Venerdì Santo – Celebrazione della Passione del Signore - Foto © Servizio Fotografico - Vatican Media

P. Raniero Cantalamessa ofmcap: Predica del Venerdì Santo

Celebrazione della Passione del Signore nella Basilica Vaticana

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Alle ore 17 di oggi, Venerdì Santo, il Santo Padre Francesco presiede nella Basilica Vaticana la celebrazione della Passione del Signore. Durante la Liturgia della Parola viene letto il racconto della Passione secondo Giovanni; quindi il Predicatore della Casa Pontificia, P. Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., tiene l’omelia. La Liturgia della Passione prosegue con la Preghiera universale e l’adorazione della Santa Croce e si conclude con la Santa Comunione.
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Raniero Cantalamessa ofmcap
Predica del Venerdì Santo 2019 nella Basilica di San Pietro
“DISPREZZATO E REIETTO DAGLI UOMINI”
 
“Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”.
Sono le parole profetiche di Isaia con cui è iniziata la liturgia odierna della parola. Il racconto della passione che è seguito ha dato un nome e un volto a questo misterioso uomo dei dolori, disprezzato e reietto dagli uomini: il nome e il volto di Gesú di Nazareth. Oggi vogliamo contemplare il Crocifisso proprio in questa veste: come il prototipo e il rappresentante di tutti i reietti, i diseredati e gli “scartati” della terra, quelli davanti ai quali si volta la faccia da una altra parte per non vedere.
Gesú non ha cominciato ora, nella passione, ad esserlo. In tutta la sua vita egli ha fatto parte di loro. È nato in una stalla perché per i suoi “non c’era posto nell’albergo” (Lc 2,7). Nel presentarlo al tempio i genitori offrirono “una coppia di tortore o due giovani colombi”, l’offerta prescritta dalla legge per i poveri che non potevano permettersi di offrire un agnello (cf. Lev 12,8). Un vero e proprio certificato di povertà nell’Israele di allora. Durante la sua vita pubblica, non ha dove posare il capo (Mt 8,20): è un senzatetto.
E arriviamo alla passione. Nel racconto di essa c’è un momento sul quale non ci si sofferma spesso, ma che è carico di significato: Gesú nel pretorio di Pilato (cf. Mc 15, 16-20). I soldati hanno notato, nello spiazzo adiacente, un cespuglio di rovi; ne hanno colto un fascio e glielo hanno calcato sul capo; sulle spalle, ancora sanguinanti per la flagellazione, gli hanno poggiato un manto da burla; ha le mani legate con una rozza corda; in una mano gli hanno messo una canna, simbolo irrisorio della sua regalità. È il prototipo delle persone ammanettate, sole, in balia di soldati e sgherri che sfogano sui poveri malcapitati la rabbia e la crudeltà che hanno accumulato nella vita. Torturato!
“Ecce homo!”, Ecco l’uomo!, esclama Pilato, nel presentarlo di lì a poco al popolo (Gv 19,5). Parola che, dopo Cristo, può essere detta della schiera senza fine di uomini e donne avviliti, ridotti a oggetti, privati di ogni dignità umana. “Se questo è un uomo”: lo scrittore Primo Levi ha intitolato così il racconto della sua vita nel campo di sterminio di Auschwitz. Sulla croce, Gesú di Nazareth diventa l’emblema di tutta questa umanità “umiliata e offesa”. Verrebbe da esclamare: “Reietti, rifiutati, paria di tutta la terra: l’uomo più grande di tutta la storia è stato uno di voi! A qualunque popolo, razza o religione apparteniate, voi avete il diritto di reclamarlo come vostro.
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Uno scrittore e teologo afro-americano che Martin Luther King considerava suo maestro e ispiratore della lotta non violenta per i diritti civili, ha scritto un libro intitolato “Jesus and the  Disinherited”[1], Gesú e i diseredati. In esso, egli fa vedere che cosa la figura di Gesú aveva rappresentato per gli schiavi del Sud, di cui lui stesso era un diretto discendente. Nella privazione di ogni diritto e nella abiezione più totale, le parole del Vangelo che il ministro di culto negro ripeteva, nell’unica riunione ad essi consentita, ridavano agli schiavi il senso della loro dignità di figli di Dio.
In questo clima sono nati la maggioranza dei canti negro-spiritual che ancora oggi commuovono il mondo [2]. Al momento dell’asta pubblica essi avevano vissuto lo strazio di vedere le mogli separate spesso dai mariti e i genitori dai figli, venduti a padroni diversi. È facile intuire con che spirito essi cantavano sotto il sole o nel chiuso delle loro capanne: “Nobody knows the trouble I have seen. Nobody knows, but Jesus”: Nessuno sa il dolore che ho provato; nessuno, tranne Gesú”.
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Questo non è l’unico significato della passione e morte di Cristo e neppure il più importante. Il significato più profondo non è quello sociale, ma quello spirituale. Quella morte ha redento il mondo dal peccato, ha portato l’amore di  Dio nel punto più lontano e più buio in cui l’umanità si era cacciata nella sua fuga da  lui, cioè nella morte. Non è, dicevo, il senso più importante della croce, ma è quello che tutti, credenti e non credenti, possono riconoscere ed accogliere.
Tutti, ripeto, non solo i credenti. Se per il fatto della sua incarnazione il Figlio di  Dio si è fatto uomo e si è unito all’umanità intera, per il modo in cui è avvenuta la sua incarnazione egli si è fatto uno dei poveri e dei reietti, ha sposato la loro causa. Si è incaricato di assicurarcelo lui stesso, quando ha solennemente affermato: “Quello che avete fatto all’ affamato, all’ignudo, al carcerato, all’esiliato, lo avete fatto a me; quello che non avete fatto ad essi non lo avete fatto a me” (cf. Mt 25, 31-46).
Ma non possiamo fermarci qui. Se Gesú non avesse che questo da dire ai diseredati del mondo, non sarebbe che uno in più tra di loro, un esempio di dignità nella sventura e nulla più. Anzi, sarebbe una prova ulteriore a carico di  Dio che permette tutto questo. È nota la reazione indignata di Ivan, il fratello ribelle dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, quando il pio fratello minore Alioscia gli nomina Gesú: “Ah, si tratta dell’ ’Unico senza peccato’ e del sangue Suo, vero? No, non mi ero scordato di Lui: e mi meravigliavo, anzi, mentre si discuteva, come mai tu tardassi tanto a venirmi fuori con Lui, giacché comunemente, nelle discussioni, tutti quelli della parte vostra mettono innanzi Lui prima d’ogni altra cosa”[3].
Il Vangelo infatti non si ferma qui; dice anche un’altra cosa, dice che il crocifisso è risorto! In lui è avvenuto un rovesciamento totale delle parti: il vinto è diventato il vincitore, il giudicato è diventato il giudice, “la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo” (cf. Atti 4,11). L’ultima parola non è stata, e non sarà mai, dell’ingiustizia e dell’oppressione. Gesú non ha ridato soltanto una dignità ai diseredati del mondo; ha dato loro una speranza!
Nei primi tre secoli della Chiesa la celebrazione della Pasqua non era distribuita come ora in diversi giorni: Venerdì Santo, Sabato Santo e Domenica di Pasqua. Tutto era concentrato in un solo giorno. Nella veglia pasquale si commemorava sia la morte che la risurrezione. Più precisamente: non si commemorava né la morte né la risurrezione come fatti distinti e separati; si commemorava piuttosto il passaggio di Cristo dall’una all’altra, dalla morte alla vita. La parola “pasqua” (pesach) significa passaggio: passaggio del popolo ebraico dalla schiavitù alla libertà, passaggio di Cristo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1) e passaggio dei credenti in lui dal peccato alla grazia.
È la festa del capovolgimento operato da Dio e realizzato in Cristo; è l’inizio e la promessa dell’unico rovesciamento totalmente giusto e irreversibile nelle sorti dell’umanità. Poveri, esclusi, appartenenti alle diverse forme di schiavitù ancora in atto nella nostra società: Pasqua è la vostra festa!
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La croce contiene un messaggio anche per coloro che stanno sull’altra sponda: per i potenti, i forti, quelli che si sentono tranquilli nel loro ruolo di “vincenti”. Ed è un messaggio, come sempre, d’amore e di salvezza, non di odio o di vendetta.  Ricorda loro che alla fine essi sono legati allo stesso destino di tutti; che deboli e potenti, inermi e tiranni, tutti sono sottoposti alla stessa legge e agli stessi limiti umani. La morte, come la spada di Damocle, pende sul capo di ognuno, appesa a un crine di cavallo. Mette in guardia dal male peggiore per l’uomo che è l’illusione dell’onnipotenza. Non occorre andare troppo indietro nel tempo, basta ripensare alla storia recente per renderci conto di quanto questo pericolo sia frequente e porti persone e popoli alla catastrofe.
La Scrittura ha parole di saggezza eterna rivolte ai dominatori della scena di questo mondo:
“Imparate, governanti di tutta la terra…
i potenti saranno vagliati con rigore” (Sap 6, 1.6).
“Nella prosperità l’uomo non comprende,
è simile alle bestie che periscono” (Sal 49, 21).
“Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde o rovina se stesso?” (Lc 9, 25)
 
La Chiesa ha ricevuto il mandato del suo fondatore di stare dalla parte dei poveri e dei deboli,  di essere la voce di chi non ha voce e, grazie a Dio, è quello che fa, soprattutto nel suo pastore supremo.
Il secondo compito storico che le religioni devono, insieme,  assumersi oggi, oltre quello di promuovere la pace, è di non rimanere in silenzio dinanzi allo spettacolo che è sotto gli occhi di tutti. Pochi privilegiati posseggono beni che non potrebbero consumare, vivessero anche per secoli e secoli, e masse sterminate di poveri che non hanno un pezzo di pane e un sorso d’acqua da dare ai propri figli. Nessuna religione può rimanere indifferente, perché il  Dio di tutte le religioni non è indifferente dinanzi a tutto ciò.
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Torniamo alla profezia di Isaia da cui siamo partiti. Essa inizia con la descrizione della umiliazione del Servo di Dio, ma si conclude con la descrizione della sua finale esaltazione. È  Dio che parla:
“Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce […] Io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha spogliato se stesso fino alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori”.
Fra due giorni, con l’annuncio della risurrezione di Cristo, la liturgia darà un nome  e un volto anche a questo trionfatore. Vegliamo e meditiamo nell’attesa.
 
[1] Howard Thurman, Jesus and the  Disinherited , Beacon Press, 1949, rist. 2012.
[2] Howard Thurman, Deep River and The Negro Spiritual Speaks of Life and Death, Richmond, Indiana 1975.
[3] F. Dostoevskij,  I Fratelli Karamazov, Libro V, cap. 4.

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Raniero Cantalamessa

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