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Missionarie uccise in Burundi. Zuppi: "Testimonianza di vita spesa fino alla fine"

L’arcivescovo di Bologna firma la prefazione di un libro di EMI in cui sono ricostruite le vicende delle tre saveriane uccise alla periferia di Bujumbura nel settembre 2014

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“Il Burundi è uno dei Paesi dove il male ha segnato tragicamente la vita di generazioni di uomini e donne. Quanta sofferenza e quante stigmate che durano anni e si comunicano in quella trasmissione enigmatica e terribile del dolore, del mysterium iniquitatis. Anche per questo la forza delle religioni può e deve essere decisiva, a condizione che esse non si lascino strumentalizzare a fini politici e cerchino sempre e solo il bene di tutti, in particolare dei più poveri”.
È uno dei passaggi più significativi della prefazione di mons. Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, al libro Va’, dona la vita! Storia, parole, morte di tre missionarie saveriane in Burundi, pubblicato dalla Editrice Missionaria Italiana, in libreria da fine mese, curato da Teresina Caffi.
Nel volume sono ricostruite le vicende delle tre missionarie Olga Raschietti, Lucia Pulici e Bernadetta Boggian, uccise nella periferia di Bujumbura il 6 e 7 settembre 2014. L’omicidio, avvenuto nella casa delle religiose a Kamenge  – oggi divenuta una casa di preghiera –  è ancora oggi avvolto nel mistero, visto che non sono noti né gli autori né il movente. Papa Francesco definì le tre donne “religiose zelanti, generose testimoni del Vangelo”.

Nella prefazione pubblicata in sintesi dal quotidiano Avvenire, mons. Zuppi fa un excursus storico del “piccolo Paese, cuore dell’Africa”, dove – scrive – “vi sono state testimonianze straordinarie di come la fede può aiutare a contrastare la logica della violenza, spezzandone la catena, seminando amore”.

Ad esempio quella dei 40 giovani seminaristi, tra i 14 e i 20 anni, di Buta, uccisi nel 1997 dal Consiglio nazionale per la difesa della democrazia-Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd), allora guerriglia che si contrapponeva al Governo, che volendo uccidere solo i tutsi, chiese agli hutu di separarsi dai loro amici. I seminaristi rifiutarono, dicendo che preferivano morire insieme, piuttosto che tradire gli amici tutsi e furono quindi massacrati tutti.
Zuppi ricorda pure gli accordi firmati nel 2000 che 2posero le prime basi per arrestare la violenza, sfida che non dobbiamo mai dimenticare o sottovalutare, in un Paese come il Burundi e ovunque”. “Purtroppo – aggiunge – non sappiamo, a due anni di distanza, se la morte violenta delle missionarie saveriane abbia a che fare con le tensioni che attraversavano il Paese. Gli impegni che erano stati presi di cercare gli assassini e di fare giustizia si sono del tutto arenati”.
Il libro, secondo l’arcivescovo, aiuta quindi “a comprendere la loro vita di missionarie, svoltasi sostanzialmente tra il Sud Kivu (Congo) e la capitale burundese. Tutta la zona – sottolinea Zuppi – è attraversata da una violenza che supera le frontiere e rappresenta un contagio pericolosissimo. La loro è la testimonianza di donne che hanno dato tutto quello che avevano, che sono rimaste per limitare i frutti amari della guerra e della divisione”.
Nel testo si ritrovano infatti le lettere di Olga alla sua parrocchia d’origine, a Sant’Urbano, dopo aver lasciato Luvungi, in cui parla della guerra nel Kivu come di “un pericolo”, ma che ha rafforzato il suo amore per “un popolo tanto provato dalla sofferenza”. Lucia descrive una conseguenza delle violenze sulla popolazione: “Anche per l’attuale insicurezza sulle strade, frequentate soprattutto di notte da militari armati, una percentuale molto alta di donne partorisce ancora in casa”, mentre non si sofferma troppo sulle violenze subite personalmente durante le ripetute razzie dei militari.
Nei testi di Bernardetta tali riferimenti sono invece presenti in ogni pagina. Da poco rientrata a Luvungi, a fine 1997, scrive alla sorella Anna di aver trovato “una situazione indescrivibile: povertà, fame, malattie e tante famiglie nella sofferenza per la morte dei loro familiari nella grande fuga. Alcuni, bambini compresi, hanno fatto a piedi 2.000 km abbandonati alla mercé dei militari ruandesi che avevano il piano di sterminarli. Quelli che si sono salvati sembrano cadaveri ambulanti”. Nel 2000 è testimone del massacro di 300 persone: si reca all’indomani sul posto e, di nascosto, scatta le fotografie che permetteranno di documentare l’accaduto.
“I testi raccolti in questo volume – annota Zuppi – narrano anche la grande dedizione con la quale Bernardetta, quando non è chiamata a incarichi di governo generale della sua Congregazione, esercita l’attività di formatrice rivolta agli adulti e ai bambini; la passione di Lucia per il lavoro di ostetrica; lo zelo del servizio di catechista di Olga, che approfitta del suo ministero per visitare i poveri della comunità”.
Secondo il presule, “appare evidente, in ogni pagina, che il tratto caratteristico del loro servizio missionario è stato la capacità di farsi uno con il popolo al quale sono state inviate. Si comprende solo in questa luce la scelta di ritornare in Africa, contro quanto potevano consigliare la salute e soprattutto l’età avanzata. Esse sono in realtà la testimonianza di una vita spesa fino alla fine, di una giovinezza del cuore, di una vecchiaia che non smette di avere sogni”.
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ZENIT Staff

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