Ha provato la paura, quella vera, Ahmed durante il viaggio affrontato da solo, su un barcone, per arrivare dall’Egitto in Italia nella speranza di trovare medici disponibili a curare il fratellino Farid di 7 anni, affetto da una patologia del sangue, la piastrinopenia.
Un eroe, si potrebbe dire. Ahmed però ha 13 anni e a quell’età non avrebbe dovuto vedere donne trascinate in magazzini che uscivano in lacrime prima di essere imbarcate su un gommone, non avrebbe dovuto patire la sete nella traversata in mezzo al mare perché era concesso un sorso d’acqua a testa, né rimanere quasi asfissiato nel carro bestiame maleodorante che lo ha trasportato dalla casbah polverosa in cui abitava, a 130 km dal Cairo, fino al delta del Nilo. Tantomeno, avrebbe dovuto temere che la sua giovane vita finisse da un momento all’altro, lontano dal suo villaggio e dai suoi cari.
Ma Ahmed, con un coraggio fuori dal comune, ha scelto di sopportare tutto questo orrore – divenuto ormai una prassi del dramma delle migrazioni – per amore del fratello nella speranza di incontrare un qualsiasi dottore disposto a compiere quella seconda delicata operazione (una splenectomia, l’asportazione della milza) che i medici egiziani erano disposti a fare per sessantamila lire egiziane. Una cifra spropositata per una famiglia di contadini che nelle migliori stagioni di raccolto al massimo ne guadagna tremila in un anno.
“Hanno chiesto 30mila lire egiziane, quasi 4mila euro. E il doppio per la seconda operazione”, ha raccontato il ragazzo. “Soltanto le analisi costano 4mila lire, 500 euro, ma mio padre raccogliendo datteri con mia madre e mio fratello più grande di un anno, non guadagna mai più di tremila euro all’anno”. Cosa fare, allora, per salvare Farid? “Ho sentito i miei genitori interrogarsi, parlarne con i miei zii. Quando ho capito che tanti ragazzi dalla mia città partivano con le barche ho deciso di dare una mano. ‘Vado pure io’, ho detto”.
Per il ragazzo, infatti, era più sopportabile affrontare il calvario di doversi nascondere in un capannone della spiaggia di Baltim dove Ahmed, a pochi passi da Alessandria d’Egitto, o assistere ai suoi compagni di viaggio picchiati e derubati da scafisti e trafficanti, piuttosto che vedere il fratellino essere dimesso dall’ospedale perché il padre non aveva i soldi per pagare le cure e l’operazione. “È stato terribile”, ha detto.
In un primo momento i parenti oppongono resistenza, ma poi si lasciano convincere da questa folle scelta. Anche lo zio che firma delle “carte” con i trafficanti per garantire un impegno a pagare 2mila euro nei prossimi anni o con i guadagni del giovane o con un suo terreno.
Inizia così il viaggio di Ahmed. Sotto la sua maglietta, stretto al suo petto smilzo, stringeva un sacchetto di plastica con la fotocopia di un certificato medico che descriveva la diagnosi della malattia del piccolo, provocata da una riduzione nella produzione midollare di megacariociti. Per il ragazzo quella copia sgualcita era la cosa più preziosa al mondo. L’ha tirata fuori solo una volta sbarcato a Lampedusa, dopo mille difficoltà, dove ha iniziato la sua ricerca.
Lì ha incontrato un volontario col suo stesso nome, Ahmed Mahmoud, anche lui egiziano, mediatore per l’Oim (Organizzazione internazionale dei migranti) che ha ascoltato la sua storia: “I miei genitori, i miei zii, tutta la famiglia mi hanno fatto partire per trovare in Sicilia, in Italia, in Europa un ospedale, dei medici disposti a curare e operare il più piccolo dei miei fratelli, Farid, 7 anni, da tre colpito da una malattia del sangue”, raccontava l’adolescente con gli occhi lucidi per la commozione ma anche per la paura di fallire la sua missione.
Ahmed, il grande, rimane senza parole per questo ragazzino che si diceva convinto di voler lavorare in Europa per mandare i soldi alla famiglia così da curare e far guarire il fratellino. Invece, “mio fratello più grande continua a studiare così si prepara un futuro migliore per la nostra sorellina di tre anni”. Si fa quindi in quattro e corre da una parte all’altra dell’isola per dare una mano al suo omonimo.
Dal centro rifugiati di Lampedusa la storia è finita fortunatamente sulle scrivanie della redazione del Corriere della Sera che l’ha diffusa nei giorni scorsi. Letto l’articolo, l’assessore al diritto alla Salute della Regione Toscana, Stefania Saccardi, che assieme alla direzione dell’ospedale Careggi si è immediatamente attivata per aiutare il giovane. La direzione dell’azienda ospedaliera e il prof. Marco Carini hanno dato presto la loro disponibilità a prendere in carico Farid che, quindi, grazie anche alla mobilitazione della Regione Toscana, sarà curato in Italia.
“Con i programmi di cooperazione sanitaria internazionale – ha spiegato infatti Saccardi – nei nostri ospedali accogliamo e curiamo tanti bambini che vengono da altri paesi. Lo faremo anche per Farid. La direzione di Careggi prenderà subito i contatti necessari per dare la propria disponibilità e far arrivare quanto prima a Firenze Farid e la sua famiglia”. “Se sarà necessario – aggiunge – troveremo anche ospitalità per lui e per i familiari che lo accompagneranno”.
Ahmed, nonostante sia ancora sconvolto da quello che definisce “il dolore più grande che abbia mai provato”, tira un sospiro di sollievo. E si prende pure ‘il lusso’ di sognare: “Il mio desiderio – ha confidato – è vedere mio fratello giocare senza sentirsi male, giocare con me a calcio e correre insieme senza aver paura che svenga perché non riesce a stare molto in piedi”.
Una storia a lieto fine, dunque, di quelle che purtroppo negli ultimi tempi si sentono raramente.