Con Papa Francesco, fin dall’inizio la Misericordia di Dio è il tema centrale e fondamentale del suo Pontificato. Egli sa che l’Occidente cristiano si è allontanato dalla Chiesa e dalla vita cristiana e questo ha imbarbarito le nostre società e i nostri popoli ancora nominalmente cristiani (espressione massima di questa barbarie è la teoria del “gender”). stato mandato dallo Spirito per riportarci tutti a Dio e a Cristo, accettando la misericordia e il perdono di Dio.
Francesco è un Papa missionario (ha un’esperienza pastorale come nelle missioni), ma parla poco della missione alle genti. Lui ha una visione globale dell’umanità ed è convinto che se l’Occidente ritorna a Cristo, solo così si evangelizza il mondo dei non cristiani. Ha affidato l’organizzazione dell’Anno della Misericordia di Dio al Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, che riguarda appunto i paesi e i popoli cristiani. Insomma, tutto il Pontificato di Francesco è impostato per riportare i cristiani a ritrovare le radici biblico-evangeliche della nostra civiltà, orientando la cultura e l’educazione di conseguenza. Come diceva Tony Blair in un discorso al Parlamento dell’Unione Europea all’inizio degli anni 2000: “L’Europa può superare le sue crisi solo ritornando al Vangelo, che ha fatto grande la nostra civiltà”.
Nel novembre 2014, parlando al Consiglio delle Conferenze episcopali europee, Francesco ha ricordato i mali che oggi feriscono l’Europa e la mettono in crisi, ma ha aggiunto che “l’Europa ha tante risorse per andare avanti…. E la risorsa più grande è la persona di Gesù. Europa, torna a Gesù! Questo è il lavoro dei pastori: predicare in missione: predicare Gesù Cristo, senza vergogna. Lui è disposto ad aprire le porte del suo cuore, perché Lui manifesta la sua onnipotenza soprattutto nella misericordia e nel perdono…All’Europa ferita soltanto Gesù Cristo può dire oggi una parola di salvezza”.
La fede di Papa Francesco è una fede “che sposta le montagne”. Lui sa che nulla è impossibile a Dio e crede davvero che l’Anno della Misericordia di Dio può iniziare un graduale ritorno dell’Europa, dell’Italia a Cristo. Crede nello Spirito Santo, “protagonista della missione”, ed è convinto che se la Chiesa e i fedeli si convertono veramente a Cristo, lo Spirito può fare cose straordinarie, miracolose, come in altri popoli dove nasce la Chiesa.
Parlo con un parroco d Vicenza che mi dice: “Tutti o quasi tutti ammirano e applaudono Papa Francesco, ma il suo appello alla conversione personale non ha ancora scosso e morsicato la carne viva dei nostri fedeli. Noi siamo i puri, andiamo in chiesa, la conversione riguarda i peccatori”.
Temo che questo appello di convertirci personalmente a Dio che perdona e al Vangelo che cì propone il modello della vita cristiana, non venga colto proprio da non pochi di noi, preti e cristiani “praticanti”. I mass media, in genere, leggono le parole e gli atti di Francesco in modo diciamo “laico”, dove non c’è posto per temi come peccato, conversione a Cristo, confessione delle proprie colpe; danno ai suoi atti un significato sociale-politico che non coglie il centro del pontificato di Francesco. Ci si chiede se egli è un conservatore o un progressista e non si capisce che questi termini non hanno senso nel giudicare il Papa. Francesco è un uomo peccatore, come tutti noi, innamorato di Gesù Cristo, perchè ha sperimentato nella sua vita la bontà e misericordia infinita del Padre. E chiama tutti a cambiare vita per diventare veri cristiani, cioè innamorati di Gesù e simili a Lui nella nostra vita.
Nella Lettera Apostolica ai Consacrati (21 novembre 2014) si legge: “La domanda che siamo chiamati a rivolgerci in questo Anno è se e come anche noi ci lasciamo interpellare dal Vangelo; e se esso è davvero il vademecum per la vita di ogni giorno e per le scelte che siamo chiamati ad operare. Esso è esigente e chiede di essere vissuto con radicalità e sincerità. Non basta leggerlo, non basta meditarlo, Gesù ci chiede di attuarlo, di vivere le sue parole”.
Lo spirito missionario dell’Anno della Misericordia è espresso bene in questo articolo del beato Clemente Vismara, che viveva visitando i suoi tribali nei loro poveri villaggi: per 65 anni con gli ultimi della terra (“la Chiesa in uscita”). Portava nella sua persona “l’odore delle pecore” (come vuole Papa Francesco) e aveva una visione paterna delle miserie umane e un cuore grande come il mondo. Clemente descrive un suo parrocchiano pagano (“un miserabile oppiomane”) e conclude in modo imprevisto,com’è imprevista la Misericordia di DIO, che arriva fin dove noi non possiamo nemmeno immaginare. Buona lettura, lasciamoci portare dall’onda calda di un missionario, scrittore da antologia letteraria, che viveva con gli ultimi della terra (su “Vogliamoci bene” marzo 1976).
Tre mesi fa circa è morto e nello stesso giorno venne sepolto un uomo. È morto solo, come un cane nel bosco…. Scopo della sua vita, unico suo ideale era l’aver da fumare oppio; ottenuto quello si sdraiava sul suo duro giaciglio e dormiva. Tutto il resto passava in seconda linea; fossero la sua brava e buona moglie, i suoi tre figli piccolini. Un perfetto e miserabile oppiomane. Da tutta la sua gente di tribù Ikò era ritenuto un invasato dagli spiriti cattivi; noi diremmo un indemoniato. La sua presenza nei villaggi faceva morire la gente. Nessun villaggio pagano osava dargli ospitalità; nessuno lo voleva, lo poteva ricevere. Ch’io sappia dovette cambiar villaggio cinque volte ed ogni volta gli fu bruciata la capanna.
Era ormai persuaso del suo infelice destino, non gli rimaneva altro che abitare tutto solo, con la famiglia nel bosco. Viveva alla giornata. I soldi, che più o meno onestamente poteva avere, li consumava in oppio; che fosse padre di famiglia e dovesse provvedere alla moglie ed ai figli, manco ci pensava. Alla moglie, che aveva 29 anni, sembrava che il sistema del marito fosse normale: “Lui è mio marito – diceva – tutto quello che ho è suo. Se ha voglia di fumare e non ha soldi – poveretto – perché non prendere i soldi che ho?”. Dei quattro o cinque figli che ebbe ne rimanevano tre, tutti maschi, otto, quattro e due anni. “I figli – diceva – li ha fatti la moglie e lei se li mantenga”.
Respinto da tutti i villaggi, sperò di risolvere il suo problema economico rifugiandosi dal prete (cioè dal padre Clemente, n.d.r)., che nei primi giorni lo aiutò a vivere. Ma i soldi andavano a finire nel botteghino dell’oppio. Era irrimediabile. “Vorrei non fumare, ma se non fumo muoio” – diceva al prete che lo consigliava si smettere.
In questo tempo avvenne pure che la moglie di Lophì desse alla luce un altro figlio. Solo la suora entrava nella sua capanna e vedendo la miseria della famiglia, regalò alla donna una scatola di latte condensato che costava kiats 9. Uscita la suora dalla capanna Lophì, presa la scatola, l’andò a vendere a kiats 5. In una seconda visita la suora regalò alla partoriente – non aveva nulla da mangiare – una gallina; il marito era uscito di casa. Cotta la gallina ai ferri, la donna coi tre figlioli mangiò mezza gallina e l’altra metà la ripose per consumarla il giorno seguente. Tornato il marito, manco a dirlo, si mangiò tutto solo la seconda metà.
Voi lo mandereste all’inferno un marito simile?
Io no, ma forse, dopo oltre mezzo secolo di servizio nel bosco, ho perso il senso, come dire, della…civiltà; non mi pare però di essere selvatico. Chi ha insegnato a vivere al povero Lophì? Quale istruzione ebbe? Quali beni, quali comodi ebbe in vita sua? Lophì è nato ed è morto, e resta detto tutto. Star male di qua e peggio nell’aldilà, ci par giusto? E via… siamo un po’ buoni, un po’ di felicità concediamola a tutti.
Attualmente, qui da noi non c’è pace: una guerriglia veramente debilitante; provare per credere! I rossi comunisti vogliono impossessar
si del nostro paese. Vogliono venir qui a mangiare il nostro riso. Perbacco! Non ne abbiamo a sufficienza per noi; un anno si un anno no soffriamo la fame, come possiamo regalarne a loro? I soldati birmani ci difendono, combattono per noi. Noi non abbiamo nessun mezzo di difesa, abbiamo solo le gambe per scappare. Giustamente i birmani vogliono che noi almeno li aiutiamo nel trasporto delle vettovaglie e delle munizioni. Per turno, ogni villaggio, su richiesta, per il trasporto in prima linea. La regione è montagnosa. I comunisti stanno solo sui monti, danno continua noia a quelli del piano facendo incursioni e minando le strade. Fanno delle vittime inutilmente e chi più ci rimette sono i poveri: chi ha mezzi si cerca un sostituto che vada in sua vece e paga salato. Ho sentito dire fino a kiats 400 per volta! Naturalmente, per Lophì questa era una buona occasione: con un viaggio di un giorno o due avrebbe avuto soldi per fumare un mese senza tanto lavorare. Il lavoro non gli era mai andato a genio, il pesante lavoro dei campi era tutto a carico della moglie. Nel ritorno da questo servizio di trasporto Lophì inciampò in una mina messa dai rossi nel mezzo della strada; ne riportò una larga ferita alla gamba sinistra, riuscì a tornare alla sua capanna, ma non essendoci medici o gente pratica di feriti non riuscì a fermare il sangue e dopo alcuni giorni morì dissanguato. Così mi raccontò la moglie.
Morto, lei lo avvolse nella coperta, la sola che aveva; legato con viticchi, come un salame e nello stesso giorno sepolto nel bosco poco lontano dalla sua capanna. Quando si dice che Lophì è nato e morto, è detto tutto e nessuno piangerà, manco la moglie.
I motivi per cui io lo lascerei entrare in Paradiso, sono almeno due:
1°) Lophì è morto per causa di servizio, ossia di dovere. Se i soldati birmani restassero senza munizioni avremmo i comunisti in casa e ci porterebbero via il nostro riso. Senza mangiare si muore. Noi abbiamo una bella Chiesa ove pregare e preghiamo tre volte al giorno, come mangiamo tre volte al giorno. Se questi comunisti scendessero dai monti, convertirebbero la nostra Chiesa in magazzino.
2°) Priva del marito la moglie, che si chiama Budô, chiese aiuto alla sua vecchia madre pagana, che abita in un villaggio poco lontano. La madre fece costruire per la figlia e prole una piccola capanna, ma i seniori del villaggio che conoscevano e ritenevano Lophì indemoniato, data poi la sua tragica fine, che stimavano una vendetta degli spiriti, pensarono che gli spiriti erano entrati nel corpo della moglie di Lophì, quindi non permisero che la povera donna entrasse nel loro villaggio.
Conclusione: se Lophì non moriva per causa di servizio, la moglie vivrebbe ancora nel bosco sola coi tre figli, non avrebbe altro che patir la fame, non sarebbe ricorsa al missionario, il cui ufficio è appunto quello di rendere felici gli infelici ed aprire il Paradiso ai pagani. Il primo figlio di otto anni è con me e va a scuola. Gli altri due piccolini stanno in convento con le suore. Han finito di patire poveretti, ma questi due hanno patito troppo. Fa loro male il ventre e piangono; speriamo si possano riavere. Il primo lavoro delle suore fu di fare un bel bagno con acqua calda ai due bambini; poi trovare per loro un vestito adatto e infine farli sedere a mangiare riso caldo con condimento.
La morte del solo Lophì ha donato la vita a quattro creature del buon Dio e chi ha salvato altri, salva se stesso. Anche lo stesso missionario per salvare se stesso deve salvare gli altri. Vi pare che il mio ragionamento corra bene? E via… siamo un po’ buoni, il nostro cuore non è un cuore da pagani: tutti desideriamo un po’ di felicità, se non di qua almeno nell’al di la.
Vivendo da oltre mezzo secolo coi più poveri, forse ho perso il senso della giustizia, forse io sono troppo ottimista. Io manderei in Paradiso anche i peccatori. Basterebbe che tentassero di compiere una piccola buona azione per entrare nel Regno di Dio. Ma dicevano gli antichi: dura lex, sed lex.
Orribil furono li peccati miei
ma la bontà infinita ha sì gran braccia
che prende chi si rivolge a lei.