Gli occhi del mondo sono puntati sulla Gran Bretagna. È qui che domani, 23 giugno, si voterà il referendum Brexit, per decidere se restare o meno nell’Unione Europea. “L’esito è dal mio punto di vista certo: vincerà il no all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea”. Il vaticinio è del prof. Stefano Zamagni, economista e docente presso l’Università di Bologna.
Secondo lui la scelta dei cittadini britannici ricadrà sulla soluzione che più conviene, economicamente e politicamente, al proprio Paese. “La Gran Bretagna del resto è la patria dell’utilitarismo”, spiega. È convinto che questo referendum dal risultato scontato sia stato indetto da Londra per minacciare l’Unione Europea affinché essa sia ancora più acquiescente verso le richieste che provengono da Oltremanica.
Tuttavia Zamagni sottolinea che non mancano le ragioni, ai britannici e non solo, per contestare l’Unione Europea. La quale – chiosa – ha disconosciuto le sue radici giudaico-cristiane e “oggi se ne vedono gli effetti”. ZENIT lo ha intervistato alla vigilia dell’atteso referendum.
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Professore, perché è così convinto che domani vincerà il no al Brexit?
Conosco la mentalità del popolo britannico per averci abitato per tanti anni. La loro matrice culturale è l’utilitarismo. Non dimentichiamo che questa filosofia etica trova una formazione compiuta in Inghilterra ed è lì che si inserisce nell’ambito economico. Quando l’utilitarista deve prendere una decisione confronta i vantaggi e gli svantaggi. Nel caso specifico, anche l’inglese che non ha una grande cultura economica ha capito che non è nel suo interesse uscire dall’Unione Europea.
L’uccisione da parte di uno squilibrato della deputata laburista pro-Ue Jo Cox, potrebbe aver inciso sull’esito del referendum?
Secondo me no. L’esito del referendum era scritto già prima di quell’evento tragico, al di là dei risultati di alcuni sondaggi.
E allora perché Londra ha indetto questo referendum?
La risposta affonda sempre nella logica utilitarista. Londra ha fissato questo referendum per pretendere dall’Unione Europea, sulla base di una minaccia, ciò che finora non è ancora riuscita ad ottenere: un secondo round di negoziati, dopo quello del febbraio scorso, finalizzato a riconoscere a Londra tutta una serie di concessioni. E dietro questa minaccia se ne scorge già un’altra: se il secondo round non verrà accordato, la Gran Bretagna potrebbe indire una nuova consultazione popolare, magari già tra un anno, con un esito a quel punto ribaltato. Va anche detto che, nonostante goda già di uno status speciale all’interno dell’Ue, la Gran Bretagna ha diverse ragioni per lamentarsi.
Quali sono queste ragioni?
L’insofferenza dei britannici verso l’Ue è sì di natura economica, ma anche culturale. Conoscendo la sua storia, la Gran Bretagna non accetta di far parte di un consesso, come quello europeo, nel quale prevale una linea politica e culturale – che è quella franco-tedesca – estranea alla propria. Questo si traduce poi nell’economia, nella burocrazia e nelle regole del lavoro. Un esempio: l’economia sociale di mercato, che la Germania si impegnò a far entrare nei Trattati di Maastricht, è sempre stata avversata da Londra. Essa affonda le sue radici nell’ordoliberalismo, apparso appunto in Germania negli anni Trenta e agli antipodi del liberalismo inglese. Ciò detto gli inglesi, che se ne intendono di calcoli economici, sanno benissimo che la loro uscita dall’Ue costerebbe molto di più rispetto alla permanenza, con ricadute sul deficit e sull’occupazione. Perciò ribadisco che l’esito del referendum è scontato.
Non crede tuttavia che i fautori dell’uscita abbiano motivi validi per contestare l’Ue?
Di difetti l’Ue ne ha moltissimi. Uno su tutti: c’è molta burocrazia e poca politica. Finora tutte le più grandi e importanti decisioni, dal Fondo Salva Stati al Fiscal Compact, sono state prese in sede intergovernativa, non comunitaria. Cioè i capi di Governo si sono messi d’accordo scavalcando il Parlamento europeo, malgrado dovrebbe essere l’organo legislativo.
Eppure i fautori del Brexit lamentano proprio, tra le altre cose, che la sovranità nazionale britannica sia stata erosa dall’Unione Europea. Affermano che la metà delle leggi britanniche sono state approvate dall’Ue e che i giudici di Strasburgo regolarmente impongono sentenze, magari contro il volere dei giudici britannici e del Governo…
Fa specie che questa osservazione arrivi dagli inglesi. È lì che nasce il Commonwealth, di cui ancora oggi fanno parte Paesi importanti come il Canada o l’Australia. E poi nell’epoca della globalizzazione, la sovranità nazionale ha perso oltre il 50% del senso che aveva un tempo. Quote di potere nazionali sono state cedute ad entità sovranazionali. Inoltre la Gran Bretagna, come testimonia il suo status speciale all’interno dell’Ue, ha dimostrato di mantenere quella capacità di negoziare che le concede un certo grado di sovranità nazionale.
C’è poi il tema dell’immigrazione. Solo nell’ultimo anno con la libera circolazione sono entrati in Gran Bretagna 250mila immigrati, che vanno a pesare sui servizi pubblici, i trasporti, la sanità…
È possibile che 28 Paesi dell’Unione Europea non siano in grado di accogliere un paio di milioni di persone che fuggono da situazioni difficili? Il vero leader politico è quello che provvede al bene comune, ossia che accontenta i bisogni degli uni e degli altri. Quando non ci sono politiche adeguate, prende corpo l’egoismo individuale. Gli inglesi sono tutt’altro che xenofobi: la loro società è da decenni multiculturale, recentemente a Londra hanno eletto un sindaco pachistano e per giunta musulmano. Ma se in Europa oggi sorgono sentimenti isolazionisti, le cause vanno ricercate nelle firme dei Trattati di Maastricht…
A cosa si riferisce?
Quando furono firmati i Trattati di Maastricht, Giovanni Paolo II si batté come un leone perché venisse accolta la proposta di inserire il riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Purtroppo fu ignorato e adesso ne paghiamo le conseguenze. Infatti oggi l’Europa non ha un’identità morale. Persino gli Stati Uniti, un Paese laico, nella Dichiarazione di Indipendenza del 1776 fanno riferimento a Dio. Il punto è che in Europa è forte l’influenza laicista, che provoca solamente odi, relativismo e guasti talvolta irreparabili.
Secondo Lei i grandi attori dello scacchiere internazionale – Stati Uniti, Cina e Russia – auspicano che la Gran Bretagna resti nell’Unione Europea?
Assolutamente sì. Hanno tutto il vantaggio che l’Unione Europea, che per questi attori internazionali è un mercato interessante, abbia stabilità. Se l’Europa va in crisi, le conseguenze si ripercuoterebbero anche su di loro. Non a caso Barack Obama è intervenuto con una dichiarazione contro il Brexit. Gli Stati Uniti inoltre stanno negoziando il famoso Trattato sul commercio e gli investimenti (Ttip) con l’Europa, per cui sono ancor più coinvolti.
Union Jack and the european flag - Dave Kellam, Wikipedia Commons
"Brexit? Gli inglesi non lo voteranno. Ma l'Europa riscopra le sue radici cristiane…"
Alla vigilia del referendum l’economista Zamagni prevede che Londra non si separerà dall’Ue. Spiega però che l’assenza di un’identità morale europea è causa delle spinte isolazioniste