The Return of the Prodigal Son

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Con la "lucerna" della fede accesa, a cercare il fratello perduto

Commento al Vangelo della XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) – 11 settembre 2016

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“Bisognava far festa”. Ma dov’è la festa nella nostra vita? Shows televisivi, discoteche, e alcool e droghe, e fine settimana sulla neve, e le liturgie delle domeniche allo stadio, e compleanni per stupire, e molto altro per ritrovarsi a festeggiare senza festa, mentre la vita rimane un angolo buio rischiarato ad intermittenza. L’incombere della fine, della morte, infatti, non ci abbandona neanche nei momenti più lieti: “Ora, soltanto se c’è una risposta alla morte, l’uomo può essere veramente contento. Ma, se esiste questa risposta, allora è essa l’effettiva e valida autorizzazione alla gioia, ciò che può veramente costituire il fondamento di una festa” (Joseph Ratzinger).
Proprio la risposta alla morte è il cuore del vangelo di questa domenica: Cristo è risorto! È un annuncio che significa qualcosa di reale, come la gioia del Padre nel ritrovare suo figlio. Cristo è risorto per me e per te, perché possiamo davvero “ritornare in vita”. Ma occorre comprendere di essere morti; occorre la luce della Parola che illumini il cammino con cui ci siamo allontanati sino a “perderci”, per schiuderci il cammino opposto di ritorno e conversione. E’ necessaria la Buona Notizia di oggi per passare dalla morte alla vita.
Il figlio più giovane cercava la pienezza della vita; per questo, ingannato dal demonio come Adamo ed Eva, ha allungato la mano verso l’autonomia, ha tagliato con suo padre e si è allontanato dalla sua casa. Ma, quanto più si allontanava più “si perdeva”, esaurendo così l’eredità ricevuta. Con essa ha perduto la sua identità, al punto di non riconoscersi più neanche come figlio. In casa lo era, poteva aprire il frigorifero e mangiare a sazietà; la sua dignità di figlio ne costituiva l’essere e il ruolo, era ed ora non è più. E’ morto. Non lo siamo oggi anche noi, lontani da nostra moglie? Non lo è nostro figlio schiavo del suo egoismo?
Ma quello che a prima vista sembra un esito tragico e definitivo, si rivela il momento decisivo per il cuore inquieto del figlio prodigo. La ricerca della felicità si era infranta sulla rivelazione cruda e amara della menzogna che lo aveva sedotto. Ritrova così un brandello della propria dignità, e una consapevolezza misteriosa lo fa sperare d’essere riaccolto. E così “rientra in se stesso”. La misericordia di Dio non lo aveva abbandonato, era stata sempre accanto a lui; Dio non lo aveva limitato, aveva rispettato la sua libertà, anche a costo di vederlo precipitare nell’inferno.
Il Padre non aveva smesso un istante di essere padre, anche mentre il figlio aveva rifiutato di essere figlio; ma, per quanto egli si fosse allontanato sfigurando la somiglianza con lui, era comunque rimasto suo figlio: proprio perché libero era figlio, anche se ha usato la libertà per farsi e fare del male: figlio libero di un Padre libero. Questo è il più grande paradosso che rivela l’essenza del cristianesimo: nell’abisso del male provocato dalla perversione della libertà, appare più fulgido l’immutabile amore di Dio.
Se l’uomo è stato libero di rivolgersi contro il suo Creatore, Dio è libero di amarlo ancor di più, di guardarlo con una più grande misericordia, e con essa, strapparlo al destino di morte che si è preparato. Lo sguardo del padre che, nell’attesa di un ritorno che non aveva smesso di dubitare, scrutava alla finestra per vedere se appariva il figlio prodigo, era andato ben oltre l’orizzonte dove giunge l’occhio umano. Come la nube della Presenza-shekinà di Dio aveva accompagnato il Popolo sui sentieri dell’esilio, quello sguardo d’amore e gravido di misericordia aveva accompagnato il figlio sin dentro la sua discesa e il suo traviamento, con una pazienza a noi sconosciuta.
La misericordia di Dio, infatti, non ha misura, supera infinitamente quella dei farisei, i più puri e intransigenti religiosi, ai quali la parabola era rivolta. E scuote oggi i nostri cuori, probabilmente impigliati nel perbenismo ipocrita che stenta a credere nell’amore gratuito di Dio. Esso risplende negli occhi del Padre che erano sempre stati fissi su quel suo figlio perduto, sino a farsi in lui memoria e nostalgia proprio mentre scendeva in quel letamaio dove era precipitata la sua vita. “Rientrando in se stesso” il figlio ritrova la traccia di quell’amore; ancora un’ombra forse, di quello sguardo paterno che lo attirava a sé.
Confuso nel deserto della sua anima, il ragazzo percepisce la voce paterna che parla al suo cuore e lo fa “levare”, risuscitare secondo l’originale greco, per tornare da lui. Non si riconosce più come figlio, ma riconosce suo Padre. Di se stesso aveva ritrovato solo quell’ultimo brandello di dignità che lo legava alla vita, ma tanto è bastato. Non era importante chi e che cosa egli fosse diventato, quanto chi era suo Padre. Risuscitato dall’inferno il figlio si pone allora in cammino, sospinto nella conversione dalla memoria paterna riaccesa in lui dalla Grazia. E in quel cammino, a che punto non ci è dato sapere perché diverso per ciascun uomo, il Padre accorre ad abbracciare e accogliere “il figlio smarrito e ritrovato, morto e ritornato in vita”. In quell’abbraccio di misericordia si compie e materializza quello invisibile che lo aveva accompagnato istante dopo istante, impercettibile perché rispettoso della libertà del figlio.
La parabola illumina il nostro cammino quotidiano di conversione, spingendoci nella stanchezza e nella prova, nella certezza che, proprio sui passi del ritorno a casa, molto prima di quanto potremmo immaginare, sentiremo posarsi sulle nostre spalle le braccia del Padre che sigilleranno il ritrovamento e la misericordia. In essa siamo stati creati, ad essa anela il nostro spirito, anche nei momenti più dolorosi, e si fa nostalgia più intensa e struggente proprio nell’angoscia figlia del peccato. Così è e sarà per nostro figlio, oggi forse più indurito che mai.
La misericordia di Dio è l’unica e reale origine della festa, mistero che attira e muove il cuore alla conversione. In essa siamo chiamati a vivere, oggetti e annunciatori di quello che il mondo non conosce. E’ la pedagogia di Dio che non si pente di aver creato l’uomo libero, ma che lo segue con pazienza sulle tracce dei suoi fallimenti, perché in essi intercetti la bellezza e pienezza originarie della libertà compiuta in amore: Dio scende con ogni uomo nella schiavitù, per riaccendere in lui la luce della verità, strappando la libertà alla perversione e così orientarla di nuovo alla giustizia, alla comunione con il Padre, all’amore. Scendiamo anche noi con nostro figlio, con il prossimo che si perde senza frustrare la sua libertà? Lo seguiamo con speranza invincibile, pregando e offrendo le nostre sofferenze perché “rientri in se stesso”? Si sene accompagnato dalla nostra misericordia che non giudica e non esige, ma che, pur dicendo la verità, non smette un istante di guardare con tenerezza?
La vicenda del figlio prodigo rivela come la misericordia di Dio conduce e accompagna l’uomo nella sua discesa all’acqua battesimale; in essa, nudo d’ogni ipocrisia e schiavitù della carne, seppellisce l’uomo vecchio e ritrova la dignità perduta; risorto a vita nuova può “rivestirsi della veste più bella, la veste bianca di lino, che risplende del candore sfolgorante di Cristo risorto; e rinnovare, per pura Grazia, l’alleanza spezzata nel tradimento orgoglioso, e ricevere “l’anello” della nuova ed eterna alleanza sigillata nel sangue preziosissimo di Cristo. Nell’incontro con il padre si compie per il figlio la Pasqua, il banchetto celeste che può gustare solo chi è ritornato a casa, dove mangiare “il vitello grasso” riservato per i momenti indimenticabili.
Il “figlio maggiore”, rimasto in casa senza amare e conoscere realmente suo padre, è incapace di far festa; non trova nella sua vita alcuna ragione per gioire, perché non ha sperimentato il perdono. Come tanti che sono chiamati a vivere nell’intimità di Dio, che stanno nella Chiesa e passano il tempo a mormorare, schiavi della carne più subdolamente e più pericolosamente del “figlio minore”, peccatore smascherato e, per questo, umiliato e aperto alla conversione. Tutti noi  – preti, religiosi o consacrate, catechisti o impegnati in parrocchia, cristiani – corriamo il pericolo di vivere senza conoscere Colui che pensiamo di servire.
In fondo siamo mercenari, e riteniamo che le Grazie siano dei diritti a cui neanche facciamo più caso. Dio non ci basta, Gesù non colma di allegria e pace la nostra vita, perché non abbiamo ancora sperimentato il suo amore. Ci riteniamo giusti, peccatori da poco in confronto a chi ci è accanto, cominciando dalla moglie e dal marito, per passare ai figli e giungere a colleghi e conoscenti. Mentre il legalismo ci ha indurito il cuore, e buttiamo le giornate nell’invidia sottile e perniciosa dei peccatori da molto: in fondo, pensiamo che se la godano più di noi, perché siamo stoltamente ignari della morte che accompagna il peccato.
E invece, anche se non abbiamo rubato, violentato, ucciso, proprio perché il nostro cuore desidera nascostamente il peccato, siamo esattamente come “il figlio minore”, o forse peggio: nel segreto dell’interno albergano la rapina e l’iniquità dei farisei che hanno tagliato con Dio ogni relazione d’amore. Anche se all’esterno appariamo onesti e inappuntabili, anche se ci battiamo il petto, e ci indigniamo e pontifichiamo, senza rendercene conto, siamo usciti dalla casa di nostro Padre anche noi, con il cuore  lontano da Dio.
Questo accade quando, magari nascosti dietro lo schermo di un computer, ci saziamo di pornografia e di perversioni come e più dei fratelli che peccano apertamente. Quanti peccati si nascondono nei nostri cuori… Quanti giudizi truccati con sorrisi di circostanza. Quante volte abbiamo guardato con desiderio la segretaria commettendo adulterio con lei nel nostro cuore. Quante cose degli altri abbiamo avidamente desiderato… E restiamo ancora più insoddisfatti del fratello che ha dilapidato tutto e si è trovato senza nulla da mangiare, condividendo lo stesso esito fallimentare, senza però “rientrare in noi stessi”. Siamo, infatti, illusi di non esserci mai perduti, e quindi non pensiamo minimamente di dover tornare da dove crediamo di non essere mai usciti.
Per questo, ciechi sul fatto che se non abbiamo consumato certi peccati è stato solo per paura, vigliaccheria e opportunismo, giudichiamo e disprezziamo. Padri, madri, mariti e mogli, preti ed educatori, spesso ci issiamo sul piedistallo di fumo della nostra pretesa giustizia, dimenticando la misericordia che ci ha salvati, quando eravamo “perduti” anche noi. A differenza del Padre, per noi anche il perdono ha un prezzo, la promessa di cambiare almeno… Il «pareggio di bilancio» noi l’abbiamo approvato senza che ce lo imponesse l’Unione Europea…
Ma Dio no, Lui ha sempre i conti in rosso. «Lascia» i guadagni sicuri di «novantanove pecore» e si lancia alla ricerca di una, una sola pecora che s’è smarrita. Probabilmente la peggiore, la più egoista, una di quelle che è meglio perderle che trovarle. E gioisce per lei, più che per le altre. Il folle cuore di Dio non può rallegrarsi sino a che l’ultimo dei peccatori non sia stato «ritrovato» e «accolto». Nessuno di noi farebbe lo stesso. A scuola, nei posti di lavoro, tra gli amici, accade l’esatto contrario. Le teste calde sono espulse ancor prima di perdersi.
Ma proprio i peccati e le loro conseguenze ci hanno resi «unici» agli occhi di Dio, come la “dramma” e la “pecora”. “Unici” perché segno e primizia di ogni altro uomo. Le parabole ci svelano infatti che, “perduti” con il figlio, la pecora e la dramma, vi sono anche il fratello maggiore, le altre dramme e le atre novantanove pecore… “Unici” non a caso, perché profezia dell’ “Unico” che è morto per tutti, perché «tutti hanno peccato». Nella pecora smarrita della parabola, infatti, è adombrato Gesù, l’Agnello di Dio, l’unico «perduto» nella morte per riscattare le altre novantanove che si credevano «giuste», mentre invece vagavano «sperdute» nel «deserto». Nel sepolcro il Padre ha «ritrovato» suo Figlio, lo ha risuscitato «prendendolo sulle sue spalle» e lo ha riportato «a casa»; qui, nella gioia straripante e coinvolgente della Pasqua, è apparso agli «amici» che lo avevano tradito; con il perdono di ogni peccato nella carne li ha inviati ad annunciare ai «vicini» lo stesso perdono e la «conversione», la gioia di lasciarsi amare.
Così, nella Chiesa, siamo chiamati ogni giorno a «cercare» la «dramma perduta», il fratello più debole e difficile, che la carne vorrebbe dimenticare. Con la «lucerna» della fede accesa nelle tenebre della menzogna, possiamo «cercarlo con cura» e pazienza, «spazzando» via la polvere e l’immondizia che il tempo perduto nei peccati ha lasciato, per riconoscere il volto di Cristo che risplende in lui. Anche se “perduto”, con il Signore “ritroveremo” nostro figlio; e così il dialogo d’amore con nostra moglie e la relazione con il genero. Proprio nello sconforto, può vibrare il cuore di gioia purissima per l‘incontro di due così diversi eppure fatti l’uno per l’altro: “Ossa delle mie ossa, carne della mia carne”, sono queste le parole del Pastore al ritrovare la sua amata pecora smarrita, possono essere le nostre nel ritrovare il fratello che s’era perduto.

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Antonello Iapicca

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