Il libero mercato si regge su tre istituzioni fondamentali: la proprietà privata piena ed inviolabile, la libertà di iniziativa economica, e la cosiddetta rule of law, ovvero, il principio di legalità e di primato della legge. Allo stato può essere lasciato il compito di assicurare che non venga violata la proprietà e di garantire il rispetto di quanto previsto nei contratti. L’assenza di queste regole determina, infatti, il mancato sviluppo di un mercato alla luce del sole e spinge l’attività economica verso il sommerso. Ma se il primo ed il secondo principio fanno parte, oramai, della generale conoscenza riguardo alle regole del libero mercato, fatica ancora a comprendersi il principio del rule of law, in quanto appare idea condivisa quella del mercato come far west.
Cos’è, allora, esattamente la rule of law e in che modo essa va interpretata o, meglio, in che modo si determina quale siano le regole giuste? Nella sostanza la rule of law prevede un generale principio di legalità, per cui gli individui sono liberi e soggetti solo alla legge, la quale ha il solo fine di evitare che l’uso delle libertà individuali venga fatto a scapito di quella altrui e che l’inosservanza della legge venga punita, ovvero, in altre parole, che sia effettiva, e garantire il principio del primato della legge, ovvero, che chiunque rivesta un potere è, esso stesso, soggetto alla legge. Il potere, pertanto, non può essere esercitato in modo arbitrario e nemmeno lo Stato può porsi al di sopra della legge.
Va allora, in primo luogo ricordato che la stessa teoria economica ha individuato non pochi limiti alla mano invisibile. Innanzitutto, non tutti i beni possono essere comprati e venduti! Tale fatto basta da solo a rendere, di per sé, evidentemente necessaria una regolamentazione esterna al mercato, che ne stabilisca il valore nella gerarchia delle norme.
Vi sono poi degli effetti non voluti su soggetti estranei al rapporto contrattuale (le cosiddette “esternalità”) che, tuttavia, richiedono un intervento almeno risarcitorio per gli effetti indesiderati nel caso di esternalità negative, ovvero, dei premi compensativi alle parti in contratto. Inoltre, la libera iniziativa potrebbe non investire (o sottoinvestire) in attività che generano ritorni per la collettività, ovvero, addirittura non essere interessata allo sviluppo di alcuni mercati, perché sarebbe troppo rischioso investirvi, anche quando gli investimenti fatti permetterebbero di creare ingente plusvalore.
C’è poi un discorso importante da fare, spesso dimenticato dai più. La libera iniziativa genera efficienza ma non equità distributiva, anzi è dimostrato che in mancanza di correttivi, tende a perpetuare ed amplificare le diseguaglianze. Una società diseguale alla fine colpisce anche lo sviluppo della società stessa, il che, detto in altri termini, vuol dire che il mercato permette ad alcuni di approfittare della posizione di debolezza di altri finendo per impoverire se stesso.
Di fronte ai non dimenticati fallimenti del mercato, viene spontaneo invocare la presenza di regole nell’economia e di istituzioni capaci di produrre le giuste regole e di gestirle, istituzioni che fanno comunque capo allo Stato.
Tuttavia, anche lo Stato non è immune da fallimenti. Innanzitutto, il bene comune non è definibile a priori, essendo esso stesso definito solo attraverso il procedimento politico, a sua volta per sua natura imperfetto. La decisione politica, infatti, è distorta, sia nei regimi oligarchici che in quelli democratici, dagli interessi particolari di cui la corruzione, le pressioni lobbistiche ed il voto di scambio costituiscono solo alcune delle evidenze più note.
C’è, inoltre, un problema legato all’efficacia dell’intervento pubblico. La domanda di beni pubblici, infatti, dovrebbe essere rilevata in modo sincero durante il voto. È cosa nota, invece, che anche il meccanismo elettorale determina dubbi ed incertezze, anche in presenza di un risultato elettorale chiaro, in termini di voti espressi su una forza politica. Per altro verso, ammesso anche che il partito risultato egemone abbia chiarezza sugli obiettivi da perseguire, gli studi condotti hanno dimostrato, che gli individui possono imparare ad adattarsi alla presenza dello Stato, anticipandone le mosse ed adottando le opportune contromosse, rendendo in definitiva inefficace l’azione pubblica.
Dunque, il problema diventa quello di stabilire in primo luogo quali siano le regole giuste e quali, invece, le regole sbagliate e, quindi, di come farle rispettare.
Va premesso che le regole giuste si formano nel corso di un lento processo, che prevede le fasi di prova ed errore. In questo processo devono, tuttavia, essere tenuti bene a mente due principi fondamentali: le regole vanno fondate sull’interazione tra chi fa le regole, chi le deve rispettare (in particolare, i cittadini e le imprese) ed anche tra chi deve farle applicare, contro chi non le rispetta. Se manca anche uno solo dei passaggi sopra riportati, la regola, di per sé, non è una buona regola.
Il circuito tra chi fa le regole, chi è tenuto a rispettarle, e chi è obbligato a vigilarle costituisce, a mio parere, l’essenza del corretto funzionamento tra il cittadino e le istituzioni e, tra queste, lo Stato.
Inoltre, per la corretta valutazione delle regole è imprescindibile che venga assicurato il rispetto delle stesse. Solo allora, infatti, si potrà valutare se le regole date funzionano o se vanno cambiate. Infatti, se manca la prova, resta solo l’errore ed il mancato rispetto delle regole genera l’aspettativa che queste non saranno mai rispettate. Ma perché succede questo?
Nel 1969, presso l’Università di Stanford (USA), il professor Philip Zimbardo ha condotto un esperimento di psicologia sociale. Lasciò due automobili identiche (stessa marca, modello e colore), una abbandonata nel Bronx, quindi una zona povera e problematica di New York, l’altra a Palo Alto, una zona ricca e tranquilla della California. Si è scoperto che l’automobile abbandonata nel Bronx ha cominciato ad essere smantellata in poche ore. Ha perso le ruote, il motore, specchi, la radio, eccetera . Tutti i materiali che potevano essere utilizzati sono stati presi, e quelli non utilizzabili sono stati distrutti. Dall’altra parte , l’automobile abbandonata a Palo Alto, è rimasta intatta. È comune attribuire le cause del crimine alla povertà. Tuttavia, l’esperimento in questione non finì lì: quando la vettura abbandonata nel Bronx fu demolita e quella a Palo Alto dopo una settimana era ancora illesa, i ricercatori decisero di rompere un vetro della vettura a Palo Alto, California. Il risultato fu che scoppiò lo stesso processo verificatosi nel Bronx: furto, violenza e vandalismo ridussero il veicolo nello stesso stato del suo ‘gemello’ del Bronx. Perché il vetro rotto in una macchina abbandonata in un quartiere presumibilmente sicuro è in grado di provocare un processo criminale? Non è, evidentemente, la povertà ma qualcos’altro. Un vetro rotto in un’auto abbandonata trasmette un senso di deterioramento, di disinteresse, di noncuranza, sensazioni di rottura dei codici di convivenza, di assenza di norme, di regole, in altre parole che tutto sia inutile. Ogni nuovo attacco subito dall’auto ribadisce e moltiplicare quell’idea, fino all’escalation di atti, sempre peggiori, incontrollabili, col risultato finale di una violenza irrazionale. In esperimenti successivi James Q. Wilson e George Kelling hanno sviluppato la “teoria delle finestre rotte”, con la stessa conclusione da un punto di vista criminologico, ovvero che la criminalità è più alta nelle aree dove l’incuria, la sporcizia, il disordine e l’abuso sono più alti.
Nella sostanza, quindi, le regole ed il rispetto di quest’ultime sono alla base del corretto funzionamento del mercato, secondo la logica che, se tutti le rispettano, si alime
ntano la fiducia reciproca ed i meccanismi d’informazione che riducono o eliminano i costi di transazione. Ma è un meccanismo precario che necessita della pena certa per chi eventualmente volesse infrangerle. Infatti è vero che, in un contesto in cui tutti si trovino a rispettare le regole date, il primo che non le rispettasse, si troverà a massimizza il suo pay off, generando – per via della competizione tra soggetti – il non rispetto comune delle regole.