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Quando il perdono unisce e libera dal dolore vittime e carnefici

La testimonianza di Ciro, condannato all’ergastolo, in carcere da 25 anni. Ora fa parte del laboratorio che realizza le ostie donate gratuitamente alle parrocchie di tutto il mondo

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Ciro è uno di detenuti che ha portato la propria testimonianza al Giubileo dei Carcerati. Domenica 6 novembe, sull’altare della basilica di San Pietro, dove poco dopo il Papa avrebbe celebrato la messa, si è presentato con Elisabetta, una giovane donna che sei anni fa ha perso il figlio di 15 anni, Andrea. Ucciso.
Insieme, fanno parte di un progetto di “giustizia riparativa”, che mette a confronto vittime e “carnefici” nella convinzione che soltanto chiedendo e offrendo perdono è possibile trovare la pace. La sua testimonianza ha anticipato l’appello di papa Francesco, che ha chiesto ai governanti un atto di clemenza, l’amnistia, e si inserisce nel dibattito, che interroga credenti e non, sul carcere a vita. Quello, in pratica, del “fine pena mai”.
Queste le parole di Ciro: «Sono un ergastolano in carcere da 25 anni. Da diversi anni, ho iniziato un percorso di ravvedimento e di presa di coscienza dei gravissimi reati commessi, facilitato dal supporto di tutti gli operatori del carcere di Opera. Ma incontrare le vittime dei reati e confrontarmi con il loro dolore mi ha fatto capire ancora di più il male commesso.
Ho conosciuto Elisabetta grazie al Rinnovamento nello Spirito e a Prison Fellowship Italia, che hanno organizzato ad Opera gli incontri del progetto Sicomoro, una iniziativa che fa incontrare detenuti e vittime di reati.
Elisabetta era entrata in carcere per gettarci in faccia la sua rabbia e il suo dolore, ma ha scoperto la nostra sofferenza. Ha riconosciuto in noi il suo stesso dolore. Per motivi differenti, ma con identico strazio, noi avevamo visto la nostra vita andare in pezzi. Il dolore non ha colore, non è né buono né cattivo, il dolore è dolore.
Io ho raccontato ad Elisabetta di mia figlia. Si chiama Speranza, sono entrato in carcere quando lei aveva soltanto 11 giorni, oggi è una donna saggia e coraggiosa, ho tentato di infondere in lei la mia stessa ostinata speranza.
Il 12 marzo di quest’anno, ho ottenuto il mio primo permesso di uscita dal carcere dopo 24 anni, per 12 ore. Ad attendermi fuori dalla prigione, c’era Elisabetta. È stata lei, per quel giorno, la mia famiglia, lei che mi ha accolto come uno di casa, che mi ha fatto conoscere i suoi amici e familiari, che mi portato nella sua parrocchia ma che, soprattutto, ha condiviso con me il suo angolo di cuore più intimo e caro: la tomba di Andrea.
Ed è lì che sono subito andato, con un mazzo di fiori in mano e la preghiera nel cuore. Essere accolto nella casa di Elisabetta come uno di famiglia mi ha fatto capire che il Ciro di ieri è seppellito per sempre. Oggi faccio parte del progetto “Il senso del pane”, un laboratorio allestito ad Opera dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, in collaborazione con il direttore del carcere Giacinto Siciliano, dove con altri due detenuti realizzo le ostie che vengono donate gratuitamente alle parrocchie di tutto il mondo e che il Papa ha scelto di consacrare per questo Giubileo dei carcerati.
Credo nei miracoli, e così penso che, prima o poi, la cella che mi tiene prigioniero si aprirà definitivamente per restituirmi la vita. Io ed Elisabetta, con storie così diverse, ci siamo ritrovati in ciò che, da sempre e per sempre, nonostante tutto, siamo: fratelli».
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Per ricevere le ostie inviare una e-mail a ilsensodelpane@gmail.com

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Agnese Pellegrini

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