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La Rete dell’odio e della violenza

Non rassegnarsi a una Rete “discarica” di insulti e cattiverie, tornando ad essere umani e ricordando che “esiste uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale”

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«Cosa diviene la vita nel tempo in cui Google ricorda sempre? L’implacabile memoria collettiva di Internet, dove l’accumularsi d’ogni nostra traccia ci rende prigionieri d’un passato destinato a non passare mai».
Ha ragione da vendere, Stefano Rodotà. Le sue parole hanno trovato tragica conferma in quanto accaduto nei giorni scorsi a Napoli, con una ragazza di 31 anni morta suicida per la vergogna, divenuta ormai insostenibile, legata alla diffusione online di un video che la ritraeva in atteggiamenti intimi: addirittura un tribunale ne aveva ordinato la completa rimozione, senza riuscirvi. Dramma che fa il paio con la storia che arriva in cronaca da Sant’Arcangelo di Romagna, con una 17enne ripresa col telefonino dalle amiche mentre subiva uno stupro, e che la dice lunga sull’esigenza di umanità e di rispetto della dignità che pervade il mondo, nella sua dimensione reale come in quella virtuale.
Nelle due tragiche vicende affonda le sue radici l’eterna discussione su come i social, e più in generale Internet, abbiano deformato il rapporto quotidiano con la realtà, rendendo necessarie forme di regolamentazione ed un’opera di capillare educazione al web. In quanto accaduto sono evidenti responsabilità di ordine penale, ma pure morali. Queste ultime di tutti.
La giovane donna che s’è tolta la vita è vittima di tanti. Il suo gesto estremo, disperato, però, per quanto assurdo, non va reso vano. Al contrario, da esso deve venire lo stimolo a riflettere prima di digitare un post. A vedere una persona in carne e ossa nei frame mossi di un video. Ad interrogarsi sempre se un’azione sia generatrice di bene o di male, anche stando seduti davanti ad un computer. Certo: non è la Rete il grande colpevole.
Il web ha solo la colpa di moltiplicare un giudizio, di amplificare un grido. Ma non può sfuggire che esso è ormai divenuto vettore telematico della violenza che scuote pezzi della società contemporanea: dietro il display di un pc o di un telefonino, senza contatto né relazione interpersonale, ci si sente più liberi. Anche di scrivere la prima cosa che passa per la mente, di spararla grossa o di trovare l’insulto più colorito. Ma se in genere le parole volano, in Rete invece restano e cancellarle è un’impresa impossibile.
Di fronte a ciò, confermano i giuristi, più che di tutela (urgente e indispensabile) si può parlare – con un linguaggio che rimanda ad altre gravi sciagure – di riduzione del danno. Ad esempio, attraverso un iter complesso, ci si può rivolgere ad un giudice per far valere il proprio diritto all’oblio, ma in caso di diffusione virale di un filmato o di un link è difficile la rimozione da tutti i siti e i tempi sono lunghi. E il diritto all’immagine, da far valere di fronte al garante della privacy, soffre degli stessi problemi. Chi controlla, poi, la veridicità e fondatezza di quanto messo online e replicato all’infinito?
Cosa fare, allora? Magari tornare al passato e cancellare il progresso tecnologico? No: la sfida vera è non rassegnarsi a una Rete discarica di insulti, di istigazione all’odio, di piccole e grandi cattiverie. Come? Tornando ad essere umani. Tenendo a mente l’osservazione di Papa Benedetto XVI: «Esiste uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale: esso si concretizza in una forma di comunicazione onesta ed aperta, responsabile e rispettosa dell’altro».
 

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Vincenzo Bertolone

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