African lion

Pixabay CC0

Dal mondo a Dio (Quarta parte)

Dire Dio

Share this Entry

Parliamo di Dio a partire dal mondo, il quale, come abbiamo visto[1], ha l’essere da Dio, cioè partecipa dell’essere di Dio e la creazione consiste propriamente nella donazione continua dell’essere al mondo da parte di Dio. Se Dio “si addormentasse” il mondo non esisterebbe più.

Il nostro linguaggio è nato per nominare le cose del mondo ed è quindi evidente che parlare del Creatore usando il linguaggio delle creature è estremamente problematico, c’è sempre infatti il rischio di antropoformizzare Dio.

Dio è sempre al di là di tutto ciò che possiamo pensare e dire di Lui; è infatti il Mistero assoluto, inafferrabile con il nostro intelletto e indicibile con le nostre parole. San Tommaso era ben consapevole di tutto ciò quando affermava che “di Dio non possiamo sapere che cosa è, ma piuttosto che cosa non è, di conseguenza non possiamo indagare come egli sia, ma piuttosto come non sia”[2].

Il Filosofo è d’accordo con Sant’Agostino nell’affermare l’ineffabilità di Dio, infatti quest’ultimo afferma, in maniera più esplicita di San Tommaso:

“Dio è ineffabile, più facilmente diciamo ciò che non è, anziché ciò che è. Pensi alla terra: Dio non è questo! Pensi al mare: Dio non è questo! Pensi a tutte le cose che sono sulla terra, agli uomini e agli animali: Dio non è questo! A tutte le cose che sono in mare o che volano in aria: Dio non è questo! A ciò che splende nel cielo, le stelle, il sole, la luna: Dio non è questo! Pensi al cielo: Dio non è questo! Pensi agli angeli, alle virtù, alle potestà, agli arcangeli, ai troni, alle sedi, alle dominazioni: Dio non è questo! E che cosa è? Questo solo ho potuto dire: ciò che non è. Mi chiedi che cosa è? Ciò che occhio non ha visto, né orecchio ha udito, né è penetrato nel cuore dell’uomo”[3].

<p>Dio non lo possiamo ridurre nei limiti del nostro intelletto e del nostro linguaggio ed è piuttosto il silenzio, cioè l’assenza di parola, che permette di avvicinarsi al mistero di Dio, perché, scrive San Tommaso, “[…] Dio rimane avvolto nell’oscura notte dell’ignoranza ed è in questa ignoranza che noi ci avviciniamo a Dio durante la nostra vita […]. Infatti in questa fitta nebbia abita Dio”[4].

L’ineffabilità di Dio è il fondamento di una teologia negativa, che non deve essere confusa con quella dei Neoplatonici, secondo i quali il pensiero umano è assolutamente incapace di conoscere e di dire qualsiasi cosa riguardo a Dio.

San Tommaso si è posto il problema “ se a Dio convenga un nome”[5] e ha trovato una risposta facendo riferimento all’analisi del linguaggio che Aristotele svolge nel De interpretatione. In questo testo il filosofo greco parla della referenza del linguaggio nei confronti della realtà tramite i concetti, per cui i nomi che diamo alle cose reali esprimono la conoscenza concettuale che ne abbiamo.

Scrive San Tommaso:

“Come dice Aristotele, le parole sono segni dei concetti, e i concetti sono immagini delle cose. E così appare chiaro che le parole si riferiscono alle cose indicate, mediante il concetto della mente. Per cui noi possiamo nominare una cosa a seconda della conoscenza intellettuale che ne abbiamo”[6].

Dio, prosegue il Filosofo, è conosciuto da noi non direttamente nella sua essenza, ma mediante le creature, tramite le quali si risale al Creatore[7], “conseguentemente può essere nominato da noi [con termini desunti] dalle creature; non però in maniera tale che il nome da cui è indicato esprima l’essenza di Dio quale essa è allo stesso modo in cui il termine uomo esprime nel suo significato proprio la natura dell’uomo [quale essa è]; poiché questo termine ci dà dell’uomo la definizione, che ne esprime l’essenza: infatti l’idea espressa dal nome è la definizione”[8].

Non possiamo conoscere univocamente Dio, cioè nella sua essenza, come conosciamo l’essere umano o qualsiasi ente del mondo, “ma nemmeno – scrive San Tommaso – in senso del tutto equivoco, come alcuni hanno affermato. Poiché in tal modo nulla si potrebbe conoscere o dimostrare intorno a Dio partendo dalle creature, ma si cadrebbe continuamente nel sofisma chiamato equivocazione”[9].

Il Filosofo conclude la sua riflessione sostenendo che “tali termini vengono affermati di Dio e delle creature in modo analogico, cioè proporzionale”[10].

Dio può essere conosciuto e detto positivamente tramite concetti e parole che sono analogicamente comuni al Creatore e alle creature.

L’analogia consente la conoscenza di Dio e la possibilità di parlarne, ma è necessario precisare che i concetti e i termini utilizzati sono sempre imperfetti perché, come afferma Mondin: “L’analogia non va intesa come ingenua somiglianza tra Dio e la creature, bensì […] come minima somiglianza là dove regna l’infinita differenza qualitativa che separa Dio dalle creature”[11]

San Tommaso esplicita il concetto di analogia, raffrontandolo con quelli di univocità e equivocità.

Scrive:

“Si deve sapere che un termine si può predicare di molte cose in tre modi: univocamente, equivocamente e analogicamente.

Si predica univocamente quando si ha identità di nome e di concetto ossia di definizione, come quando si predica «animale» dell’uomo e dell’asino. L’uno e l’altro sono infatti animali, cioè sostanze animate sensibili, che è la definizione di animale.

Si predica equivocamente, quando il nome è lo stesso ma il concetto è diverso […].

Si dice infine che un termine si predica analogicamente se si predica di molte cose i cui concetti e definizioni sono diversi ma si riferiscono a una stessa realtà. Per esempio, «sano» si dice del corpo animale, dell’urina e della bevanda, ma non secondo un significato completamente identico in tutti e tre i casi”[12].

Questo tipo di analogia, che si ritrova anche in Aristotele, è detta “analogia di attribuzione” perché uno stesso termine “sano” è “detto in molti modi” a seconda che venga attribuito a una realtà “corpo umano” o ad un’altra “urina”, “bevanda”.

Aristotele faceva l’esempio del termine “medico”, che “ si dice sia di una nozione, sia di un bisturi, in quanto la prima deriva dalla scienza medica, mentre l’altro serve alla medesima”[13].

Gli esempi sopra riportati sono esplicativi dell’”analogia di attribuzione estrinseca”, secondo la quale, scrive Pangallo:

“La perfezione predicata propriamente appartiene solo all’analogato principale e non agli altri analogati; per es. se dico «Antonio è sano», «la dieta di Antonio è sana», «l’orina di Antonio è sana», la perfezione della salute appartiene solo ad Antonio, perché la dieta e l’orina per sé non sono sane, ma si dicono sane in riferimento alla sanità di Antonio”[14].

E’ evidente che in questo tipo di analogia la perfezione predicata (la salute) appartiene prioritariamente ed esclusivamente all’analogato princip
ale (la sanità di Antonio) e “questo tipo di analogia non può essere usata per i nomi divini, perché non attribuisce in modo proprio le perfezioni alle creature, che sarebbero soltanto mere apparenze”[15].

Si deve quindi ricorrere a un diverso linguaggio, cioè all’”analogia di attribuzione intrinseca”, secondo la quale la perfezione predicata appartiene prioritariamente ma non esclusivamente all’analogato principale, per cui si può affermare che Dio è ente (ciò che è) analogamente al mondo, perché anche esso è ente: l’analogato principale è Dio perché l’essere appartiene perfettamente e ed eminentemente a Dio, in quanto Egli è l’Essere, ma non gli appartiene esclusivamente perché anche il mondo ha l’essere.

Dio (l’analogato principale) è l’ente, la cui entità si risolve nell’Essere, e il mondo (l’analogato secondario) è l’ente che ha l’essere per partecipazione, quindi dipende radicalmente da Dio. Questo rapporto di dipendenza dell’analogato secondario da quello principale è un rapporto causale, per cui Dio è la causa dell’effetto-mondo.

Dio, essendo la causa del mondo, “produce” qualcosa di simile a sé (omne agens agit simile sibi), esistono quindi delle similitudini tra le perfezioni che si riscontrano nel mondo e le perfezioni divine, per cui dalle prime si può risalire alle seconde. Occorre però precisare che c’è un’infinita differenza qualitativa tra le perfezioni divine e quelle mondane, e si deve sottolineare che queste ultime sono le perfezioni “semplici” (realtà, unità, verità, bontà, bellezza ecc.) e non quelle “miste” che implicano la materia, perché, come vedremo, Dio è immateriale.

Uno stesso termine può essere attribuito a più enti proporzionatamente alla loro essenza; è questo il caso dell’”analogia di proporzione propria”. Ad esempio:

“Se dico: Dio è vivente, l’uomo è vivente, il cane è vivente, la rosa è vivente, attribuisco la perfezione della vita a tutti questi soggetti, ma a ciascuno in modo proporzionato alla loro natura, cosicché la vita sta a Dio secondo un rapporto infinito, perché la natura di Dio è perfettissima; e sta all’uomo e al cane secondo rapporti il cui grado di perfezione è determinato dalla natura di ciascuno: in tale senso l’uomo ha una vita naturalmente più perfetta del cane e il cane ha una vita naturalmente più perfetta della rosa”[16].

Pangallo rileva che per parlare di Dio si devono utilizzare ambedue i tipi di analogia, quella di proporzionalità propria e quella di attribuzione intrinseca; nel primo caso dirò che Dio “è infinitamente buono, la sua bontà è infinitamente superiore a quelle di tutti gli enti buoni” e nel secondo caso dirò che “Dio è la stessa Bontà, cosicché la bontà di tutto ciò che esiste deriva dalla Bontà divina per partecipazione”[17].

E’ evidente che soltanto l’analogia di attribuzione intrinseca rende ragione del rapporto di dipendenza causale tra Dio e il mondo, tra Creatore e creatura.

Si può parlare di Dio anche con espressioni metaforiche. San Tommaso applica a Dio il termine “leone”, specificando che “vuole dire solo questo: che Dio nelle sue opere si comporta fortemente come il leone nelle sue”[18].

Quest’ultimo è un caso di utilizzazione dell’”analogia di proporzionalità metaforica”, nella quale non esiste un nesso reale tra gli analogati, ma la relazione viene loro attribuita dal soggetto interpretante rispettando dei caratteri che sono loro propri (esempio: Dio si comporta fortemente come il leone). 

In sintesi.

Dio si può dire negativamente, perché di Lui “non possiamo sapere che cosa è, ma piuttosto che cosa non è” o positivamente con un linguaggio analogico, risalendo dalle creature al Creatore[19].

La quinta parte segue sabato 26 dicembre. La terza parte è stata pubblicata sabato 12 dicembre.

*

NOTE

[1] Vedi articolo Dal mondo a Dio. Dio: il Donatore dell’essere del mondo.

[2] San Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I, q. 3, introduzione.

[3] Agostino, Esposizione sui Salmi, 85, 8(12). 

[4] San Tommaso d’Aquino, I libro del Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, d.8, q. 1, a. 1, ad 4.

[5] Idem, Somma Teologica, I, q. 13, a. 1.

[6] Ibidem.

[7] Cfr. ibidem

[8] Ibidem.

[9] Ibidem, I, q. 13, a. 5.

[10] Ibidem.

[11] B. Mondin, Tommaso d’Aquino. Teologo  Filosofo  Esegeta, Veant, Roma 2011, p. 52.

[12] San Tommaso d’Aquino, De principiis naturae, c. 6.

[13] Aristotele, Metafisica, XI, 1061 a 5.

[14] M. Pangallo, Il Creatore del mondo. Breve trattato di teologia filosofica, Leonardo da Vinci, S. Marinella (Roma) 2004, p. 211.

Riguardo al discorso analogico Pangallo scrive:

“Tommaso non è chiarissimo sul tema dell’analogia: anzitutto manca un’opera esclusivamente dedicata al problema, e comunque non si trova una trattazione sistematica in proposito. Inoltre l’Aquinate si serve di una terminologia piuttosto variegata, e raramente usa il termine «analogia»: troviamo invece termini quali proportio, similitudo, communitas, convenientia, praedicatio secundum prius et posterius.

Vista la complessità della questione nelle opere di Tommaso, […] ritengo adeguata la suddivisione proposta da Suarez dell’analogia in analogia di attribuzione intrinseca, analogia di attribuzione estrinseca, analogia di proporzionalità propria, analogia di proporzionalità metaforica” (ibidem, p. 210).

[15] Ibidem.

[16] Ibidem, p. 212.

[17] Ibidem.

[18] San Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I, q. 13, a. 6.

[19] Il discorso analogico, secondo Sant’Agostino, si attua secondo tre “vie”: affermativa, negativa, eminenziale.

Via affirmationis o causalitatis: Dio possiede tutte le perfezioni delle cose create, perché la causa precontiene l’effetto. In Dio ci devono essere tutte le perfezioni delle creature (la vita, l’intelligenza, l’amore, la libertà, ecc.), perché da Lui le hanno ricevute e nessuno può dare ciò che non ha
.

Via negationis o remotionis: negando che il modo (modus significandi) di questo possesso sia uguale a quello delle creature, perché altrimenti Dio verrebbe coinvolto negli aspetti di relatività presenti nel mondo: bisogna purificare queste perfezioni, rimovendone le imperfezioni, per attribuirle a Dio nella loro assoluta purezza. Così viene eliminato ogni rischio di antropoformismo.

Via eminentiae: Conosciamo che in Dio, Essere infinito, le perfezioni delle creature devono trovarsi non solo senza imperfezioni, ma anche senza limiti, in modo quindi infinitamente o eminentemente superiore (cfr. G. Barzaghi, Dio e ragione, cit., pp. 139-143).

Share this Entry

Maurizio Moscone

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione