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Dal mondo a Dio (Terza parte)

Dio non è un ente: l’equivoco di Heidegger

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Secondo Heidegger nell’intera storia della metafisica il senso dell’essere è stato “obliato”, fino al punto che “il problema dell’essere è oggi dimenticato”[1].

Secondo il filosofo, il fatto che “il senso dell’essere continua a essere avvolto nell’oscurità, attesta la necessità fondamentale di una ripetizione del problema del senso dell’«essere»”[2].

Questo problema non potrebbe, però, essere ripensato ricorrendo alla metafisica perché essa lo avrebbe banalizzato, riducendo l’essere al concetto “più generale di tutti”, “indefinibile” e “ovvio”.

Secondo la metafisica, “quello di «essere» è il concetto «più generale di tutti»”[3] e il filosofo precisa che “la «generalità» dell’«essere» non è quella del genere[4], perché l’essere propriamente è non un genere, ma un trascendentale, che, come abbiamo visto precedentemente[5], si applica ad ogni realtà, perché trascende ogni genere di realtà, cioè le categorie descritte da Aristotele e da San Tommaso: sostanza, quantità, qualità, relazione, azione (produrre), passione (subire), quando o tempo, dove o luogo, sito (le circostanze del luogo), abito (l’essere rivestito).

Scrive infatti in proposito:

“La «generalità» dell’essere oltrepassa ogni generalità del tipo dei generi. L’«essere», secondo la denominazione dell’ontologia medioevale, è un trascendens[6].

Heidegger riconosce che è stato Aristotele, per primo, a impostare il discorso ontologico sul piano trascendentale e “con questa scoperta ha posto il problema dell’essere su una base fondamentalmente nuova[7].

Il filosofo continua la sua analisi sostenendo che, considerare l’essere come trascendentale, non chiarisce il rapporto esistente tra le diverse categorie della realtà.

Scrive infatti:

“Non si può dire che egli [Aristotele] abbia anche illuminato l’oscurità di queste connessioni categoriali”[8].

Il filosofo termina la sua riflessione sul concetto di essere inteso come trascendentale scrivendo:

“Dunque affermare che quello di «essere» è il più generale dei concetti, non equivale a dire che è anche il più chiaro e non richiede alcuna ulteriore discussione. Il concetto di «essere» è anzi il più oscuro di tutti”[9].

Il concetto di essere, essendo un trascendentale, è indefinibile, poiché la definizione è costituita da un genere prossimo e da una differenza specifica (ad esempio, l’essere umano è definito dal genere prossimo animale e dalla differenza specifica razionale), ma il concetto di essere non è né un genere né una specie perché li trascende entrambi (il genere è essere, la specie è essere).

Scrive infatti:

“Il concetto di «essere» è indefinibile. Questo carattere viene dedotto dalla sua estrema generalità. E ciò a buon diritto, se definitio fit per genus proximum et differentiam specificam[10].

Secondo Heidegger, “l’indefinibilità dell’essere non dispensa dal problema del suo senso, ma, al contrario lo rende necessario”[11].

Il concetto di essere, tramandato dalla metafisica, oltre ad essere “il più generale di tutti e indefinibile”, è anche “ovvio”[12].

Scrive:

“In ogni conoscere, in ogni asserzione, in ogni comportamento [che ci pone in rapporto] con l’ente, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con noi stessi si fa uso di essere, e l’espressione è senz’altro comprensibile. Tutti comprendono che cosa significhi: «Il cielo è azzurro», «Sono contento» e così via”[13].

La metafisica, come tale, avrebbe affrontato il problema dell’essere, muovendo dai tre pregiudizi sopra esposti: il concetto di essere è “il più generale di tutti”, indefinibile” e “ovvio”[14]. Conseguentemente, secondo Heidegger il problema del senso dell’essere dovrebbe essere impostato ex novo, perché nella metafisica “non solo manca la soluzione, ma […] il problema stesso è oscuro e privo di guida”[15].

E’ interessante notare che il filosofo tomista Dezza, all’inizio del suo compendio di metafisica, tratta del concetto di essere in modo identico a quanto affermato da Heidegger.

Dezza scrive:

“Il concetto di essere o ente o cosa è il primo che sorge nella mente dell’uomo e che perciò ogni uomo possiede. Vano è quindi cercarne una definizione o una dichiarazione; infatti non è possibile una vera definizione per mezzo del genere e della differenza specifica (come definiamo l’uomo animale ragionevole) perché la nozione di essere è la suprema e più universale di tutte e non ha sopra di sé alcun genere o differenza […]”[16].

Il filosofo usa come equivalenti il termine essere e ente, come spesso si usa fare nei testi di metafisica.

A volte questa terminologia può creare problemi di comprensione; è forse preferibile usare il termine “ente” in riferimento alle cose reali e il termine essere all’atto di essere (cioè all’ esistenza) delle cose.

Dezza, all’inizio della sua trattazione filosofica, descrive le caratteristiche dell’”ente comune” che costituisce il punto di partenza dell’analisi metafisica della realtà[17], ma che non è assolutamente da confondere con Essere per se sussistente, la cui esistenza e natura è conosciuta al termine del percorso filosofico, ed è Essere per essenza e causa di ogni ente.

Scrive in proposito Mondin:

“Dell’essere, come ripete spesso San Tommaso, si possono dare due concetti: il primo lo chiama esse commune; il secondo lo chiama esse absolutum oppure esse divinum. Il primo è il più esteso di tutti i concetti e per questo non cade dentro i confini di nessun genere, ma è poverissimo di contenuto, in quanto non include ma prescinde da tutte le perfezioni […]. Invece il secondo è ricchissimo di contenuto, perché abbraccia tutte le perfezioni: «Fra tutte le cose l’essere è la più perfetta» (De Pot., q. 7, a. 2, ad 9); «L’essere è l’attualità di ogni atto e quindi la perfezione di ogni perfezione» (ibidem). Dei due concetti, quello generico costituisce il punto di partenza della metafisica ma non può costituire il suo oggetto adeguato. Infatti con il concetto comune di essere non è possibile fornire nessuna spiegazione della realtà. E se un filosofo non possiede il concetto intensivo allora per spiegare la realtà ricorre ad altri concetti […]. Invece San Tommaso insiste sull’essere, perché fuori dell’essere non si può trovare che il nulla. E così raggiunge un nuovo concetto di essere, un concetto infinitamente più ricco, il concetto dell’essere assoluto, e lo assume come oggetto adeguato della
sua metafisica, che diventa pertanto la metafisica dell’essere per eccellenza”[18].

Heidegger ha frainteso il senso che l’essere assume nel pensiero di San Tommaso, riducendo tutta la ricchezza del concetto di Essere con quello di ente comune che “è poverissimo di contenuto”, e, sulla base di questo equivoco ha accusato la sua filosofia, come tutta la metafisica, di essere una “ontoteologia”, di avere cioè considerato Dio come un ente tra gli enti, perché “la metafisica – scrive il filosofo – non solo non pone la questione della verità dell’Essere, ma, anzi, la impedisce in quanto persevera nell’oblio dell’Essere”[19].

La critica di Heidegger alla metafisica, e in particolare a quella di San Tommaso, è infondata ed è stata, però, acriticamente accettata da buona parte dei filosofi e dei teologi che insegnano non soltanto nelle facoltà statali, ma anche in quelle pontificie.

(La quarta puntata segue sabato 19 dicembre. La seconda parte è stata pubblicata sabato 5 dicembre 2015)

*

NOTE

[1] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 17.

[2] Ibidem, p. 19.

[3] Ibidem, p. 18.

[4] Ibidem.

[5] Vedi articolo La metafisica aristotelico-tomistica. Ente come trascendentale.

[6] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 18.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem, pp. 18-19.

[11] Ibidem, p. 19.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] Cfr. ibidem.

[15] Ibidem.

[16] P. Dezza, Filosofia. Sintesi scolastica, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1988, VIII ed., p. 65. Il corsivo è mio.

[17] Cfr. ibidem, pp.65-69.

[18] B. Mondin, Dizionario dei teologi, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, pp. 629-630.

[19] M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Idem, Che cos’è la metafisica (con estratti della Lettera sull’Umanesimo”) , La nuova Italia, Firenze 1965, p. 112.

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Maurizio Moscone

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