Non un “documento magisteriale” e nemmeno un “insegnamento dottrinale della Chiesa Cattolica” ma semplicemente una riflessione per dare una chiave di lettura sulle relazioni catto-ebraiche, a cinquant’anni dalla promulgazione della dichiarazione conciliare Nostra Aetate.
Nel nuovo documento Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29), a cura della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, si analizzano in modo particolare le “questioni teologiche” e si sottolineano i notevoli progressi compiuti nell’ultimo mezzo secolo nei rapporti tra le due religioni.
Nel suo primo paragrafo, il nuovo documento prede atto di come, prima del Concilio Vaticano II sussistevano “grandi riserve da entrambe le parti, anche perché la storia del cristianesimo è stata vista come segnata da discriminazioni nei confronti dell’ebraismo e persino da tentativi di conversione coatta (cfr. Evangelii gaudium, n° 248)”.
Fu soprattutto la tragedia della Shoah nazista a indurre la Chiesa a “riflettere nuovamente sul suo legame con il popolo ebraico”, cosicché, anche alla luce del ‘disgelo’ prodotto dalla Nostra Aetate, con il suo “apprezzamento di fondo” nei confronti dell’ebraismo, le due religioni sono reciprocamente diventate “partner affidabili” e, in seguito “buoni amici”.
La “separazione tra Sinagoga e Chiesa”, si legge nel documento, “va considerata come la prima frattura, quella più densa di conseguenze, all’interno del popolo eletto”.
Alla Nostra Aetate, seguirono nel 1974 un documento di “orientamenti e suggerimenti” per l’applicazione della dichiarazione stessa, con particolari riferimenti alla “matrice ebraica” della liturgia cristiana e la menzione di “nuove possibilità di avvicinamento nel campo dell’insegnamento, dell’istruzione e della formazione”, proponendo infine “attività comuni nell’ambito sociale”.
Il secondo documento interpretativo, intitolato Circa una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica fu pubblicato nel 1985: con un “orientamento teologico-esegetico”, esso delinea “le radici ebraiche della fede cristiana, illustra il modo in cui gli ebrei sono presentati nel Nuovo Testamento, menziona ciò che le rispettive liturgie hanno in comune, soprattutto nelle grandi Feste dell’anno liturgico, e si sofferma brevemente sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo nella storia”.
Nel 1998, seguì un terzo documento, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoa , che riflette soprattutto sulle conflittualità ebreo-cristiane, tracciando un bilancio “piuttosto negativo” dei primi 2000 anni, non disgiunto dalla speranza che il ricordo della tragedia dell’Olocausto potesse aiutare a “guarire le ferite delle incomprensioni ed ingiustizie del passato”, come auspicò San Giovanni Paolo II.
Appena tre anni dopo, nel 2001, è la volta de Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, un testo che considera le Sacre Scritture del popolo ebraico come “parte fondamentale della Bibbia cristiana”, ne tratta i temi basilari, come pure la loro accoglienza all’interno della fede in Cristo, e illustra nel dettaglio il modo in cui gli ebrei sono presentati nel Nuovo Testamento.
Alla storia documentale dei rapporti catto-ebraici, si affianca un’attività di dialogo interreligioso in senso stretto, i cui principali protagonisti sono i pontefici e i rabbini: in particolare San Giovanni Paolo II fu il primo papa a recarsi ad Auschwitz e a visitare la Sinagoga di Roma, “per esprimere la sua solidarietà alla comunità ebraica”. Un’opera proseguita in modo convinto e coerente dai suoi successori Benedetto XVI e Francesco.
Il nuovo documento menziona poi un altro importante organo, in questo caso di iniziativa ebraica, l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations (IJCIC), rappresentante ebraico ufficiale presso la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede.
Nonostante la “rottura storica ed i dolorosi conflitti” verificatisi nel corso dei secoli, il dialogo con l’ebraismo si presenta come “qualcosa di assolutamente speciale per i cristiani, poiché il cristianesimo ha radici ebraiche che determinano l’unicità delle relazioni tra le due tradizioni”, si legge ancora nel documento. Del resto fu lo stesso Giovanni Paolo II a definire gli ebrei come i nostri “fratelli maggiori”.
La “differenza di fondo” tra le due fedi è in particolare nel modo in cui si vede la figura di Gesù, il quale, per gli ebrei, è un “appartenente al loro popolo, un maestro ebraico che ha sentito di essere chiamato in modo particolare ad annunciare il Regno di Dio. Il fatto però che il Regno di Dio sia venuto con lui quale rappresentante di Dio – prosegue il documento – è al di fuori dell’orizzonte ebraico di attese messianiche”.
Gesù non fu condannato dai capi religiosi della sua epoca per una “trasgressione individuale della legge”, quanto per la sua “rivendicazione” di agire “con autorità divina”.
Storicamente vi è tuttavia una “reciproca influenza” tra Chiesa e Sinagoga e la rottura non si è consumata “bruscamente”, al punto che “molti giudeo-cristiani dei primi tempi non percepivano come contraddittorio vivere conformemente ad alcuni aspetti della tradizione ebraica e confessare Gesù come il Cristo”.
È ancora la Nostra Aetate a suggerire come il dialogo ebreo-cristiano si ponga come modello per il dialogo dei cristiani con tutte le altre religioni. Da un punto di vista teologico, infatti, il dialogo ebreo-cristiano si situa “ad un altro livello” e la fede ebraica, per i cristiani, non è “un’altra religione, ma è il fondamento della loro stessa fede”. Con le “riserve dovute” si può arrivare a parlare di un “dialogo intra-religioso” o “intra-familiare”, piuttosto che interreligioso.
Inoltre, quando si parla della Chiesa Cattolica come “nuovo popolo di Dio”, ciò non significa che Israele, il popolo di Dio, abbia “cessato di esistere”, né tantomeno che gli ebrei debbano essere “rigettati da Dio” o “maledetti”, come afferma testualmente la Nostra Aetate (n°4).
La fede cristiana professa infatti che “l’opera salvifica di Cristo è universale e si rivolge a tutti gli uomini”, mentre “l’alleanza offerta da Dio a Israele è irrevocabile” ed è infondata la concezione che intende il Nuovo Testamento come “sostituzione” dell’Antico, piuttosto che come “compimento”. Quanto alle innegabili “differenze teologiche”, che la stessa Nostra Aetate evidenza, si rende necessaria un’ulteriore riflessione.
Obiettivo del dialogo ebreo-cristiano è, innanzitutto, “l’approfondimento della conoscenza reciproca tra ebrei e cristiani”, che “non deve limitarsi agli specialisti”.
A tal proposito la Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo suggerisce che “gli istituti di istruzione cattolici, in particolare nel campo della formazione dei sacerdoti, includano nei loro curricula sia Nostra aetate che i documenti successivi della Santa Sede sull’attuazione della Dichiarazione conciliare”.
Inoltre, ebrei e cristiani devono cooperare nel comune impegno “a favore della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato e della riconciliazione in tutto il mondo”. È solo quando “le religioni dialogano con successo le une con le altre, contribuendo in tal modo alla pace mondiale”, che “questa pace può essere realizzata anche a livello sociale e politico”.
Fondamentale è anche che i cristiani stiano accanto ai fratelli ebrei, contribuendo a sradicare l’antisemitismo nel mondo. “Papa Francesco ha più volte sottolineato che un cristiano non può mai essere u
n antisemita, soprattutto a motivo delle radici ebraiche del cristianesimo”, si legge nel documento.
“Quando ebrei e cristiani, attraverso un’assistenza umanitaria concreta, apportano insieme il loro contributo alla giustizia ed alla pace nel mondo, offrono testimonianza dell’amorevole premura di Dio. Non più in discordante contrapposizione, ma cooperando a fianco gli uni degli altri, ebrei e cristiani dovrebbero adoperarsi per un mondo migliore”, conclude poi il documento della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo.