Si chiama Karim Mokhtari. Avrebbe potuto ingrossare le fila dei giovani immigrati francesi, di seconda o terza generazione, che sacrificano la propria vita sull’altare di un presunto jihadismo. Avrebbe potuto far esplodere la sua rabbia dovuta all’emarginazione sociale impugnando il Corano e con l’altra mano un’arma da fuoco. Avrebbe potuto, ma non l’ha fatto. O meglio, ha conosciuto il traviamento ma vi si è sottratto prima che fosse troppo tardi. Karim Mokhtari si è immerso nelle viscere della colpa e ha saputo risalire la china della redenzione.
Ed è proprio Rédemption – Itinéraire d’un enfant cassé (Redenzione – Cammino di un bambino ferito) il titolo del suo libro, nel quale racconta senza censura la sua infanzia violenta, la delinquenza giovanile, il peregrinare tra riformatori e carceri. E poi il riscatto, dovuto all’incontro con un cappellano cattolico, che l’ha portato fino all’impegno per aiutare giovani che si trovano nella sua stessa situazione.
La turbinosa storia di questo figlio delle banlieue comincia nel 1978. Nasce da una donna francese e da un uomo algerino, che però lo abbandona appena nato. La mamma trova allora un nuovo compagno, che diventa un patrigno tutt’altro che raccomandabile. È alcolizzato, razzista e violento. Il piccolo Karim diventa presto la vittima prediletta delle sue peggiori angherie.
L’affetto che non riceve si trasforma presto in uno sfogo terribile da consumare presso i muretti scrostati e le strade buie delle periferie. Quando i suoi coetanei giocavano ancora con le pistole giocattolo, lui aveva iniziato a brandire quelle vere, puntandole sul viso di commercianti da rapinare. A soli 12 anni i suoi polsi conoscono già le manette della polizia.
Dai 12 ai 17 anni passa per tre riformatori. Un’esperienza che tuttavia non serve a ripianare un percorso che si snoda lungo vie storte. “A 18 anni commetto la più grande stupidaggine della mia vita”, confida Karim. In preda a deliri di onnipotenza, insieme a due amici decide di rapinare un potente trafficante di droga della sua zona. Dopo l’assalto rimane sul selciato un uomo privo di vita.
È l’inizio di un incubo, che fa conoscere a Karim la durezza della realtà nel quale si è cacciato. Viene arrestato e condannato a dieci anni di carcere. Abituato alle porte dei riformatori, vive come un trauma il ritrovarsi dietro le fredde sbarre del penitenziario. Cade in un grave stato di angoscia. Tenta di suicidarsi più volte.
Spiega nel suo libro: “Volevo cambiare, ma non sapevo come. Mi sentivo perduto”. Un giorno, sembra finalmente trovare una strada verso la pace interiore che tanto anela. Nel cortile, durante l’ora d’aria, si sofferma su un gruppo di detenuti – d’origine maghrebina come lui – che si radunano a pregare secondo il rituale islamico.
“Sembrava che soffrissero molto meno di me”, afferma. Così si persuade che avvicinandosi alla religione islamica possa attenuare i propri istinti violenti, nonché – aggiunge – “calmare l’odio verso la mia famiglia e la società”. Si avvicina dunque a questo gruppo di detenuti. Prende contatto con un auto-proclamatosi imam, un uomo che guida la preghiera perché ha una certa conoscenza dei testi sacri e parla correttamente l’arabo. È lui che lo inizia all’Islam.
Di personaggi come questo, le carceri francesi sono piene. Rappresentano – secondo Karim – dei riferimenti per giovani sbandati alla ricerca di un’identità. Questi imam delle galere – aggiunge – “hanno un sacco di responsabilità nella crescita del radicalismo”. L’esperienza vissuta da Karim insegna che in realtà “coloro che prendono le redini sono tipi ambigui con poca conoscenza della religione, ma con molto carisma, che gli consente di manipolare la gente”.
Manipolazione che Karim vive sulla propria pelle. E come lui, una moltitudine di giovani carcerati nordafricani. Le autorità penitenziarie decidono così di trasferire alcuni detenuti, per disperderli in più centri prevenendo sommosse imponenti.
È a questo punto che Karim conosce il vero volto del suo imam. “È venuto nella mia cella e mi ha fissato con uno sguardo serio, che non avevo mai visto prima – spiega a proposito dell’imam -. Mi ha detto che stavamo per separarci e che il mio dovere di musulmano sarebbe stato quello di difendere l’Islam uccidendo gli infedeli”.
Di nuovo l’odio, la violenza, la morte. Ciò che Karim pensava di poter sconfiggere attraverso la conversione all’Islam, diventa invece l’obiettivi che gli indica la sua guida spirituale. “Ho capito così che quella vita significava più violenza di quanta ne avessi mai commessa, che non avrei trovato la pace che avevo cercato nella religione”, la riflessione di Karim.
Nel penitenziario in cui viene spostato, Karim perde i contatti con tutti i suoi vecchi correligionari. Scivola di nuovo in un’afflizione oltremodo lancinante, sentendosi tradito finanche dalla fede in Dio. All’improvviso però, accade una svolta. Una mattina apparentemente come tante, un cappellano cattolico che deve incontrare un altro detenuto, entra per sbaglio nella sua cella.
L’errore si trasforma però in un’occasione di colloquio. “Ho commesso l’irreparabile e gli uomini non mi hanno perdonato. Io non so se Dio lo farà”, gli dice Karim. Il sacerdote gli risponde che “Dio mette alla prova coloro che ama”. Prove che sta a noi saper riconoscere come tali, per trasformarle in motivi di liberazione.
Karim riflette a lungo su quest’incontro. Inizia ad approfondire i contenuti della fede cattolica e ad incontrare periodicamente quel prete. “Ho deciso da quel momento che non sarei stato più un animale, bensì un uomo”. In questa fase il neofita cristiano viene a contatto con alcuni volontari del carcere e, come riferisce il sito Religionenlibertad, inizia una corrispondenza con una ragazza, con la quale affronta questi e tanti altri temi.
A 25 anni, quando esce di galera, Karim è un uomo nuovo. Si fidanza e poi si sposa con la destinataria delle sue lettere dal carcere, con cui ha oggi due figli. Diventa anch’egli attivista in carcere, cercando di aiutare quei giovani nelle cui bravate riconosce il suo percorso balordo. Parlando di religione, di senso civico e di giustizia, supplisce alle mancanze dello Stato, contribuendo a far inserire nella società persone che nella loro vita hanno conosciuto solo il ghetto delle banlieue, le mura del carcere e gli indottrinamenti alla criminalità o all’odio religioso.
In questo modo – spiega Karim – “sono riuscito a riparare il danno che ho fatto alla società”. L’ex detenuto non cerca giustificazioni alla delinquenza, ma allo stesso tempo non risparmia critiche al suo Paese, la Francia. Spiega che le condizioni detentive sono disumane, minacciano la salute fisica e mentale dei carcerati. “Sono uscito anni fa, ma ho ancora i brividi quando sento l’odore di quei posti”, afferma.
Precisa inoltre di non essere “un ingenuo abolizionista”, ma auspica che la Francia sappia promuovere la dignità umana anche nelle carceri. Perché dove non arrivano le autorità, possono giungere i tentacoli del radicalismo. “Quando un detenuto si sente così perso, si aggrappa a qualsiasi mano che gli si tende – afferma -. Molti vogliono entrare in un gruppo, sentirsi utili, importanti, rispettati”.
Infine, Karim si lascia andare a un’amara riflessione sul modo in cui la laicità viene interpretata. Se il dibattito religioso è estromesso dalle scuole e dalle altre strutture pubbliche, “si favorisce solamente una lettura errata della religione”. Del resto, come la sua esperienza insegna, secolarizzazione e radicalismo sono due facce della stessa medaglia. E allora la “medaglia” da dover valorizzare è un’altra: è quella a forma di croce che portano al collo i cappellani carcerari.
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"Così un cappellano del carcere mi ha strappato al terrorismo islamico…"
Storia di un figlio delle banlieue che dietro le sbarre ha incontrato Dio dopo esser stato ingannato da un imam. Oggi fa volontariato e accusa la Francia: “Questa laicità favorisce il radicalismo”