Si è svolta lo scorso 19 agosto, nel centro storico di Guagnano (Le), la serata di premiazione della quarta edizione del “Premio Giornalistico Terre del Negroamaro”, concorso ideato e promosso dal GAL Terra d’Arneo e fortemente voluta dal suo presidente, Cosimo Durante, al fine di favorire la conoscenza del territorio e delle sue eccellenze. A salire sul palco dei premiati, quest’anno, la giornalista Agnese Pellegrini, vincitrice della categoria stampa con un reportage dal titolo “Salento. Una Terra tra i due mari”, pubblicato sulla rivista BenEssere e un articolo, pubblicato dalla rivista Credere, focalizzato sulla figura di San Giuseppe da Copertino, il Santo dei voli nato proprio in Terra d’Arneo. Ma come si fa a diventare giornalista? Si nasce giornalisti o si diventa? Si riesce a resistere alla tentazione dello scoop delle cattive notizie? E cosa significa essere cattolici e giornalisti? Queste ed altre domande ZENIT le ha rivolte ad Agnese Pellegrini.
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Come e perché hai voluto fare la giornalista?
Come spesso avviene nella vita, non siamo noi a fare i programmi! Nel senso che io, fino all’età di 20 anni, volevo diventare insegnante, e infatti sono laureata in Lettere classiche, con una tesi in Storia greca. Avrei desiderato fare la professoressa o, in alternativa, l’archeologa, possibilmente subacquea, ma si trattava di un’utopia, più che di un sogno, perché non so neppure nuotare, figuriamoci andare sott’acqua! Senza contare, poi, che non è che tutti i giorni si “pescano” i Bronzi di Riace! Comunque, la mia idea era quella di realizzarmi come insegnante, anche perché a quei tempi ero educatrice di Azione Cattolica – sono stata responsabile parrocchiale Acr e ho fatto parte dell’équipe diocesana – quindi amavo moto confrontarmi con i ragazzi. Poi, una sera, vidi un film: Qualcosa di personale, con Michelle Pfeiffer e Robert Redford nei panni di due giornalisti. Alla fine del film, lei dichiara: «Il valore di ciò che siamo, è nelle storie che raccontiamo». Ecco, avevo capito: io volevo raccontare storie “belle”, storie di valore.
Volevo concretamente “dare voce” a chi non ce l’ha. Così, iniziai a bussare alle porte delle redazioni dei tre giornali che esistevano a Chieti, in Abruzzo, dove sono nata e ho vissuto. L’allora caporedattore de Il Messaggero, che considero il mio primo maestro, mi guardò con un ghigno un po’ beffardo, ma mi fece provare. A quei tempi, in quella redazione non c’erano donne, io ero una ragazzina di 20 anni con tante belle idee, ma senza esperienza. Il caporedattore mi correggeva dall’inizio alla fine gli articoli… però mi lasciava scrivere. E io, armata di penna e taccuino (in quel periodo, nelle redazioni i menabò si disegnavano ancora a mano e si inviavano per fax ai grafici, ci vollero ancora un bel po’ di anni perché tutto il processo fosse informatizzato…), andavo in giro a cercare storie. A dare voce a chi non ce l’aveva. Negli anni successivi, ho dovuto studiare libri di giornalismo per sostenere l’esame di Stato per diventare professionista. Allora, però, la mia scuola era la strada. Era lì che raccoglievo le storie. Un giorno decisi di dare realmente voce a chi non ce l’aveva, e non solo metaforicamente.
Così, presi lezioni di Lis (il linguaggio internazionale dei sordomuti) per intervistare chi effettivamente non poteva parlare. Un’altra volta, intervistai le suore di clausura della mia città, perché anche la loro voce non è ascoltata nel mondo. Entrai perfino in carcere, per intervistare i detenuti: era la festa del papà, il 19 marzo, e io volevo scrivere un articolo “diverso”: che cosa vuol dire essere padre, per chi vive in carcere? Il caporedattore (lo stesso che mi correggeva tutto…) allargava le braccia e scuoteva la testa, quando tornavo con uno dei “miei” articoli. Ma penso che, in fondo, gli piacessero… Mi trattava un po’ come Robert Redford, nella parte iniziale del film, trattava la Pfeiffer (più segretaria che giornalista, ma se non altro non mi mandava a ritirare le sue camicie), tuttavia quel poco che so lo devo a lui. E a tutta la redazione de Il Messaggero, che mi ha davvero fatto crescere sotto un’ala protettiva, in particolare Mario, che con gli anni è diventato uno dei miei più cari amici.
Come sei finita nel mondo cattolico?
Facevo già parte dell’Azione cattolica. Si dice sempre che ognuno di noi ricorda giorno ed ora in cui ha ricevuto “la” chiamata: avevo 8 anni, era un sabato e frequentavo la lezione di catechismo. Mi arrivò per le mani un volantino, con l’invito a partecipare al nuovo gruppo parrocchiale dell’Acr. Da allora, ho vissuto in Ac per più di 20 anni, finché non mi sono trasferita per lavoro e diventava oggettivamente difficile continuare a frequentare con assiduità gli incontri.
L’Azione cattolica, che ho amato grazie agli insegnamenti dei miei responsabili di quegli anni (Giluio Saraceni, Aurelio Leoni, prematuramente scomparso, don Mario Pagan, ma anche don Piero Santoro, attuale vescovo di Avezzano…) mi ha insegnato, prima di tutto, ad amare la Chiesa. Sempre e comunque. A servirla, sentendo di farne parte. L’Azione cattolica, del resto, è “la” Chiesa, non uno dei tanti gruppi o movimenti ecclesiali.
Così, iniziai ad impegnarmi in parrocchia, e poi in diocesi. Allora, a Chieti era arrivato il nuovo arcivescovo, fresco di nomina: monsignor Edoardo Menichelli, ora cardinale (uno dei primi nominati da papa Francesco) e attuale arcivescovo di Ancona-Osimo. Per quei tempi, monsignor Menichelli era un vescovo fuori dal comune: amava – assolutamente ricambiato – i giovani, si prendeva cura di loro, li avvolgeva di un affetto paterno vivo e mai scontato. Ricordo che un giorno organizzammo con i ragazzi della diocesi un campo scuola a Moena, e lui prese la macchina, viaggiando tutta la notte, per venire a celebrare la messa in mezzo a noi. Ideava continuamente iniziative di preghiera e di riflessione per noi giovani, che ci sentivamo coinvolti, e per questo offrivamo la nostra risposta sincera.
Lo conobbi in quel periodo, proprio attraverso l’Azione cattolica: ero responsabile parrocchiale Acr e stavo portando i bambini in un campo scuola estivo. Lo avevo invitato a venirci a trovare, in realtà senza alcuna speranza che accettasse. Lui, invece, ci raggiunse. E portò ai bambini una scatola piena di gelati. Celebrò messa per noi, poi tornò a Chieti. Quel gesto mi colpì, perché si era dimostrato davvero un padre.
Da allora, ho sempre partecipato a ogni ritiro da lui organizzato e, dopo la laurea, mi chiese se volevo dare una mano per il giornale diocesano, “L’Amico del popolo”, che vantava una lunga storia, e che aveva ripreso la pubblicazione proprio grazie a lui, dopo un periodo di chiusura. Il mio direttore era don Mario Di Cola: un grande professionista! Piano piano, diventai anche addetta stampa di monsignor Menichelli e dei vescovi della Ceam (Conferenza episcopale abruzzese e molisana). E iniziai a collaborare anche con Avvenire e con L’Osservatore Romano, sotto la direzione di Mario Agnes.
È stata una scelta o rientra nell’ambito della tua crescita professionale?
Ricordo una frase che ci dissero, durante un incontro organizzato dalla Cei per i giornalisti che lavorano nelle varie diocesi italiane: «Dovete essere cattolici giornalisti, e non giornalisti cattolici». Ecco, ho cercato – pur con tutti i miei limiti, i miei peccati, le mie imperfezioni – di fare proprio questo. Durante la “grande” Gmg del 2000 a Roma, lavorai nell’Ufficio stampa che coordinava i giornalisti per il Giubileo dei giovani. Eravamo tutti professionisti ma, soprattutto, tutti ragazzi che stavano offrendo il proprio impegno perché credevano in quello che stavano facendo: in quei 20 giorni vissuti a Roma, con una mole di lavoro spaventosa, la nostra professione coincideva con la nostra fede. E, ancora oggi, molti di quei ragazzi che hanno lavorato con me continuo a sentirli. L’aspetto più bello è che, dopo 16 anni, siamo tutti rimasti nella grande famiglia della Chiesa: in particolare, mi piace ricordare don Raju Chakkanattu, che oggi è sacerdote salesiano (era un seminarista, allora) che, in India, sta facendo cose davvero grandi per il suo popolo! Nel corso del tempo, ho lavorato per molti giornali, anche con grandi editori. E, quando mi hanno chiesto di far parte della grande famiglia del Gruppo editoriale San Paolo, non ho avuto dubbi: per me, è stato un “ritorno” a casa, dopo anni nell’editoria “laicista”. Oggi lavoro a BenEssere, l’unico mensile cattolico di salute attualmente sul mercato: un’idea nuova (è nato da poco più di tre anni), che si sta rivelando vincente, perché i lettori continuano a crescere.
Quali secondo te i temi e le notizie più interessanti del mondo cattolico?
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto», diceva il grande poeta Lucrezio. Ovvero: sono un uomo, e nulla di ciò che riguarda l’uomo è per me estraneo. Io credo che l’informazione – tutta, non soltanto quella cattolica – è “interessante” nel momento in cui mette al centro della notizia l’uomo. Purtroppo, assistiamo a un periodo difficile per l’editoria, ma a mio avviso essa sta pagando lo scotto di troppi anni in cui al centro della notizia c’era la politica, l’economia, la finanza… ma non l’uomo. Forse, l’editoria cattolica – per quanto anch’essa viva la difficile congiuntura del momento – è rimasta l’unica a tenere saldo questo principio: al centro della notizia c’è l’uomo, con tutto quello che questo comporta. L’alto numero di lettori che avete voi a ZENIT, che hanno i giornali del Gruppo San Paolo, che ha Avvenire, quindi, non deriva tanto da una scelta tematica, quanto da una modalità comunicativa: ogni notizia va bene, se la racconti tenendo conto dell’uomo e di tutto ciò che è umano, per tornare a Terenzio.
E poi vorrei dire che, in tempi difficili come questi, si comprende che a essere interessante è “l’essenziale”, cioè vicende autentiche, testimonianze credibili… Insomma, non è vero che nel giornalismo vale la regola delle “3 esse”, che tutti abbiamo studiato, ovvero che i giornali si leggono soltanto se parlano di sesso, sangue e soldi. Oggi stiamo tutti riscoprendo che il mondo ha bisogno di solidarietà, di compassione, di misericordia, per dirla con Papa Francesco.
Tra le ragioni che limitano le potenzialità del giornalismo cattolico c’è l’autoreferenzialità. Cosa diresti in proposito?
Se un giornale cattolico è autoreferenziale, vuol dire che non è un buon giornale e, cosa ancora più grave, non adempie alla sua missione, che rimane quella di ogni cristiano, cioè di portare Cristo al mondo. Del resto, un giornale cattolico autoreferenziale è già una contraddizione nei termini, perché cattolico vuol dire universale! Ho la fortuna di lavorare in un Gruppo che ha avuto un grande maestro in questo campo: don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia paolina, vedeva nei mezzi di comunicazione i nuovi strumenti di evangelizzazione. La grandezza di questo sacerdote è stata l’aver creduto che non si doveva evangelizzare soltanto attraverso le messe e le catechesi, ma anche l’attualità poteva diventare luogo e argomento di testimonianza (don Alberione diceva che bisogna «parlare di tutto cristianamente»). Da ciò discende che, per essere davvero fedele al proprio mandato, l’editoria cattolica è chiamata a parlare, appunto, all’uomo dell’uomo, senza autoreferenzialità o settorialismi. È quello che cerchiamo di fare noi con BenEssere: è un giornale di salute, che tratta di tutte le problematiche legate allo star bene, senza tralasciare argomenti dell’attualità e storie interessanti. In edicola, inserito tra gli altri giornali di settore, non è subito evidente che si tratta di una rivista cattolica. Proprio questa è la nostra forza: i nostri lettori ci leggono perché offriamo risposta alle loro domande, perché cerchiamo di essere autorevoli e completi, senza sbandierare il fatto di essere cattolici, e tuttavia sempre parlando dell’uomo come anima, mente e corpo. Quindi, a mio avviso, l’editoria cattolica adempie la propria missione quando non sbandiera la propria appartenenza, ma si mette al servizio.
Nell’ambito del giornalismo d’inchiesta, quali sono le inchieste che ti piacerebbe fare e che vorresti pubblicare?
Papa Francesco non smette mai di far riferimento alla parabola del Buon Samaritano, un passo del Vangelo che anche io amo particolarmente. Credo molto nella “compassione”, un termine che noi traduciamo con “pietà” ma che, nell’accezione latina, significa “soffrire con”. Così, il mio prossimo è la persona che Dio mi pone accanto, chiedendomi di “soffrire con” lui, di lavare le sue ferite… Il giornalismo che mi piace – quello che cerco di fare e che spero di poter continuare a fare – è appunto quello che parla dell’uomo, della sua realtà, del suo dolore. Non so fare – né mi interessano – inchieste sull’economia, o sugli scenari politici (anche se, ovviamente, nutro il massimo rispetto e una grande ammirazione per i colleghi che si occupano di queste tematiche). Mi appassiona invece raccontare l’uomo, la sua parte più autentica, anche se a volte coincide con la sua parte peggiore. Sono stata ad Opera, nel carcere di massima sicurezza di Milano, dove ho intervistato tre assassini impegnati in un progetto per la produzione di ostie: un modo per riscattarsi, ma soprattutto per perdonarsi e per perdonare, per rinascere a una nuova vita grazie al valore salvifico dell’Eucaristia. È stata una esperienza, umana e professionale, bellissima, perché, intervistando i detenuti, ho incontrato l’immenso mistero della loro anima. Ecco, quello che a me interessa non è il “prurito del gossip”, ma il racconto della vita delle persone. Perché, alla fine, «il valore di ciò che siamo, è nelle storie che raccontiamo».
Agnese Pellegrini
"Il valore di ciò che siamo è nelle storie che raccontiamo!". Parola di giornalista cattolica
Intervista ad Agnese Pellegrini, vincitrice della IV edizione del “Premio Giornalistico Terre del Negroamaro”, che racconta i suoi ideali e le sue aspirazioni