Giorgio Ambrosoli / Wikimedia Commons - N.N., Public Domain

Ambrosoli, il coraggio del dovere, di Vincenzo Bertolone

Un uomo abituato a rispondere a se stesso ed in coscienza a Dio

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«Qualunque cosa succeda, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto».
Così scriveva Giorgio Ambrosoli alla moglie Annalori, in una lettera. Una delle ultime, come presagendo la morte che sarebbe arrivata la sera dell’11 luglio 1979 per mano di William Aricò, un killer ingaggiato dal finanziere Michele Sindona. Ambrosoli era nato il 17 ottobre 1933 e l’anniversario della sua nascita è stato occasione per una giornata di riflessione sui doveri – promossa dall’associazione “Più di Cento” a Cosenza al liceo Telesio – e sull’importanza dell’impegno civile, ricordando non a caso un uomo che lo incarnò fino al sacrificio di sé.
Nato da famiglia cattolica e conservatrice, Giorgio Ambrosoli proveniva da quella borghesia milanese radicata nel lavoro e nei valori tradizionali. Nel settembre 1974 viene nominato commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, guidata da Sindona. Gli basta poco per scoprire il castello di trucchi contabili, operazioni speculative, coperture politiche ed appoggi ecclesiali su cui si è retto l’inganno della banca sindoniana. Sfatando le previsioni di chi lo vorrebbe influenzabile, si rivela invece un osso durissimo, fedele alla propria integrità morale nonostante le pressioni dall’alto, i tentativi di corruzione, le minacce, la solitudine in cui gradualmente sprofonda amaramente. «Se l’andava cercando» commenterà nel 2010 Giulio Andreotti, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio. Parole che fanno della vicenda dell’avvocato milanese un frammento illuminante della storia italiana: in una terra di illegalità sistemica, di poteri criminali che si saldano al potere istituzionale, di compromissioni e tentazioni consociative, l’onestà è la più imperdonabile delle virtù. E un servitore dello Stato finisce per diventare un ribelle solitario, pericoloso e perciò da eliminare.
Che cosa permise a quell’uomo definito “grigio” controllore dei conti, incapace di fantasia e di accensioni – come lo descrive Corrado Stajano nel suo celebre “Un eroe borghese”- di mantenere quell’assoluta linearità di comportamento di fronte a cocenti delusioni? La risposta, forse, è da ricercarsi proprio in quel suo essere un uomo abituato a rispondere a se stesso ed in coscienza a Dio, ad una sorta di etica della convinzione più privata che pubblica, più morale che politica, indifferente al richiamo del consenso e del successo.
Rovesciando l’espressione di Hannah Arendt, insomma, Ambrosoli (e con lui il maresciallo della GdF Silvio Novembre e pochi altri) facendo il suo dovere scelse la banalità del bene, e questo gli fu fatale. Ne emerge un insegnamento che si radica per molti versi nel martirio. Se don Pino Puglisi, ad esempio, fu ucciso dalla mafia semplicemente perché prete, ad Ambrosoli toccò identica sorte: ucciso non perché in cerca di copertine nella lotta al malaffare, ma perché profondamente legato per passione e integrità morale alla cura e alla fedeltà della propria professione, secondo una tensione ideale intrisa di umiltà e grande senso di responsabilità. Un dovere al quale ognuno è chiamato, secondo quell’insegnamento di Puglisi ed ancor prima evangelico: «Se ognuno fa qualcosa», e lo fa bene, «allora tutti insieme si può fare tanto».
Monsignor Vincenzo Bertolone è arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace e presidente della Conferenza Episcopale Calabra.

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Vincenzo Bertolone

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