L’economia mondiale potrebbe correggere le contraddizioni che sembrano contrapporre la finanza al lavoro, e risolvere la crisi senza penalizzare nessuno. È quanto sostiene il prof. Oreste Bazzichi, docente di filosofia sociale ed etica economica alla Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum, secondo il quale bisognerebbe prendere spunto dai francescani e dal loro programma economico che è di grandissima attualità. L’intervista che segue è la seconda parte di una lunga intervista del prof. Bazzichi a ZENIT; la prima parte dell’intervista è stata pubblicata martedì 11 ottobre.
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L’incentivazione del dono, la pratica della carità, come influiva questo nell’economia reale, nei commerci e nel credito?
A Bonaventura da Bagnoregio, John Peckham, Pietro di Giovanni Olivi, Giovanni Duns Scoto, Alessandro Bonini di Alessandria, Astesano di Asti, Guglielmo d’Ockham, e a tantissimi altri pensatori francescani va il merito di aver formulato il principio secondo cui la sfera socio-economica, quella governativa (della civitas) e quella evangelica (secondo il carisma francescano della relazionalità, della reciprocità e della fraternità) sono tre gradi differenti, ma integrabili, di un’organizzazione della realtà sociale. Se questa integrazione si realizza, essa genera frutti copiosi, così che ciò cui i poveri volontari rinunciano può essere impiegato per i poveri non volontari, fino alla loro tendenziale scomparsa. Ebbene, l’integrazione dei tre gradi può realizzarsi entro un assetto istituzionale – il mercato – purché rispetti: il lavoro, libero e creativo; la funzione della produttività del capitale; l’impresa, libera e creativa, come bene sociale e collettivo; il valore comunitario della moneta, che, nata come strumento indispensabile delle società civili, costituisce un bene prezioso della res publica. Questi sono anche i quattro principi ordinatori, che hanno ispirato la moderna economia di mercato. Essi sono orientati al fine ultimo che è il bene comune. Con l’avvento della rivoluzione industriale e in seguito all’affermazione della filosofia utilitaristica di Jeremy Bentham (1748 – 1832), l’economia di mercato, mentre conserva sostanzialmente i quattro principi, muta il fine, che diventa il bene totale (somma dei beni individuali) e non più bene comune. Occorre anche ricordare che è stata la Scuola di pensiero francescana a dare alla parola “fraternitas” il significato che esso ha poi conservato nel corso dei secoli. Che è quello che costituisce una sorta di completamento algebrico del principio di solidarietà. Ma, mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai disuguali di diventare uguali, il principio di fraternità consente agli uguali di essere diversi. La fraternità, infatti, consente a persone, che sono uguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali, di esprimere diversamente il loro piano di vita o il loro carisma.
Dunque, per la teologia francescana, che è di carattere pratico, sempre attenta alle situazioni concrete, all’uso del metodo induttivo, come si realizza praticamente il bene comune?
Attraverso “la grazia del lavoro”, che è la decisa indicazione di Francesco di Assisi (Regola non bollata del 1221, cap. VII e Regola bollata del 1223, cap. V), con la quale ha modellato fin dalle origini l’attività interna e socio-pastorale del suo movimento. Questo iniziale comando ha suscitato sia in sede teorica, sia in campo operativo una ricaduta socio-economica nel lungo corso dei secoli della nostra civiltà. Francesco ed i suoi frati, constatando e vivendo la degradante condizione di tanti, di troppi uomini del loro tempo, compresero il valore dell’acquisizione di una “professione” espletata con cura a vantaggio personale e della condizione sociale di tutti. L’originalità e la specificità dell’espressione “grazia del lavoro” emergono ancora di più se si confrontano con le visioni dell’attività umana presenti e vigenti nel Medioevo, che interpretava il lavoro come “condanna” e “castigo”. Quasi a sostenere che, senza la caduta del peccato originale, non ci sarebbe stato il lavoro o, in ogni caso, il lavoro come fatica e sudore: il lavoro-condanna, il lavoro-espiazione. Tale visione ha influenzato negativamente la civiltà fino alla seconda metà del secolo scorso. Francesco d’Assisi introduce una concezione nuova: il lavoro come grazia, come gioia e come rifiuto dell’ozio; il lavoro è grazia, in quanto è un dono che si offre ai fratelli; e quindi, il lavoro è un dono di amore, non coercizione e castigo; significa imitare l’atto creativo di Dio, diventare co-creatori del creato. Il lavoro è dono di Dio all’uomo e chi riceve questo dono (“la grazia del lavoro”) deve compierlo con “fedeltà, responsabilità e devozione”. La fedeltà al lavoro comporta stima, servizio e onore verso il lavoro stesso, che va svolto con la perfezione con cui Dio stesso ha creato il mondo. La responsabilità o devozione al lavoro significa svolgerlo con attenzione, partecipazione, rispetto delle norme e delle garanzie sociali. A tutti, nessuno escluso, viene data la possibilità di partecipare, in modo concreto, al processo di produzione della ricchezza. Quindi, concepito come valore primario e imprescindibile, il lavoro garantisce i diritti di libertà e di giustizia sociale.
Per esempio, San Francesco e i suoi seguaci cosa pensavano della pratica del credito? Quale percentuale di interesse veniva accettata? O nessun interesse?
Il divieto rivolto ai suoi frati dell’uso della pecunia non comportava la condanna dell’economia e della ricchezza in sé, ma vivere dentro la civitas, in piena relazione con tutte le forme organizzate della vita sociale, nella quale i frati scelgono di vivere in fraternità e minorità, rinunciando alle “decime” della Chiesa, ma dipendendo dal lavoro manuale e intellettuale, dalla predicazione e dal servizio agli ultimi. Quanto al credito da erogare, i francescani avevano un’idea non tanto semplicemente caritativa, quanto piuttosto orientata alla pratica del bene comune; cioè, che venisse erogato a persone che fossero in grado di uscire dalla temporanea situazione di bisogno, in quanto vittime di crisi congiunturali, o che prospettassero sviluppi artigianali o industriali o commerciali. Questo nuovo criterio di stare in società e di identificazione civica delle persone costituiva un paradigma straordinariamente innovativo, perché stabiliva per la prima volta una diretta connessione fra attività sociale, istituzioni e benessere collettivo. Pertanto, la natura creditizia di ogni relazione di scambio spingeva i teologi francescani a precisare che l’usura si verificava soltanto nella compra-vendita di denaro; mentre nel contratto di mutuo, dove uno anticipa e l’altro riceve immediatamente somme di denaro, queste dovranno essere restituite in futuro con interesse. Il profitto del prestante veniva stabilito sulla fiducia e all’interno di relazioni amichevoli dei contraenti, tenuto conto anche dei luoghi, dei tempi, del rischio. Così si escludeva la chiave usuraria dell’operazione, perché il prestatore del denaro era ben conosciuto e ben inserito nella società civile e la sua professione si svolgeva alla luce del sole. Pertanto, l’attenzione per la piaga feneratizia non era rivolta solo ai poveri – quelli cioè che avevano già diritto all’elemosina e al sostentamento diretto da parte del prossimo e delle istituzioni politiche e caritative -, ma anche e soprattutto agli artigiani, ai contadini (ai quali venivano in aiuto anche i Monti frumentari, che prestavano le sementa), ai piccoli imprenditori, ai commercianti, ecc., che per impellenti difficoltà economiche venivano a trovarsi nella necessità di reperire finanziamenti per non abbandonare l’impresa, oppure per reperire prestiti non usurari per programmare nuovi investimenti per l’ampliamento dell’attività imprenditoriale.
Economia francescana: quando sviluppo, lavoro, civiltà vanno insieme
Il prof. Oreste Bazzichi spiega come siano stati i francescani a coniugare la fraternità con la realizzazione del bene comune attraverso la ‘grazia del lavoro’