Il dolore e la misericordia, l’uomo indifferente e il Dio compassionevole. Viaggia su questi due binari l’ottava meditazione di padre Ermes Ronchi pronunciata davanti al Papa e alla Curia Romana, durante il quinto giorno degli Esercizi Spirituali ad Ariccia.
Il padre servita richiama la figura del buon samaritano, elevata da Francesco quale icona del Giubileo straordinario della Misericordia. E da lì spiega al suo uditorio quale comportamento adotta Dio davanti alle lacrime della sua creatura. Comportamento che si sintetizza in tre verbi-chiave: “vedere, fermarsi, toccare”; le tre azioni, cioè, che ogni cristiano è chiamato a compiere accostandosi all’altrui dolore.
La prima scena che Ronchi ritrae è quella della Maddalena che piange angosciata davanti alla pietra rotolata via dal sepolcro dove era riposto il corpo di Cristo. Una voce interrompe il suo dolore: “Donna chi cerchi? Perché piangi?”. Gesù è risorto, annota il predicatore, “è il Dio della vita” e si “interessa delle lacrime” della Maddalena.
“Nell’ultima ora del venerdì – prosegue – sulla Croce si era occupato del dolore e dell’angoscia di un ladro, nella prima ora della Pasqua si occupa del dolore e dell’amore di Maria”. È questo ciò che fa Gesù, “l’uomo degli incontri”: Egli non “cerca mai il peccato di una persona, ma si posa sempre sulla sofferenza e sul bisogno”.
Lui “ogni volta che si commuove, tocca”: tocca anche “l’intoccabile”, un lebbroso, tocca il figlio della vedova di Nain e “viola la legge, fa ciò che non si può: prende il ragazzo morto, lo rialza e lo ridà a sua madre”. “Imparando lo sguardo e i gesti” di Cristo, afferma il religioso, si può capire allora “cosa fare per vedere, capire, toccare e lasciarsi toccare dalle lacrime” degli altri.
Ma anche guardando al buon samaritano che, davanti ad un uomo sofferente, al contrario del sacerdote e del levita, “non passa oltre”, ma si ferma, lo cura, lenisce le sue ferite. “Il samaritano vide ed ebbe compassione – spiega padre Ermes – vide le ferite di quell’uomo, e si sentì ferire”. Questa è la vera differenza: non è “tra cristiani, mussulmani o ebrei”, ma “tra chi crede o chi dice di non credere”. “La vera differenza è tra chi si ferma e chi non si ferma davanti alle ferite, tra chi si ferma e chi tira dritto”.
“Lo sguardo senza cuore produce buio”, aggiunge il servita, “e poi innesca un’operazione ancor più devastante: rischia di trasformare gli invisibili in colpevoli, di trasformare le vittime – i profughi, i migranti, i poveri – in colpevoli e in causa di problemi”.
Invece, “se io ho passato un’ora soltanto ad addossarmi il dolore di una persona, lo conosco di più, sono più sapiente di chi ha letto tutti i libri. Sono sapiente della vita”, afferma Ronchi. Sono un vero discepolo, uno che “si interroga sulle cause” delle cose: sulla fame che “ha un perché”, sui migranti che “hanno dietro montagne di perché”, sui “tumori della terra dei fuochi” che “hanno un perché”.
E se mi interrogo su tutto questo, se “vedo” tutto questo, “mi fermo e tocco”. “Se asciugo una lacrima, io lo so, non cambio il mondo – sottolinea il predicatore – non cambio le strutture dell’iniquità, ma ho inoculato l’idea che la fame non è invincibile, che le lacrime degli altri hanno dei diritti su ciascuno e su di me, che io non abbandono alla deriva chi ha bisogno, che tu non sei gettato via, che la condivisione è la forma più propria dell’umano”.
Di qui l’invito ad “essere presenza là dove si piange e poi cercare insieme come giungere alle radici del male e strapparle”. Perché “la misericordia è un fatto di grembo e di mani. E Dio perdona così: non con un documento, con le mani, un tocco, una carezza”.
Proprio sul perdono di Dio, “amore autentico” che incalza l’uomo a divenire “il meglio di ciò che può diventare”, si è incentrata invece la meditazione di ieri pomeriggio, la numero sette. Anche in essa, padre Ermes Ronchi richiama diverse scene evangeliche per approfondire la sua predicazione. In questo caso è il momento in cui Gesù si rivolge all’adultera perdonata e dice: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”.
“Chi ama accusare, inebriandosi dei difetti altrui crede di salvare la verità lapidando coloro che sbagliano”, esordisce padre Ronchi. Ma è così che nascono le guerre, è così che si generano conflitti “tra nazioni, ma anche nelle istituzioni ecclesiastiche, nei conventi, negli uffici” dove tutto – regole, costituzioni, decreti – diventano sassi “per lapidare qualcuno”.
La donna adultera “rappresenta tutti”, e in ogni epoca ci sono dei farisei che mettono il peccato “al centro del rapporto con Dio”, “mettono Dio contro l’uomo”. Questa è “la tragedia del fondamentalismo religioso”, osserva il padre Servita. E incalza: “La Bibbia non è un feticcio o un totem”, ma esige “intelligenza e cuore”; mentre il Signore “non sopporta ipocriti, quelli dalle maschere, dal cuore doppio, i commedianti della fede e non sopporta accusatori e giudici”.
Cuore del cristianesimo è infatti l’abbraccio tra Dio e l’uomo: “materia e spirito si abbracciano”, “non si oppongono più”. La malattia che Gesù combatte maggiormente è proprio “il cuore di pietra” degli ipocriti: “Violare un corpo, colpevole o innocente, con le pietre o con il potere, è la negazione di Dio che in quella persona vive”.
Il giudizio contro l’adultera diventa, in tale ottica, “un boomerang contro l’ipocrisia dei giudici”. Come scriveva Sant’Ambrogio: “Dove c’è misericordia lì c’è Dio; dove c’è rigore e severità forse ci sono i ministri di Dio ma Dio non c’è”. E infatti Cristo assume un comportamento del tutto straordinario dinanzi all’adultera: si alza “come ci si alza davanti ad una persona attesa e importante”; si alza per esserle più vicino, nella prossimità, e le parla, cosa che nessuno aveva fatto prima.
Gesù entra nell’intimo di quell’anima, ne coglie “la fragilità”. Ed è proprio “la cura dei fragili, la cura degli ultimi, dei portatori di handicap e l’attenzione alle pietre scartate che indica il grado di civiltà di un popolo, non le gesta dei forti e dei potenti”, rammenta padre Ronchi.
Gesù, aggiunge, offre il suo perdono “senza condizioni, senza clausole, senza contropartite”. Egli spezza la “catena malefica” legata all’idea di “un Dio che condanna e si vendica, giustificando la violenza”. Cristo compie “una rivoluzione radicale”, rovesciando l’immagine di un Dio “sopra di tutti un Dio giudice e punitore” con “un Dio nudo, in croce, che perdona, sarà il gesto sconvolgente e necessario per disinnescare la miccia delle infinite bombe sulle quali è seduta l’umanità”:
Gesù “spalanca il futuro” e mostra che non esiste solo “il Dio onnipotente”, “ma l’Abbà onni-amante”. “Non più il dito puntato, ma quello che scrive sulla pietra del cuore: io ti amo”.