In buona evidenza, sulle principali testate economiche d’inizio settimana, c’è l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, convocato in via eccezionale domenica pomeriggio, di un decreto-legge che ha consentito il salvataggio, interamente a carico del sistema creditizio, di quattro Istituti di credito da tempo in difficoltà. Il lancio dell’Ansa di lunedì 23 novembre precisa che le banche interessate, ovvero, CariFerrara, Banca Marche, Banca Etruria e CariChieti potranno continuare ad operare grazie a 3,6 miliardi di euro interamente a carico del sistema bancario. Le stesse, peraltro, verranno liberate dai crediti in sofferenza, aggiungeranno il prefisso ‘nuovo’ al proprio nome e verranno traghettate verso la cessione nel minor tempo possibile “al fine di massimizzare il prezzo di vendita”.
Secondo il Governo, il provvedimento “consente di dare continuità all’attività creditizia – e ai rapporti di lavoro – tutelando pienamente i correntisti” e, soprattutto, “non prevede alcuna forma di finanziamento o supporto pubblico alle banche in risoluzione o al Fondo nazionale di risoluzione” ed esclude “il ricorso al bail in“, ovvero, al salvataggio delle banche in difficoltà con i fondi di azionisti, obbligazionisti e correntisti sopra i 100.000 euro.
Sull’operazione c’è anche il via libera da parte di Bruxelles, che attiverà il fondo di risoluzione europeo, ovvero, l’apposito strumento destinato a finanziare la risoluzione delle banche in difficoltà, con un prestito di 3,6 miliardi di euro alle banche per capitalizzarle e per coprire la differenza negativa fra gli attivi trasferiti e le passività. Il prestito sarà rimborsato con il perfezionamento dell’operazione nei prossimi mesi, tramite il recupero crediti, la cessione delle banche salvate o di parte di asset delle stesse a terzi interessati, che adesso potranno rilevare attività sanate dai crediti deteriorati. I crediti in sofferenza di tutte le quattro banche verranno, invece, trasferiti ad un’unica bad bank, con un ulteriore supporto “quantificato approssimativamente in 400 milioni di euro”.
Letta cosi la vicenda sembrerebbe tutta da collocarsi all’interno del settore privato. Salvo per qualche dubbio che riguarda la bad bank. Due sono le domande che ci vengono poste: da un lato cosa sia, in realtà, questo soggetto e, dall’altro, se possiamo essere effettivamente sicuri che nessun costo verrà caricato al Paese.
Per rispondere alle questioni sollevate, ricorriamo un po’ alla storia. Già oltre 25 anni fa, i Lloyd’s di Londra, coinvolti dall’aver stipulato polizze assicurative contro i rischi legati all’amianto, si trovarono con una enorme quantità di polizze “tossiche”, ovvero, incorporanti un alto rischio potenziale. Il gruppo assicurativo, allora, utilizzo apposite società, opportunamente ben patrimonializzate, per stornare le polizze a rischio. In tal modo furono realizzati due obiettivi: da una parte furono puliti i bilanci della società madre (la società che girava il portafoglio delle polizze), dall’altro nella società che prendevano in carico le polizze tossiche, il rischio era ben definibile e diluibile e, poteva trovare i capitali in cerca di un’occasione per un investimento a lungo termine. Nel caso odierno, tuttavia, nella bad bank dovrebbero finire non passività, ma gli attivi con un profilo di rischio di difficile individuazione.
Più simile a noi sembra, allora, l’esempio seguito negli anni ‘90 da alcuni Paesi del Nord Europa. I governi della Finlandia, della Norvegia e della Svezia di fronte alla crisi delle grandi banche di quei Paesi, intervennero caricando le attività deteriorate in varie bad bank. Il risultato finale fu ambiguo: forti pertite, finite poi sui bilanci dello Stato, per la Finlandia e la Svezia (circa il 2/3% del Pil), ed un beneficio netto, invece, per la Norvegia.
Visto come è andata per Finlandia e Svezia, vediamo se nell’operazione può celarsi un regalo ai privati come, invece, viene categoricamente escluso dai vari comunicati che accompagnano l’operazione governativa. Per farlo, serviamoci di un semplice esempio. Supponiamo che una banca abbia in bilancio titoli tossici iscritti al valore pre-crisi di 1000 e, supponiamo che, al momento, il mercato non riesca a prezzarli. A quale prezzo li scarico alla bad bank? Se li porto a prezzo simbolico di 1 faccio fallire la banca cedente, viceversa, se gli attribuisco un valore maggiore sto procedendo ad un sussidio mascherato alla banca. Se la bad bank è privata, il maggior valore di prezzo dei titoli tossici acquistati indica che si sono trovati investitori disposti anche a perdere fino 1000 (il valore pre-crisi dei titoli tossici). Perché i privati dovrebbero farsi carico di tale rischio? L’idea è che la Bad Bank sia agevolata nel recupero dei capitali, che avendo un più ampio lasso temporale a disposizione per gestire i crediti in sofferenza, possano raggruppare in modo più omogeneo classi di titoli più simili fra loro, e per tale via siano in gradi di esprimere valutazioni più credibili del “rischio” implicito in ciascun nuovo investimento. Con il frazionamento, i titoli emessi dalla bad bank risulterebbero, invece, appetibili per i manager dei fondi comuni o dei fondi pensione, che ben potranno investire i loro capitali.
Tuttavia, in caso di fallimento della Bad Bank, nulla ci autorizza a pensare che il costo non ricada in definitiva sullo Stato. Anzi, al costo citato andrà ad aggiungersi anche il costo già sostenuto dal fondo privato, ed i costi di gestione della Bad Bank, per cui il definitiva l’intera operazione risulterà avere un impatto presumibilmente maggiore di quello stimabile per un immediato fallimento.
Ma chiediamoci, esistono realmente possibili alternative? Sarebbe interessante riportare in estratto un documento degli anni trenta di Donato Menichella, allora Direttore Generale dell’IRI e futuro Governatore della Banca d’Italia. Tra i tanti scritti di economia sulla crisi di quegli anni e sul modo in cui essa fu affrontata dagli economisti italiani dell’epoca, il Rapporto del luglio del 1944 di Menichella, su “Le origini dell’IRI e la sua azione nei confronti della situazione bancaria” è uno di quei documenti che vale la pena di rileggere con molta attenzione oggi che la crisi finanziaria spaventa tanti economisti. Com’è noto agli studiosi, il documento Menichella nacque da una sottocommissione della Allied Control Commission a cui, dopo l’armistizio, furono demandati i compiti di governo economico dell’Italia in collaborazione con il Governo Badoglio.
In particolare, le questioni finanziarie erano sotto la vigilanza del capitano Andrew M. Kamark, che era il responsabile di quella sottocommissione e si proponeva di “comprendere cosa fosse l’IRI, quale fosse e dovesse essere il suo ruolo nell’economia italiana”. Leggiamo dal Rapporto Menichella del luglio 1944: “l’Italia è stata definita… come il paese dei salvataggi bancari”. “Paese relativamente povero di capitali e di scarse tradizioni finanziarie; la caduta di una banca o la minaccia della caduta di una banca non sono mai state considerate come eventi normali della vita economica nella quale, come in quella degli individui, alla prosperità può succedere l’indigenza, alla salute la malattia e la morte, sebbene come eventi di carattere straordinario, capaci di commuovere larghe sfere dell’opinione pubblica, provocare dibattiti appassionati sulla stampa, cadute di ministri e così di seguito”.
“…I Governi e l’Istituto di emissione, presi quasi sempre alla sprovvista e incatenati dall’urgenza dei provvedimenti, hanno deciso spesso senza conoscere esattamente la situazione effettiva della banca che domandava di essere salvata; … la ignoranza che da parte
dei governi si è avuta in molti casi della situazione effettiva della banca da salvare può essere spiegata, se non giustificata, dalla ignoranza che talvolta si è avuta della situazione medesima da parte degli stessi dirigenti delle banche…”. Continua il citato rapporto: “L’IRI trae origine dagli interventi bancari effettuati negli undici anni correnti dal 1922 al 1932… Se lo Stato italiano (attraverso l’IRI) si è trovato a possedere le azioni delle tre maggiori banche del Paese e molte grosse partecipazioni industriali, ciò non è avvenuto in base ad un proposito dello Stato stesso di voler assumere la gestione di importanti complessi finanziari e industriali… è accaduto invece che avendo lo Stato proceduto al salvataggio di molte banche… esso si è trovato ad essere il proprietario delle azioni degli istituti stessi…e delle azioni industriali da ciascuna banca possedute”. Menichella ricorda ancora – ed è questo il cuore del segno che mi sento di dare a chi oggi ha le redini dell’economia, che lo strumento utilizzato per procedere ai salvataggi bancari fu la creazione nel 1922 di una sezione autonoma del Consorzio per Sovvenzioni dei Valori Industriali, la quale “funzionava in modo semplicissimo: allorché la banca in liquidazione [si tratta in questo caso della Banca di Sconto] aveva bisogno di denaro per pagare le rate del concordato, emetteva delle cambiali all’ordine della Sezione e la Sezione lo stesso giorno le girava alla Banca d’Italia che forniva i fondi con circolazione”. L’intervento era inizialmente circoscritto alla cifra di un miliardo di lire. Ma quando si accentuerà nel 1923 la crisi del Banco di Roma, questo tipo di intervento non è più sufficiente e si configura con un decreto legge ministeriale uno strumento “per provvedersi, da parte degli Istituti di emissione, ai salvataggi bancari in modo distinti dalle proprie operazioni e senza limiti”.
Com’è noto le perdite accumulate raggiunsero i cinque miliardi di lire di allora, ai quali si aggiungeranno quelle dovute per causa degli interventi a favore delle tre grandi banche nazionali, Commerciale, Credito e per l’appunto, Banco di Roma, cioè i tre maggiori istituti di credito del Paese che “possedevano largamente azioni industriali, finanziavano le industrie non solo per i fabbisogni di esercizio ma anche per i fabbisogni di impianti”. Menichella aggiunge, infine, che tali istituti “si ingerivano della condotta delle industrie ponendo nei Consigli di Amministrazione di esse i loro maggiori uomini”. Il rapporto di confusione fra industria e istituti bancari in Italia era già evidente all’apertura della crisi del ‘29, e si riverbererà nel 1930. Continua l’interessante rapporto: “… Esse fecero quel che tutti i banchieri che raccolgono depositi fanno e sempre faranno in simili circostanze; quello che gli Amministratori del Credito Mobiliare avevano fatto nel 1893 e quelli della Banca Italiana di Sconto avevano fatto sulla fine del 1921; non ebbero il coraggio di perdere pur di alleggerirsi; anzi, misurando con occhio ottimistico la situazione, ritennero la crisi di carattere passeggero e, illudendosi di riuscire ad attenuarne le ripercussioni… conservarono ed estesero anche il loro possesso di azioni industriali, per affrontare le vendite affluivano sul mercato”. La Banca d’Italia alla vigilia della costituzione dell’Iri, risultò esposta, per una somma di 8 miliardi circa, pari ad oltre metà della circolazione complessiva (allora pari a circa 13,5 miliardi di lire)… “in tale situazione non si poteva più parlare di un problema delle grandi banche distinto e separato da quello dell’Istituto di emissione e se le banche, dopo la costituzione dell’Iri, avessero avuto ancora bisogno di fondi e questi non avessero potuto essere forniti… con il ricavato della rapida azione di smobilizzo dell’Iri,… lo Stato si sarebbe trovato non già di fronte al problema di fare o non fare fallire le banche, sebbene di fronte all’altro problema di far concedere ancora altri crediti dall’Istituto di emissione in aggiunta a quelli già erogati o di dichiarare la bancarotta di esso”.
E certo che i limiti di oggi sono ben maggiori di quelli che aveva Menichella, ma la crisi di oggi non sembra aver ancora convinto gli europei della lezione impartita dall’economista italiano.