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"Solo la pace è santa, non la guerra!". Francesco chiude l'incontro di Assisi

Nella cerimonia finale dell’evento “Sete di Pace”, il Papa ribadisce il no al “paganesimo dell’indifferenza” e all’”approccio virtuale di chi giudica tutto e tutti sulla tastiera di un computer, senza sporcarsi le mani”

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“Siamo venuti ad Assisi come pellegrini in cerca di pace. Portiamo in noi e mettiamo davanti a Dio le attese e le angosce di tanti popoli e persone. Abbiamo sete di pace, abbiamo il desiderio di testimoniare la pace, abbiamo soprattutto bisogno di pregare per la pace, perché la pace è dono di Dio e a noi spetta invocarla, accoglierla e costruirla ogni giorno con il suo aiuto”.

È un’accorata implorazione a Dio quella che innalza Papa Francesco ad Assisi, in una piazza piena per l’incontro “Sete di Pace”. Stretto nell’abbraccio di 450 rappresentanti di ogni religione, nel solco dei suoi predecessori Wojtyla e Ratzinger, il Papa argentino torna a stigmatizzare “la grande malattia del nostro tempo: l’indifferenza”. Un “virus”, dice, che “paralizza, rende inerti e insensibili, un morbo che intacca il centro stesso della religiosità, ingenerando un nuovo tristissimo paganesimo: il paganesimo dell’indifferenza”.

“Non possiamo restare indifferenti”, soprattutto oggi che “il mondo ha un’ardente sete di pace”, che “in molti Paesi si soffre per guerre, spesso dimenticate, ma sempre causa di sofferenza e povertà”, afferma Francesco. Questa gente sofferente lui l’ha guardata dritta negli occhi insieme al patriarca Bartolomeo durante il viaggio a Lesbo. “Abbiamo visto negli occhi dei rifugiati il dolore della guerra, l’angoscia di popoli assetati di pace”, sottolinea infatti.

Soprattutto il pensiero va alle famiglie, “la cui vita è stata sconvolta”; ai bambini, “che non hanno conosciuto nella vita altro che violenza”; agli anziani, “costretti a lasciare le loro terre”. “Tutti loro hanno una grande sete di pace” e noi – afferma il Pontefice, facendosi portavoce di tutti i leader religiosi – “non vogliamo che queste tragedie cadano nell’oblio”, ma anzi “desideriamo dar voce insieme a quanti soffrono, a quanti sono senza voce e senza ascolto. Essi sanno bene, spesso meglio dei potenti, che non c’è nessun domani nella guerra e che la violenza delle armi distrugge la gioia della vita”.

“Noi – insiste Francesco – non abbiamo armi. Crediamo però nella forza mite e umile della preghiera”, perché “cessino guerre, terrorismo e violenze”. Una pace che “non è una semplice protesta contro la guerra”, tantomeno “il risultato di negoziati, di compromessi politici o di mercanteggiamenti economici”. L’umanità è “assetata” di questa “acqua limpida della pace”: essa può scaturire solo dalla preghiera e non “deserti dell’orgoglio e degli interessi di parte, dalle terre aride del guadagno a ogni costo e del commercio delle armi”.

Il punto di partenza è il riconoscimento delle diverse tradizioni religiose; tuttavia la differenza – afferma Bergoglio – non deve essere “motivo di conflitto, di polemica o di freddo distacco. “Oggi non abbiamo pregato gli uni contro gli altri, come talvolta è purtroppo accaduto nella storia”, evidenzia, “senza sincretismi e senza relativismi, abbiamo invece pregato gli uni accanto agli altri, gli uni per gli altri”.

Come disse San Giovanni Paolo II in questo stesso luogo: “Forse mai come ora nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace”. Allora proseguendo questo cammino iniziato trent’anni fa, oggi “non ci stanchiamo di ripetere che mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa e non la guerra!”, grida il Papa.

E chiede ancora di pregare “perché le coscienze si mobilitino a difendere la sacralità della vita umana, a promuovere la pace tra i popoli e a custodire il creato, nostra casa comune”. “La preghiera e la collaborazione concreta aiutano a non rimanere imprigionati nelle logiche del conflitto e a rifiutare gli atteggiamenti ribelli di chi sa soltanto protestare e arrabbiarsi”, sottolinea.

“La preghiera e la volontà di collaborare impegnano a una pace vera, non illusoria: non la quiete di chi schiva le difficoltà e si volta dall’altra parte, se i suoi interessi non sono toccati; non il cinismo di chi si lava le mani di problemi non suoi; non l’approccio virtuale di chi giudica tutto e tutti sulla tastiera di un computer, senza aprire gli occhi alle necessità dei fratelli e sporcarsi le mani per chi ha bisogno”.

La strada è quella di “immergerci nelle situazioni” e “dare il primo posto a chi soffre”; di “assumere i conflitti e sanarli dal di dentro”; di “percorrere con coerenza vie di bene, respingendo le scorciatoie del male”, e di “intraprendere pazientemente, con l’aiuto di Dio e con la buona volontà, processi di pace”.

Pace, questa parola tanto semplice e al contempo difficile, vuol dire Perdono che, “rende possibile sanare le ferite del passato”. Vuol dire Accoglienza, ovvero “disponibilità al dialogo, superamento delle chiusure, che non sono strategie di sicurezza, ma ponti sul vuoto”. Vuol dire Collaborazione, “scambio vivo e concreto con l’altro, che costituisce un dono e non un problema, un fratello con cui provare a costruire un mondo migliore”.

Pace significa anche Educazione, dunque “una chiamata ad imparare ogni giorno la difficile arte della comunione, ad acquisire la cultura dell’incontro, purificando la coscienza da ogni tentazione di violenza e di irrigidimento, contrarie al nome di Dio e alla dignità dell’uomo”.

La speranza del Papa è quindi “in un mondo fraterno”, dove “uomini e donne di religioni differenti, ovunque si riuniscano e creino concordia, specie dove ci sono conflitti”. “Il nostro futuro è vivere insieme. Per questo siamo chiamati a liberarci dai pesanti fardelli della diffidenza, dei fondamentalismi e dell’odio”, rimarca Bergoglio.

Di qui l’invito ad essere “artigiani di pace nell’invocazione a Dio e nell’azione per l’uomo”, soprattutto i capi religiosi, “tenuti a essere solidi ponti di dialogo, mediatori creativi di pace”. Il Papa chiama in causa anche “chi ha la responsabilità più alta nel servizio dei Popoli”, quindi i leader delle Nazioni, perché “non si stanchino di cercare e promuovere vie di pace, guardando al di là degli interessi di parte e del momento”.

“Non rimangano inascoltati l’appello di Dio alle coscienze, il grido di pace dei poveri e le buone attese delle giovani generazioni”, è l’appello dei Successore di Pietro. Che conclude ricordando quanto affermava tre decadi fa San Giovanni Paolo II: “La pace è un cantiere aperto a tutti, non solo agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi. La pace è una responsabilità universale”.

[Dal nostro inviato ad Assisi]

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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