di Gesù.

 

 

 

  • Un “supplemento” di fede

In questa XXVII Domenica del Tempo Ordinario dell’anno liturgico, il Vangelo ci propone di riflettere sul dono della fede. Che la sorgente della fede stia in Dio e che Lui ce la doni è vero, ma è altrettanto vero che al dono si risponde con la gratitudine, che “è sempre un’arma potente” (Papa Francesco). Il nostro grazie non è semplicemente un atto di cortesia, esso è una risposta personale di totale disponibilità alla volontà di Dio.

Ma perché pur avendo accolto questo dono ed avendovi dato un risposta positiva, oggi gli Apostoli chiedono a Gesù: “Signore, aumenta la nostra fede” (Lc 17, 5)? Sono le richieste radicali del Redentore  a far nascere nei suoi segaci  la domanda di un “supplemento” di  fede. Per esempio, il Messia esige che dobbiamo concedere “un perdono senza misura” (Lc 17,3-4). Di fronte a tale richiesta che Cristo pone come condizione per essere suoi seguaci, gli Apostoli (e noi con loro) scopriamo la pochezza della nostra fede, la nostra incapacità a capire la validità di un simile discorso e soprattutto la nostra incapacità a tradurla in vita concreta.

La fede è un affidarsi totalmente a Dio, è l’accettare un progetto calcolato sulle possibilità di Dio e non sulle nostre. Non si misurano più le possibilità a partire da noi, ma partire dall’amore di Dio verso di noi.

A questo siamo chiamati: a crescere nella fede, aprirci e accogliere con libertà il dono di Dio.

Se con insistenza chiediamo a Cristo di aumentare la fede, di  aiutarci a camminare fiduciosi con lui, Maestro, Fratello e Amico divino,  la fede  ci apre a conoscere e ad accogliere la reale identità di Gesù, la sua novità e unicità, la sua Parola, come forza e fonte di vita, per vivere una relazione personale con Lui. Il conoscere della fede cresce con il desiderio di trovare la strada, essa è un dono di Dio, che si rivela a noi non come una entità astratta senza volto e senza nome. La fede risponde a una Persona, che vuole entrare in un rapporto di amore profondo con noi e coinvolgere tutta la nostra vita Per questo, ogni giorno il nostro cuore deve vivere l’esperienza della conversione, il desiderio di conoscere meglio, di trovare il suo pane, ogni giorno deve vedere il nostro passare dall’uomo ripiegato su stesso, all’uomo aperto all’azione di Dio, all’uomo spirituale, che si lascia interpellare dalla Parola del Signore e apre la propria vita al suo Amore. “La fede in Cristo ci salva perché con lui la vita si apre radicalmente all’Amore che ci precede e ci trasforma dall’interno, che agisce in noi e con noi” (Papa Francesco, Lumen fidei, n. 20)

Alimentiamo quindi ogni giorno la nostra fede, con l’ascolto profondo della Parola di Dio, con la celebrazione dei sacramenti, con la preghiera personale come grido verso di Lui e con la carità verso il prossimo, perché la fede nella misura che è legata alla verità dell’amore, non è estranea alla vita “materiale” e ai nostri legami e affetti terreni. La luce della fede è una luce incarnata, che procede dalla vita luminosa di Cristo (Cfr. Ibid., n. 34)

Infine non dimentichiamo che fede non ci è data per conservarla, ma per comunicarla; non la si conserva e non cresce , se non si ha la passione di comunicarla, di condividerla.

 

 

 

 

2) Una questione di qualità non di quantità.

Oltre a proporci il tema della fede, la Parola di Dio di questa domenica indica che l’annuncio missionario ha queste fondamentali caratteristiche: la tenacia e l’umiltà. Infatti, molto chiaramente Gesù indica ai suoi apostoli che il cammino -da percorrere per essere missionari con lui e dietro i suoi passi- deve essere fatto con una fede tenace e una umiltà che gratuitamente si mette a servizio dell’annuncio della lieta ed amorosa verità evangelica: il Regno di Dio è la Misericordia del Padre.

Davanti alla richiesta di mettere le loro vite nelle mani del Redentore, per servire il suo amore, i discepoli si sentono inadeguati e quindi chiedono a Gesù: “Signore, aumenta la nostra fede” (Lc 17, 5).

Con il paragone del granello di senape e del gelso che le tempeste non possono sradicare dalla terra perché è tenacemente radicato, Gesù vuole insegnare che di fede non ne occorre tanta come a volte si pensa. Ne basta poca, purché vera. Ebbene, un briciolo di fede vera può sradicare questa pianta, perché un po’ di fede è più forte di tante radici.

Sviluppando il paragone, possiamo dire che la fede è un radicarsi stabilmente in Dio. E questo radicamento è questione di qualità non di quantità, di autenticità non di sforzo. Questo affidamento autentico a Lui poi si unisce all’accettazione di un progetto calcolato sulle possibilità di Dio e non sulle nostre.

Dopo l’insegnamento non sulla quantità ma sulla forza della fede (ne basta un briciolo per sradicare un albero), ecco una parabola (Lc 17, 7-10) che non è certo priva, a prima vista, di risvolti umanamente irritanti. Forse che Dio si comporta come certi padroni incontentabili, che sempre chiedono e pretendono, e non danno un attimo di pace ai loro servitori, che devono essere sempre e comunque a disposizione del padrone?

No. Con un modo di parlare un po’ paradossale ma chiaro Gesù insegna che la forza del Vangelo risiede nel servizio fedele di coloro, che hanno accettato l’amore di Dio, che si sono radicati nel Figlio e che condividono il Verbo fatto carne nella potenza docile dello Spirito. 
La fede permette un sapere autentico su Dio che coinvolge tutta la persona umana: è un “sàpere[2], cioè un conoscere che dona sapore alla vita, un gusto nuovo d’esistere, un modo gioioso di stare al mondo.       La fede si esprime nel dono di sé per gli altri, nella fraternità che rende solidali, capaci di amare, senza calcolo e senza pretese: umilmente. Nel vangelo di oggi Gesù ci ridice:“Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili[3]. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»” (Lc 17, 7-10). Come si vede, Cristo è chiaro con i suoi apostoli (ed oggi con noi), precisa chi è il signore e chi il servo nell’opera da svolgere, quali sono i criteri da adottare nell’eseguire il comando, quale ricompensa spetta a chi compie il suo servizio. Ma non dimentichiamo che nell’ultima cena Gesù fece l’esatto contrario dei padroni della terra. Lui, il Signore del Cielo, invitò ed invita a tavola i servi che sono diventati suoi amici, che stupiti si lasciano lavare i piedi da Lui, l’Amico e Signore. Questo è l’amore stupefacente di Dio per noi.

 

3) La fede è missionaria.

            Ecco il perché:

La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita”(Papa Francesco, Lett. Enc. Lumen Fidei, n. 4): un Amore che ci lava persino i piedi e che ci chiede di portarlo nel mondo intero come missionari della Carità.

La fede è un affidarsi a Dio, alla sua parola, alla sua guida sulle strade oscure e impervie dell’esistenza. Quindi come missionari della Verità dobbiamo portarla a tutti gli uomini perché sappiano a chi vale la pena affidarsi e chi dà senso alla vita.

La fede è sapere che all’origine di tutto c’è un Padre, che ci ha tratto dal nulla per amore. Non siamo venuti al mondo per sbaglio, senza che nessuno ci abbia né previsti né voluti. Noi non siamo in balìa di un caso gelido e cieco: siamo nelle mani di Uno che ci vuol bene e non ci abbandona mai, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4). Lo scopo per cui Lui è venuto l’ha già definito Cristo stesso: “Sono venuto affinché abbiano la vita eterna: che conoscano Te, vero Dio, e Colui che hai mandato, Cristo Gesù” (Gv 17,3-4).

La fede è luce che fa vedere le cose con gli occhi di Cristo, giudicare le idee e gli accadimenti alla luce del suo insegnamento, diventare capaci di un nuovo modo d’amare gli altri, che è lo stesso modo limpido e disinteressato con cui Lui li ama. La forza dell’annuncio del Vangelo non risiede nell’elaborare nuove strategie d’impatto mediatico nel nord del mondo o nel progettare interventi umanitari nel sud della terra. La forza dell’evangelizzazione è nel nostro essere missionari, che agiamo umilmente, con la consapevolezza di chi si sa “servo inutile”, io tradurrei: servo che lavora gratuitamente (cfr nota 3), ma che cosciente di essere come il lievito nascosto nella farina o  come il chicco di senape, che non differisce da un granello di sabbia, pur avendo in sé un’energia vitale così grande da dare origine a un albero, le cui fronde diventano rifugio e conforto per i passerotti che fuggono dalla tempesta della vita.

La fede è rendersi conto che lo Spirito Santo, mandatoci dal Signore risorto, agisce nei nostri cuori, ci aiuta a distinguere il bene dal male, ci sprona a camminare sulla strada diritta, ci induce a comportarci – in un mondo litigioso e duro – da uomini di misericordia e di pace. Lo scopo della fede che ci è data è la missione: e la missione non è per l’Aldilà, ma è per l’Aldiquà.

La fede è la persuasione che ci è data la gioia di appartenere alla Chiesa, Sposa e Corpo di Cristo, Famiglia dei figli di Dio e Luogo certo, saldo e sicuro dell’incontro  col Padre.

Non c’è nulla di più decisivo per l’uomo, di più gratificante e di più ragionevole della virtù teologale della fede. E non c’è nulla di più prezioso da fare oggetto della nostra preghiera e della nostra missione di evangelizzatori e evangelizzatrici.

A questo riguardo le Vergini Consacrate sono chiamate in modo speciale ad annunciare il Vangelo come l’Instruzione Ecclesiae Sponsae Imago sull’Ordo Virginum al n 39 propone: “La loro dedicazione alla Chiesa si manifesta nella « missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare »,  nella passione per l’annuncio del Vangelo, per l’edificazione della comunità cristiana e per la sua testimonianza profetica di comunione fraterna, di amicizia offerta a tutti, di prossimità premurosa verso i bisogni spirituali e materiali degli uomini del proprio tempo, di impegno nel perseguire il bene comune della società … Attente a cogliere gli appelli che vengono dal contesto in cui vivono e sollecite nel mettere a disposizione del Signore i doni da Lui ricevuti, sono chiamate a dare il proprio contributo per rinnovare la società secondo lo spirito del Vangelo, accettando senza ingenuità o riduzionismi l’impegno della elaborazione culturale della fede e assumendo come propria la predilezione della Chiesa per i poveri, i sofferenti, gli emarginati”.

 

 

Lettura Patristica

Dalle « Omelie » di san Giovanni Crisostomo, vescovo

(Om. 6 sulla preghiera fatta con fede; PG 64, 462-466)

 

 

La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera. Deve essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno.

Non bisogna infatti innalzare il nostro animo a Dio solamente quando attendiamo con tutto lo spirito alla preghiera. Occorre che, anche quando siamo occupati in altre faccende, sia nella cura verso i poveri, sia nelle altre attività, impreziosite magari dalla generosità verso il prossimo, abbiamo il desiderio e il ricordo di Dio, perché, insaporito dall’amore divino, come da sale, tutto diventi cibo gustosissimo al Signore dell’universo. Possiamo godere continuamente di questo vantaggio, anzi per tutta la vita, se a questo tipo di preghiera dedichiamo il più possibile del nostro tempo.

La preghiera è luce dell’anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e l’uomo. L’anima, elevata per mezzo suo in alto fino al cielo, abbraccia il Signore con amplessi ineffabili. Come il bambino, che piangendo grida alla madre, l’anima cerca ardentemente il latte divino, brama che i propri desideri vengano esauditi e riceve doni superiori ad ogni essere visibile.

La preghiera funge da augusta messaggera dinanzi a Dio, e nel medesimo tempo rende felice l’anima perché appaga le sue aspirazioni. Parlo, però, della preghiera autentica e non delle sole parole.

Essa è un desiderare Dio, un amore ineffabile che non proviene dagli uomini, ma è prodotto dalla grazia divina. Di essa l’Apostolo dice: Non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili (cfr. Rm 8, 26b). Se il Signore dà a qualcuno tale modo di pregare, è una ricchezza da valorizzare, è un cibo celeste che sazia l’anima; chi l’ha gustato si accende di desiderio celeste per il Signore, come di un fuoco ardentissimo che infiamma la sua anima.

Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà mediante la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza.

 

 

Tardi ti ho amato …

Stimolato a rientrare in me stesso, sotto la tua guida, entrai nell’intimità del mio cuore, e lo potei fare perché tu ti sei fatto mio aiuto (cfr. Sal 29, 11). Entrai e vidi con l’occhio dell’anima mia, qualunque esso potesse essere, una luce inalterabile sopra il mio stesso sguardo interiore e sopra la mia intelligenza. Non era una luce terrena e visibile che splende dinanzi allo sguardo di ogni uomo. Direi anzi ancora poco se dicessi che era solo una luce più forte di quella comune, o anche tanto intensa da penetrare ogni cosa.

Era un’altra luce, assai diversa da tutte le luci del mondo creato. Non stava al di sopra della mia intelligenza quasi come l’olio che galleggia sull’acqua, né come il cielo che si stende sopra la terra, ma una luce superiore. Era la luce che mi ha creato. E se mi trovavo sotto di essa, era perché ero stato creato da essa. Chi conosce la verità conosce questa luce. O eterna verità e vera carità e cara eternità!

Tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Appena ti conobbi mi hai sollevato in alto perché vedessi quanto era da vedere e ciò che da solo non sarei mai stato in grado di vedere. Hai abbagliato la debolezza della mia vista, splendendo potentemente dentro di me. Tremai di amore e di terrore. Mi ritrovai lontano come in una terra straniera, dove mi parve di udire la tua voce dall’alto che diceva: «Io sono il cibo dei forti, cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me».

Cercavo il modo di procurarmi la forza sufficiente per godere di te, e non la trovavo, finché non ebbi abbracciato il «Mediatore fra Dio e gli uomini, l’Uomo Cristo Gesù» (1 Tm 2, 5), «che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli» (Rm 9, 5). Egli mi chiamò e disse: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6); e unì quel cibo, che io non ero capace di prendere, al mio essere, poiché «il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14). Così la tua Sapienza, per mezzo della quale hai creato ogni cosa, si rendeva alimento della nostra debolezza da bambini.

Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me ed io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature, che, se non fossero in te, neppure esisterebbero.

Mi hai chiamato, hai gridato, hai infranto la mia sordità. Mi hai abbagliato, mi hai folgorato, e hai finalmente guarito la mia cecità. Hai alitato su di me il tuo profumo ed io l’ho respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace.

(dalle Confessioni di Sant’Agostino Vescovo di Ippona)

 

[1] Un granello di senape è piccolo come una pulce, minuscolo, quasi invisibile. Ma una volta seminato velocissimamente cresce, e nell’arco di un anno quel piccolo seme può divenire un albero anche di 3-4 m. 
Il gelso, invece, è un albero secolare che può vivere anche 600 anni, ha radici profonde, che si abbarbicano nella terra. E’ un albero molto difficile da sradicare, per questo è il simbolo della solidità, della staticità, dell’inamovibilità

[2] Verbo latino che vuol dire: gustare, sentire il sapore, poi in modo figurato avere il gusto delle cose superiori ai sensi, quindi essere saggio, per cui da sàpere derivano anche queste due parole: “sapore”,  “sapienza”.

[3]Inutili” è la traduzione letterale e tradizionale del termine greco “acreios”, ma forse il significato è più da intendersi nel senso di “semplici servitori” o “soltanto dei poveri servi”.

La sottolineatura qui è più sulla gratuità che sulla utilità: non prendiamola “alla lettera”, ma leggiamo la parabola nel senso spirituale. È difficile, infatti, pensare, sempre e in ogni caso, che Dio abbia creato degli uomini “inutili”, ma ancor più se questi dimostrano di aver mantenuto un comportamento giusto e corretto.

In ogni caso, una volta che abbiamo compiuto il nostro dovere e abbiamo detto: “siamo servi inutili”, possiamo aggiungere: “tuttavia abbiamo un amico che ci ama più di quanto noi possiamo immaginare”. Per questo siamo sicuri nelle sue mani. Per questo la Santa M. Teresa di Calcutta diceva di se stessa: “Non sono che una piccola matita nelle mani di Dio”.

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Mons. Francesco Follo è Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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