Le voci dei cantori della Cappella Sistina e quelle del Coro di Canterbury si fondono in un’unica melodia tra le volte barocche della Chiesa romana dei Santi Andrea e Gregorio al Celio. Nell’aria riecheggiano salmi in latino e in inglese. Nella Chiesa a pochi passi dal Colosseo oggi pomeriggio si vive l’amarcord di un momento storico.
Ovvero la giornata del 23 marzo 1966 che vide in Vaticano l’incontro tra l’allora arcivescovo di Canterbury Michael Ramsey e il Papa Paolo VI che, con un abbraccio celebrato sotto il Giudizio Universale, diedero nuova linfa ad un’amicizia offuscata da difficoltose vicende storiche. Erano cinque secoli che il primate della chiesa anglicana non varcava le mura leonine, e il primo frutto di quell’incontro, oltre ad una comunione ritrovata, fu l’istituzione del Centro Anglicano di Roma.
Ora, dopo mezzo secolo, e un dialogo sereno coltivato negli anni, Papa Francesco e l’arcivescovo Justin Welby rivivono questo evento celebrando insieme dei sontuosi Vespri nella stessa Chiesa dove 1400 anni fa Papa Gregorio inviò Sant’Agostino di Canterbury e i suoi monaci alle genti anglosassoni.
Lette e firmata durante la liturgia anche una Dichiarazione comune in cui il Papa e l’arcivescovo consegnano un preciso mandato ecumenico, rivolto soprattutto ai 36 vescovi cattolici e anglicani dell’Iarccum inviati a due a due per eseguire la chiamata del Papa a camminare insieme come un’unica entità.
Un invito ripreso dal Pontefice anche nella sua omelia in cui esorta ad essere “promotori di un ecumenismo audace e reale, sempre in cammino nella ricerca di aprire nuovi sentieri”. L’esempio emblematico è quanto accadde a Edimburgo, con la Conferenza delle società missionarie che diede origine al movimento ecumenico: “Fu proprio il fuoco della missione a permettere di iniziare a superare gli steccati e abbattere i recinti che ci isolavano e rendevano impensabile un cammino comune”, rammenta il Papa.
E suggerisce, quindi, la “metodologia pastorale” da seguire, quella, cioè, del Signore che va in cerca della pecora perduta, riconduce all’ovile la smarrita, fascia la ferita e cura la malata. “Solo così si raduna il popolo disgregato” in quei “giorni nuvolosi e di caligine” di cui parla il profeta Ezechiele, durante i quali “abbiamo perso di vista il fratello che ci stava accanto, siamo diventati incapaci di riconoscerci e di rallegrarci dei nostri rispettivi doni e della grazia ricevuta”.
Attraverso le eloquenti parole del profeta, Dio – sottolinea Francesco – ci rivolge “un messaggio di unità: in quanto Pastore, vuole l’unità nel suo popolo e desidera che soprattutto i Pastori si spendano per questo”.
Vanno quindi scacciate quelle nubi che “si sono addensate, attorno a noi”, “nuvole scure dei dissensi e delle controversie, formatesi spesso per ragioni storiche e culturali e non solo per motivi teologici”. Via pure quella “caligine dell’incomprensione e del sospetto” per lasciare posto alla “solida certezza che Dio ama dimorare tra noi, suo gregge e tesoro prezioso”.
Egli, afferma il Papa, ci incoraggia “a camminare verso una maggiore unità, che può essere raggiunta soltanto con l’aiuto della sua grazia”. “Questo cammino di comunione è il percorso di tutti i cristiani ed è la vostra particolare missione, in quanto Pastori della Commissione internazionale anglicana-cattolica per l’unità e la missione”, evidenzia il Pontefice. “È una grande chiamata quella ad operare come strumenti di comunione sempre e ovunque”, che significa “allo stesso tempo promuovere l’unità della famiglia cristiana e l’unità della famiglia umana”.
Per farlo bisogna offrire “il nostro servizio in maniera congiunta, gli uni a fianco degli altri”, promuovere “l’apertura e l’incontro, vincendo la tentazione delle chiusure e degli isolamenti”, operare “contemporaneamente sia a favore dell’unità dei cristiani sia di quella della famiglia umana”.
“Ci riconosciamo così come fratelli che appartengono a tradizioni diverse, ma sono spinti dallo stesso Vangelo a intraprendere la medesima missione nel mondo”, rimarca il Papa. Che suggerisce due domande, prima di intraprendere qualche attività: “Perché non facciamo questo insieme ai nostri fratelli anglicani? Possiamo testimoniare Gesù agendo insieme ai nostri fratelli cattolici?”.
Sono tanti, infatti, gli “smarriti di oggi” che non conoscono l’amore di Cristo, agnello immolato per il mondo come simboleggiato dal bastone pastorale che Bergoglio ha donato a Welby. Questo è “il vero messaggio innovativo da portare insieme”, dice, “il nostro ministero consiste nell’illuminare le tenebre con questa luce gentile, con la forza inerme dell’amore che vince il peccato e supera la morte”.
“Abbiamo la gioia di riconoscere e celebrare insieme il cuore della fede”, soggiunge il Pontefice. “Ricentriamoci in esso, senza farci distrarre da quanto, invogliandoci a seguire lo spirito del mondo, vorrebbe distoglierci dalla freschezza originaria del Vangelo”. È da lì che “scaturisce la nostra responsabilità comune”, ovvero la missione di aiutare il gregge “perché sia in uscita, in movimento nell’annunciare la gioia del Vangelo; non chiuso in circoli ristretti, in ‘microclimi’ ecclesiali che ci riporterebbero ai giorni di nuvole e caligine”.
Nella Dichiarazione comune firmata al termine della celebrazione, dopo lo scambio dei doni e la benedizione dei vescovi, Francesco e Welby si dicono incoraggiati nel cammino del dialogo seppur “non vediamo ancora soluzioni agli ostacoli dinanzi a noi”. Tra questi vengono annoverati l’ordinazione delle donne e le più recenti questioni relative alla sessualità umana. Le divergenze, tuttavia, si legge nel testo, “non dovrebbero intralciare la nostra preghiera comune: non solo possiamo pregare insieme, ma dobbiamo pregare insieme, dando voce alla fede e alla gioia che condividiamo nel Vangelo di Cristo”.
“Il mondo deve vederci testimoniare, nel nostro operare insieme, questa fede comune in Gesù”, affermano poi il Papa e l’arcivescovo nel passaggio più significativo della Dichiarazione. “Possiamo e dobbiamo lavorare insieme per proteggere e preservare la nostra casa comune: vivendo, istruendo e agendo in modo da favorire una rapida fine della distruzione ambientale, che offende il Creatore e degrada le sue creature, e generando modelli di comportamento individuali e sociali che promuovano uno sviluppo sostenibile e integrale per il bene di tutti”.
“Possiamo, e dobbiamo, essere uniti nella causa comune di sostenere e difendere la dignità di tutti gli uomini”, specie “in una cultura dell’indifferenza” in cui “muri di estraneazione ci isolano dagli altri, dalle loro lotte e dalle loro sofferenze, che anche molti nostri fratelli e sorelle in Cristo oggi patiscono”. Una “una cultura dello spreco”, dove “le vite dei più vulnerabili nella società sono spesso marginalizzate e scartate”. Una “cultura dell’odio” in cui “assistiamo a indicibili atti di violenza, spesso giustificati da una comprensione distorta del credo religioso”.
I due leader religiosi ribadiscono quindi l’impegno “a riconoscere l’inestimabile valore di ogni vita umana e ad onorarla attraverso opere di misericordia, offrendo istruzione, cure sanitarie, cibo, acqua pulita e rifugio, sempre cercando di risolvere i conflitti e di costruire la pace”. Perché “in quanto discepoli di Cristo riteniamo la persona umana sacra e in quanto apostoli di Cristo dobbiamo essere i suoi avvocati”.