La Pasqua e il “piccolo bene” a misura di tutti

La bellezza del Figlio è la bellezza dell’eccesso d’amore, la bellezza della carità che spinge il Dio immortale a farsi prigioniero della morte per fare ricchi noi

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Per riflettere su questa Pasqua 2016 parto da alcune riflessioni che Hans Urs von Balthasar, uno dei grandi teologi del XX secolo, ha dedicato al tema della bellezza: “In un mondo senza bellezza – scrive agli inizi del primo volume della sua opera monumentale Gloria – anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto… In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica” (La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1975, 11).
Queste parole danno particolarmente a pensare oggi perché lo scenario del tempo in cui viviamo, quale ci è presentato ogni giorno dai “media” e dalla rete, è talmente doloroso e inquietante da farci avvertire le parole sul bello come una sorta di astrazione dalla realtà o, tutt’al più, come un’evasione consolatoria. Dove sta la bellezza nella barbara violenza terroristica perpetrata in questi giorni a Bruxelles? E dove nelle migliaia di vittime della guerra in Siria o nella follia omicida dell’Isis? Quale bellezza può esserci di fronte alla memoria lacerante di un secolo, come il XX da poco concluso, segnato dalla guerre mondiali, dal genocidio armeno, dalla Shoah e dalle altre innumerevoli stragi prodotte dalla violenza e dall’avidità degli umani? E come parlare di bello davanti alla morte di tredici giovani studentesse nell’incidente avvenuto in Catalogna o alle scellerate polemiche contro migranti e rifugiati che affiorano lì dove dovrebbe esserci solo un convergente sforzo di accoglienza civile, degno dei valori fondanti dell’Europa unita? C’è forse bellezza nello scontro di egoismi nazionalistici verso cui il Vecchio Continente sembra avviarsi sempre più duramente? Eppure, in piena sintonia con von Balthasar, anche a me sembra che nessun’altra parola sia oggi tanto necessaria quanto quest’unica, nobile, fascinosa e terribile parola che è la bellezza. Perché?
I latini dicevano “formosus” ciò che noi chiamiamo bello: l’idea soggiacente era che fosse la “forma”, ovvero l’armonica composizione delle parti, a rendere bello ciò che è bello. Grazie alla proporzione di tutti gli elementi, la forma ben ordinata e composta sembrava poter riprodurre nel frammento la perfezione del Tutto, sì da far riconoscere nell’armonia del piccolo i “numeri del cielo”. Quest’idea di bellezza – intesa appunto come il “tutto nel frammento” per via di analogia nella proporzione dei rapporti – derivava dalla cultura greca classica e continuò a esercitare il suo fascino a lungo, tanto da esser fatta propria da un genio della misura di Agostino: “Le cose sono belle perché le parti sono tra loro simili e, per una sorta di intimo legame, danno luogo a un insieme conveniente” (De vera religione 32,59).
A una tale concezione del bello rischiava tuttavia di sfuggire un aspetto importante: se la bellezza è armonia, che ne è dell’infinita disarmonia del mondo e della vita, dello scandalo del male e del dolore, dell’insulto alla gioia d’esistere, che è pur sempre la morte? Rispondere a queste domande riconoscendo nel negativo soltanto l’ombra rispetto alla luce, ovvero il controcanto rispetto al canto fermo della bellezza, non è soluzione che possa veramente soddisfare. Occorre, allora, volgersi a un’altra bellezza: quella che il latino medioevale imparò a esprimere col termine “bonicellum”, il “piccolo bene” (diminutivo popolare di “bonum”). Da questa parola deriva nelle lingue romanze il termine per esprimere il “bello” (il “beau” francese, il “bonito” spagnolo, il “bello” italiano ed anche il “beautiful” inglese). Che cos’è, dunque, questo “bello” inteso come “piccolo bene”?
È la meditazione cristiana che getta luce su una simile comprensione della bellezza: Tommaso d’Aquino, il genio della Scolastica, parla del bello non a caso parlando del Figlio eterno, del Verbo incarnato, Gesù: “La bellezza ha a che fare con ciò che è proprio del Figlio. Tre cose richiede infatti la bellezza. In primo luogo, l’integrità o perfezione… Quindi, la debita proporzione o armonia. E poi la luminosità… Riguardo all’integrità, essa riguarda ciò che è proprio del Figlio, in quanto il Figlio ha in sé in maniera vera e perfetta la natura del Padre… Riguardo alla proporzione, essa corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è l’immagine espressa del Padre. Di qui si desume che qualunque immagine può dirsi bella, se perfettamente rappresenta l’oggetto… Riguardo alla luminosità, essa corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è il Verbo, luce e splendore dell’intelligenza” (Summa Theologica I q. 39 a. 8c). La bellezza del Figlio incarnato non è, però, quella della “forma”, dell’armonia che tutto concilia: “il più bello dei figli degli uomini”, di cui parla il Salmo 45, è “l’uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la faccia”, come dice il profeta Isaia (53,3).
La bellezza del Figlio è altra da quella della forma e della proporzione: è la bellezza dell’eccesso d’amore, la bellezza della carità che spinge il Dio immortale a farsi prigioniero della morte per fare ricchi noi, a scegliere per sé la forma di schiavo per dare a noi la condizione di figli. Il “piccolo bene” è la bellezza dell’amore crocifisso, del dono di sé fino alla fine. È questa bellezza, che parla dal silenzio della Croce e si esprime nel grido d’abbandono del Venerdì Santo, la sola bellezza che salverà il mondo. È la bellezza di credere nel bene e nell’amore, nonostante tutto e perfino contro tutto. È la bellezza di perdonare il nemico, di porgere l’altra guancia al violento, di dare la vita per l’altro, soprattutto per chi è più debole e più povero e più solo di te. È la bellezza di chi al terrorismo – su scala mondiale, come su scala nazionale – risponde cercando unitariamente la via della giustizia per tutti, piuttosto che la logica della divisione e della contrapposizione violenta. È la bellezza di chi ama anche chi non lo ama.
Di questo “piccolo bene”, di questo bene umile e quotidiano che si perde nella notte del servizio al prossimo, il mondo ha immensamente bisogno. Pasqua è l’annuncio inaudito che questo “bene” a misura di tutti – perché a misura dei piccoli – è la bellezza che salva, donata per amore dall’alto, salvezza che non delude e per cui vale la pena di vivere e impegnarsi. Chi potrà dire che questo “bello” non sia necessario e attuale? E, tuttavia, chi potrà garantire che gli uomini – soprattutto i “grandi” e i “potenti” agli occhi del mondo – siano disposti a seguirlo? L’augurio di Pasqua, di questa Pasqua, è allora che ad accoglierlo e a viverlo siano tanti, per la via dell’umiltà, della fede fiduciosa, dell’amore coraggioso e umile…
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Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 27 marzo 2016, pp. 1 e 19

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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