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Vatileaks 2: considerazioni dopo la sentenza di primo grado

In un articolo de “La Civiltà Cattolica”, padre Lombardi spiega i motivi del processo, la storia e le posizioni nel dibattimento e le ragioni della condanna di Balda e Chaouqui

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Lo scorso giovedì 7 luglio si è concluso, presso il Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, il processo cosiddetto Vatileaks 2 avviato per “rivelazione e divulgazione di notizie e documenti riservati”. Cinque gli imputati: mons. Lucio Ángel Vallejo Balda, Francesca Immacolata Chaouqui, Nicola Maio — rispettivamente Segretario, membro e Segretario esecutivo della Commissione Referente di Studio e Indirizzo sull’Organizzazione delle Strutture Economico-Amministrative della Santa Sede (Cosea) — e i giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, autori dei due volumi Via Crucis e Avarizia nei quali erano confluiti i documenti riservati vaticani. Il processo faceva seguito ad un primo Vatileaks, durante il quale era stato processato Paolo Gabriele, maggiordomo di Benedetto XVI,  che aveva consegnato a Gianluigi Nuzzi documenti riservati.
Per raccontare le ragioni del processo, la cronaca del dibattimento, il perché delle condanne, il direttore uscente della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha scritto un lungo articolo sul numero di agosto della rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, dal titolo: Vatileaks 2. Considerazioni dopo la sentenza di primo grado.
Alla fine del processo mons. Vallejo, che ha ammesso esplicitamente durante la sua deposizione di aver commesso il reato della rivelazione di notizie o documenti riservati, “considerate le aggravanti e le attenuanti”, è stato condannato alla pena di 18 mesi di reclusione. La pr Chaouqui è stata condannata non per aver commesso il reato della rivelazione — cosa che non appare provata — ma per aver concorso nel reato commesso da Balda. La condanna è a 10 mesi di reclusione; pena la cui esecuzione è sospesa per cinque anni “alle condizioni di legge”. Come d’uso, i due condannati sono anche tenuti al risarcimento delle spese processuali.
“La condanna di mons. Lucio Ángel Vallejo Balda era inevitabile – scrive Lombardi – essendo emerso senza alcun dubbio, e da lui stesso ammesso, il fatto della comunicazione da parte sua di una notevole quantità di documenti riservati, in particolare al giornalista Nuzzi, ma anche a Fittipaldi. La condanna della dott.ssa Chaouqui era prevedibile, in quanto coinvolta attivamente nella relazione fra mons. Vallejo Balda e i giornalisti. L’assoluzione del dr. Maio era anch’essa prevedibile, avendo egli svolto un ruolo essenzialmente di segreteria esecutiva, senza che siano emerse sue responsabilità nella rivelazione di documenti riservati”.
“Molto importante – a detta dell’ex portavoce vaticano – è il fatto che il Collegio abbia ritenuto non provata l’esistenza di una ‘associazione criminale’, di cui si era molto parlato, in forme diverse, sia nel corso dei primi interrogatori sia in diverse testimonianze. I tre imputati erano di fatto coinvolti insieme nel lavoro della Cosea e il loro riunirsi anche in modo riservato poteva essere giustificato dai loro compiti”.
Il proscioglimento dei due giornalisti, Nuzzi e Fittipaldi, è stato invece “il risultato di una scelta del Collegio che non era affatto scontata”. Molta attenzione, infatti, era stata dedicata, nel corso del dibattimento all’accusa — formulata nel rinvio a giudizio — di una loro azione di “sollecitazione e pressione” nei confronti di mons. Balda, accusa che però in realtà non sembrava confermata. “Lo stesso monsignore – ricorda padre Lombardi – a un certo punto, alla domanda precisa ‘se fosse stato sottoposto a pressioni o si fosse sentito sottoposto a pressioni’, aveva chiaramente risposto nel senso della seconda alternativa, cosicché l’accusa era parsa cadere e perciò ci si poteva aspettare un’assoluzione dal reato di ‘concorso’ per questo motivo”.
La questione invece della “giurisdizione” del Tribunale dello Stato vaticano sui due giornalisti, cittadini italiani, residenti in Italia, che avevano avuto incontri con gli imputati principali in Italia e non nello Stato vaticano, pur essendo stati in frequente comunicazione con loro per via elettronica, non era stata oggetto di molta discussione nel corso del dibattimento, ma era stata evidentemente trattata dal Promotore di Giustizia (e risolta in senso favorevole all’esistenza della giurisdizione), che aveva pure insistito su di essa nel corso della requisitoria finale, ed era stata oggetto di obiezioni avanzate con particolare efficacia nel corso dell’arringa finale dell’avv. Palombi, difensore di Nuzzi.
“Il Collegio giudicante ha evidentemente approfondito la questione nel corso del processo stesso, e l’ha risolta con decisione in senso negativo”, spiega il gesuita. “La giustificazione della decisione appare la seguente. Anzitutto, i fatti che riguardavano i due giornalisti sono avvenuti fuori del territorio vaticano, su cui il Tribunale esercita ordinariamente la sua giurisdizione”.
Dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, “il Collegio non è più entrato in alcun modo a pronunciarsi sul merito delle accuse di pressioni o comportamenti scorretti dei giornalisti”. Padre Federico Lombardi fa notare “che con questa decisione il Collegio ha posto un precedente molto importante, dal momento che non si può escludere che in futuro avvengano deprecabili vicende di divulgazione di notizie e di documenti riservati analoghe a questa”.
Al di là del processo, “il fatto che tutta questa vicenda, anche nelle sue dimensioni di carattere personale, sia stata oggetto di un ampio dibattimento pubblico, davanti a un gruppo di rappresentanti della stampa internazionale, giustifica – secondo Lombardi – anche qualche riflessione e considerazione aggiuntiva non strettamente giuridica”.
“La vicenda personale del principale imputato richiede di essere vista con occhio di compassione e misericordia”, afferma. “Posto di fronte a una responsabilità molto grande e delicatissima — troppo grande per lui? —, in quanto Segretario della Cosea, egli ha vissuto questo impegno con grande intensità, con attese ambiziose e, di fronte ad esiti differenti da quelli da lui auspicati — dal punto di vista sia oggettivo sia soggettivo —, ha assunto un atteggiamento di reazione negativa, che si è espresso — come può purtroppo avvenire in questi casi — nella diffusione di informazioni e documenti riservati della Commissione, cioè tramite un rapporto con la stampa contraddittorio con i suoi chiari impegni istituzionali”.
In effetti, essendo egli già da qualche tempo Segretario della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, “la sua nomina a Segretario della Cosea era in sé giustificata; tuttavia certe caratteristiche della sua personalità emerse nel corso del dibattimento fanno pensare che in realtà si sia trovato a svolgere un ruolo più complesso di quanto egli fosse in grado di portare avanti con serenità”. Di qui la sua “entrata in crisi”, con la conseguenza “di comportamenti anomali e non consoni alla sua condizione ecclesiastica e non più sottoposti al controllo dovuto, fra cui la divulgazione dei documenti”.
Diversa appare la situazione di Francesca Chaouqui, nominata membro della Cosea e in stretto rapporto di collaborazione e familiarità con mons. Vallejo Balda. “Persona professionalmente e intensamente dedita alle attività di ‘pubbliche relazioni’, poteva avere un certo titolo per partecipare alle attività della Commissione, soprattutto nel campo dello studio delle attività vaticane di comunicazione”, afferma l’ex direttore della Sala Stampa vaticana.
Tuttavia, “la sua esperienza relativamente limitata (anche a motivo della giovane età) e il suo inserimento professionale ed esistenziale molto attivo nel mondo delle relazioni pubbliche — fra personaggi di genere molto vario del mondo comunicativo, economico, istituzionale ecc. — fa pensare che non fosse la persona indicata per svolgere con la necessaria prudenza ed equilibrio un ruolo importante nel contesto di una Commissione essenzialmente deputata a trattare di argomenti riservati, con disponibilità ampia di dati sensibili e con relazioni di livello molto alto”.
Prosegue padre Federico: “Prescindiamo da ipotesi di oscuri disegni di ampio respiro per infiltrarsi e operare nel mondo vaticano al servizio di interessi esterni, che non sono emerse con sufficiente consistenza nel dibattimento. Per parte nostra, a spiegare il concorso nella diffusione di notizie e documenti riservati basta la naturale contiguità e l’intrinseca relazione fra la dr.ssa Chaouqui e il mondo del giornalismo (in particolare ‘di inchiesta’), una volta che si fossero create condizioni di tensione all’interno della Commissione e del mondo vaticano, come si è effettivamente verificato”.
Nel corso del dibattimento, in particolare nelle deposizioni di alcuni testimoni, purtroppo sono emerse anche situazioni di tensione all’interno dell’ambiente di lavoro del Dicastero della Prefettura degli Affari Economici in concomitanza con i lavori della Cosea. “Situazioni che – sottolinea padre Lombardi – possono verificarsi in vari luoghi e istituzioni per le difficoltà delle relazioni fra le diverse personalità, ma che certamente contribuiscono a peggiorare e complicare i problemi che si vengono a creare in occasione di impegni eccezionali, accentuando forme di diffidenza e di sospetto, di chiusura reciproca, o anche di aperta conflittualità”.  “Lezione marginale, questa, del processo, ma da non dimenticare: un ambiente di lavoro sereno e ordinatamente governato costituisce una premessa importante per prevenire il crescere o l’esplodere di tensioni anomale”.
Infine, “la questione del rapporto con i giornalisti merita anch’essa qualche riflessione”. Dal dibattimento, “è apparsa una prontezza, o addirittura un’iniziativa di mons. Vallejo Balda per trasmetterli o metterli a disposizione. Quindi i giornalisti avrebbero potuto essere assolti anche perché avevano semplicemente fatto ‘il loro mestiere’ di giornalisti d’inchiesta e i loro libri non avevano causato rischi per la sicurezza dello Stato e l’ordine pubblico”.
Ciò non toglie che “la pubblicazione di documenti riservati da parte di chi la attua o la procura avviene praticamente sempre in un clima di tensione interna e con intenzioni che non sono puramente di manifestazione della verità, ma di perseguimento di altri obiettivi, come la pressione a vantaggio di certi interessi, la vendetta per torti veri o presunti subiti, l’affermazione personale o la ricerca di notorietà, talvolta addirittura il ricatto…”.
Insomma, il contesto – evidenzia il portavoce vaticano uscente – “è spesso ambiguo, oscuro o deplorevole e, nel migliore dei casi, si tratta di tendenza incoercibile alla chiacchiera e alla vanità del mostrarsi informati. I giornalisti coinvolti lo sanno benissimo e spesso non disdegnano di profittarne per il loro lavoro”.
All’ambiguità di questa dinamica faceva riferimento anche la requisitoria del Promotore di Giustizia per sostenere l’esistenza di un “concorso” dei giornalisti nel reato. “Se quindi la responsabilità di chi dà l’informazione è certamente maggiore, quella di chi si fa disponibile strumento dell’operazione non è inesistente, anche qualora non sia giuridicamente contestabile. Di questo occorre essere consapevoli”, dice Lombardi. “Se il processo, mettendo chiaramente in luce un caso clamoroso, favorirà una riflessione più generale sulle responsabilità di chi dà informazioni, ma anche su quelle di chi le riceve e le diffonde, sarà un aspetto positivo non del tutto secondario di questa dolorosa vicenda”.

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ZENIT Staff

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