Riportiamo il testo integrale della Prima Predica dell’Avvento 2015, pronunciata oggi da padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, nella Cappella Redemptoris Mater in Vaticano.
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1. Una ecclesiologia cristologica
La felice ricorrenza del cinquantesimo della conclusione del Concilio Vaticano II mi ha suggerito l’idea di dedicare le tre meditazioni dell’Avvento a una rivisitazione dell’evento conciliare, nei suoi contenuti principali. In concreto, vorrei svolgere qualche riflessione su ognuno dei principali documenti del Concilio che sono le quattro costituzioni sulla Chiesa (Lumen gentium), sulla Liturgia (Sacrosanctum Concilium), sulla Parola di Dio (Dei Verbum) e sulla Chiesa nel mondo (Gaudium et spes).
A darmi il coraggio di affrontare, in così poco tempo, temi tanto vasti e dibattuti è stata una costatazione. Del concilio si è scritto e parlato a non finire, ma quasi sempre per le sue implicazioni dottrinali e pastorali; poche volte per i suoi contenuti strettamente spirituali. Io vorrei invece concentrarmi esclusivamente su di essi, cercando di vedere cosa il Concilio ha ancora da dirci come testi di spiritualità, utili per l’edificazione della fede.
Cominceremo dedicando le tre meditazioni di Avvento alla Lumen gentium, riservando il resto per la Quaresima prossima, se Dio lo vorrà. I tre temi della costituzione sui quali vorrei riflettere sono la Chiesa corpo e sposa di Cristo, l’appello universale alla santità e la dottrina sulla Santa Vergine.
Lo spunto per questa prima meditazione sulla Chiesa mi è venuto rileggendo, per caso, l’inizio della costituzione nel testo latino. Esso dice: “Lumen gentium cum sit Christus…”, “Essendo Cristo la luce delle genti…”. Devo dire, a mia confusione, che non avevo mai fatto caso alle implicazioni enormi contenute in questo inizio. L’aver preso come titolo della costituzione solo la prima parte della frase mi aveva fatto pensare (e credo non solo a me) che il titolo “luce delle genti” fosse riferito alla Chiesa, mentre esso, come si vede, è riferito a Cristo. È il titolo con cui il vecchio Simeone salutò il Messia bambino portato da Maria e Giuseppe al tempio: “Luce delle genti e gloria del suo popolo Israele” (Lc 2, 32).
In quella frase iniziale c’è la chiave per interpretare tutta l’ecclesiologia del Vaticano II. Essa è una ecclesiologia cristologica, e perciò spirituale e mistica, prima che sociale e istituzionale. È necessario rimettere in primo piano questa dimensione cristologica dell’ecclesiologia del Concilio anche in vista di una più efficace evangelizzazione. Non si accetta, infatti, Cristo per amore della Chiesa, ma si accetta la Chiesa per amore di Cristo. Anche una Chiesa sfigurata dal peccato di tanti suoi rappresentanti.
Devo dire subito che non sono certo io il primo a mettere in luce la dimensione essenzialmente cristologica della ecclesiologia del Vaticano II. Rileggendo i numerosi scritti dell’allora cardinal Ratzinger sulla Chiesa, mi sono reso conto con quale insistenza egli ha cercato di tener viva questa dimensione della dottrina sulla Chiesa della Lumen gentium. Lo stesso richiamo alle implicazioni dottrinali della frase iniziale: “Lumen gentium cum sit Christus…”, “essendo Cristo la luce delle genti”, si trova già nei suoi scritti, seguita dall’affermazione: “Se uno vuole comprendere rettamente il Vaticano II, deve sempre di nuovo cominciare da questa frase iniziale” [1].
Dobbiamo precisare subito, a scanso di equivoci: questa visione spirituale e interiore della Chiesa non è stata mai negata da nessuno; ma, come avviene sempre nelle cose umane, il nuovo rischia di mettere in ombra l’antico, l’attuale fa perdere di vista l’eterno e l’urgente prende il sopravvento sull’importante. Così è avvenuto che le idee di comunione ecclesiale e di popolo di Dio siano state sviluppate talvolta solo in senso orizzontale e sociologico, cioè sullo sfondo dell’opposizione tra koinonia e gerarchia, insistendo più sulla comunione dei membri della Chiesa tra di loro, che sulla comunione di tutte le membra con Cristo.
Questo era forse una priorità del momento e un guadagno; come tale san Giovanni Paolo II lo accoglie e lo valorizza nella sua lettera apostolica Novo millennio ineunte [2]. Ma a cinquant’anni dalla fine del Concilio, è forse utile cercare di ristabilire l’equilibrio tra questa visione della Chiesa condizionata dai dibattiti del momento, e la visione spirituale e misterica del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa. La domanda fondamentale non è “cos’è la Chiesa”, ma è “chi è la Chiesa”[3] ed è da questa domanda che vorrei lasciarmi guidare nella presente meditazione.
2. La Chiesa corpo e sposa di Cristo
L’anima e il contenuto cristologico della Lumen gentium (LG) emergono soprattutto nel capitolo I, là dove si presenta la Chiesa come sposa di Cristo e corpo di Cristo. Riascoltiamone alcune frasi:
“La Chiesa, chiamata ‘Gerusalemme celeste’ e ‘madre nostra’ (Gal 4,26; cfr. Ap 12,17), viene pure descritta come l’immacolata sposa dell’Agnello immacolato (cfr. Ap 19,7; 21,2 e 9; 22,17), sposa che Cristo ‘ha amato.. . e per essa ha dato se stesso, al fine di santificarla’ (Ef 5,26), che si è associata con patto indissolubile ed incessantemente ‘nutre e cura’ (Ef 5,29), che dopo averla purificata, volle a sé congiunta e soggetta nell’amore e nella fedeltà (cfr. Ef 5,24)” (LG, 6).
Questo per titolo di sposa; per quello di “corpo di Cristo”, si dice:
“Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e resurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura (cfr. Gal 6,15; 2 Cor 5,17). Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti […]. Partecipando realmente del corpo del Signore nella frazione del pane eucaristico, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: ‘Perché c’è un solo pane, noi tutti non formiamo che un solo corpo, partecipando noi tutti di uno stesso pane’ “ (1 Cor 10,17). (LG 7).
È stato, anche qui, merito dell’allora cardinal Ratzinger, aver messo in luce l’intrinseco rapporto tra queste due immagini della Chiesa: la Chiesa è corpo di Cristo perché è sposa di Cristo! In altre parole, all’origine dell’immagine paolina della Chiesa come corpo di Cristo non c’è la metafora stoica della concordia delle parti nel corpo umano (anche se a volte egli utilizza anche questa applicazione, come in Rom 12, 4 ss in 1 Cor 12, 12 ss.)), ma c’è l’idea sponsale dell’unica carne che l’uomo e la donna formano unendosi in matrimonio (Ef 5, 29-32) e ancor più l’idea eucaristica dell’unico corpo che formano coloro che mangiano lo stesso pane: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo; tutti infatti partecipiamo di quell’unico pane” (1 Cor 10, 17) [4].
È appena il caso di ricordare che questo era stato il cuore della concezione agostiniana della Chiesa, al punto da dare a volte l’impressione di identificare puramente e semplicemente il corpo di Cristo che è la Chiesa con il corpo di Cristo che è l’Eucaristia[5]. È quello che attesta l’evoluzione dell’espressione “corpo mistico” di Cristo che, dall’indicare l’Eucaristia, passa lentamente a significare, come avviene oggi, la Chiesa [6]. Questa, si sa, è anche la visione che maggiormente avvicina l’ecclesiologia cattolica all’ecclesiologia eucaristica della Chiesa ortodossa. Senza la
Chiesa e senza l’Eucaristia, Cristo non avrebbe “corpo” nel mondo.
3. Dalla Chiesa all’anima
Un principio spesso ripetuto e applicato dai Padri Chiesa suona “Ecclesia vel anima”, la Chiesa, oppure l’anima [7]. Il senso è: quello che si dice in generale della Chiesa, fatte le dovute distinzioni, si applica in particolare a ciascuna persona nella Chiesa. A sant’Ambrogio è attribuita l’affermazione: “La Chiesa è bella nelle anime” [8]. Volendo tener fede all’intento dichiarato di queste meditazioni di cogliere gli aspetti più direttamente “edificanti” dell’ecclesiologia conciliare, ci domandiamo: cosa può significare per la vita spirituale del cristiano vivere e realizzare questa idea di Chiesa, corpo di Cristo e sposa di Cristo?
Se la Chiesa nella sua accezione più intima e vera è il corpo di Cristo, io realizzo in me la Chiesa, sono un “essere ecclesiale”[9], nella misura in cui permetto a Cristo di fare di me il suo corpo, non solo in teoria, ma anche nella pratica. Quello che conta non è il posto che io occupo nella Chiesa, ma il posto che Cristo occupa nel mio cuore!
Oggettivamente questo si realizza attraverso i sacramenti, soprattutto due di essi; il battesimo e l’Eucaristia. Il battesimo lo abbiamo ricevuto una volta sola, l’Eucaristia invece la riceviamo ogni giorno. Di qui l’importanza di celebrarla e riceverla in modo che essa possa assolvere davvero il compito di farci Chiesa. La massima famosa lanciata da de Lubac “l’Eucaristia fa la Chiesa” non si applica soltanto a livello comunitario, ma anche a livello personale: l’Eucaristia fa di ognuno di noi il corpo di Cristo, cioè Chiesa. Anche qui vorrei servirmi di alcune parole profonde dell’allora cardinal Ratzinger:
“Comunione significa che la barriera apparentemente invalicabile del mio io viene infranta […] significa dunque fusione delle esistenze. Come nell’alimentazione il corpo può assimilare una sostanza estranea e così vivere, così il mio io viene ‘assimilato’ a Gesù stesso, fatto simile a lui in uno scambio che spezza sempre più le linee di separazione” [10].
Due esistenze, la mia e quella di Cristo, divengono una sola, “senza confusione e senza divisione”, non ipostaticamente, come nell’incarnazione, ma misticamente e realmente. Di due “io”, ne risulta uno solo: non il mio piccolo io di creatura, ma quello di Cristo, al punto che ognuno di noi, dopo aver ricevuto l’Eucaristia, può osare dire, con Paolo: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me” (Gal 2, 20). Nell’Eucaristia, scrive il Cabasilas,
“Cristo si riversa in noi e con noi si fonde, ma mutandoci e trasformandoci in sé come una goccia d’acqua versata in un infinito oceano di unguento profumato” [11].
L’immagine della Chiesa corpo di Cristo è intrinsecamente legata, si diceva, con quella della Chiesa sposa di Cristo e anche questo può esserci di grande aiuto nel vivere in profondità, mistagogicamente, l’Eucaristia. La Lettera agli Efesini dice che il matrimonio umano è un simbolo dell’unione tra Cristo e la Chiesa: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Ef 5, 31-33). Ora, secondo san Paolo, la conseguenza immediata del matrimonio è che il corpo del marito diventa della moglie e, viceversa, il corpo della moglie diventa del marito (cfr. 1 Cor 7, 4).
Applicato all’Eucaristia questo significa che la carne incorruttibile e datrice di vita del Verbo incarnato diventa “mia”, ma anche la mia carne, la mia umanità, diventa di Cristo, è fatta propria da lui. Nell’Eucaristia noi riceviamo il corpo e il sangue di Cristo, ma anche Cristo “riceve” il nostro corpo e il nostro sangue! Gesú, scrive sant’Ilario di Poitiers, assume la carne di colui che assume la sua[12]. Egli dice a noi: “Prendi, questo è il mio corpo”, ma anche noi possiamo dire a lui: “Prendi, questo è il mio corpo”.
Nella raccolta di poesie eucaristiche intitolata “Canto del Dio nascosto”, il futuro papa Karol Wojtyla chiama questo soggetto nuovo, la cui vita è stata fatta propria da Cristo “l’io eucaristico”:
“Avverrà allora il miracolo
della trasformazione:
ecco, diverrai me-
io – eucaristico”[13].
Non c’è nulla della mia vita che non appartenga a Cristo. Nessuno deve dire: “Ah, Gesú non sa cosa vuol dire essere sposato, essere donna, aver perso un figlio, essere malato, essere anziano, essere persona di colore!” Se lo sai tu, lo sa anche lui, grazia a te e in te. Ciò che Cristo non ha potuto vivere “secondo la carne”, essendo stata la sua esistenza terrena, come quella di ogni uomo, limitata ad alcune esperienze, lo vive e “sperimenta” ora da risorto “secondo lo Spirito”, grazie alla comunione sponsale della Messa. Vive nella donna l’essere donna, nell’anziano l’essere anziano, nel malato la condizione di malato. Tutto ciò che “mancava” alla piena “incarnazione” del Verbo si “compie” nell’Eucaristia.
Aveva compreso il motivo profondo di ciò la beata Elisabetta della Trinità quando scriveva: “La sposa appartiene allo sposo. Il mio mi ha presa. Vuole che sia per lui un’umanità aggiunta” [14]. È come se Gesú ci dicesse: “Io ho fame di te, voglio vivere di te, per questo devo vivere in ogni tuo pensiero, in ogni tuo affetto, devo vivere della tua carne, del tuo sangue, della tua fatica quotidiana, devo cibarmi di te come tu ti cibi di me!”
Quale inesauribile motivo di stupore e di consolazione al pensiero che la nostra umanità diventa l’umanità di Cristo! Ma anche quale responsabilità da tutto ciò! Se i miei occhi sono diventati gli occhi di Cristo, la mia bocca quella di Cristo, quale motivo per non permettere al mio sguardo di indugiare su immagini lascive, alla mia lingua di non parlare contro il fratello, al mio corpo di servire come strumento di peccato. “Prenderò dunque le membra di Cristo –dice l’Apostolo – e ne farò membra di una prostituta?” (1Cor 6,15). Queste parole interpellano ogni battezzato. Ma che dire dei consacrati, dei ministri di Dio, che dovrebbero essere i “modelli del gregge” (1 Pt 5,3)? C’è da tremare al pensiero dello scempio che si fa del corpo di Cristo che è la Chiesa.
4. L’incontro personale con Gesú
Fin qui ho parlato dell’apporto oggettivo, o sacramentale, al nostro divenire Chiesa, cioè corpo di Cristo. C’è però anche una dimensione soggettiva ed esistenziale. Essa consiste in quello che papa Francesco nella Evangelii gaudium definisce “l’incontro personale con Gesú di Nazareth”. Riascoltiamo le sue parole:
“Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui” (EG, nr.3)
Qui dobbiamo forse fare un passo avanti anche rispetto all’ecclesiologia del Concilio. Nel linguaggio cattolico, “l’incontro personale con Gesú” non è mai stato un concetto molto familiare. Al posto di incontro “personale”, si preferiva l’idea di un incontro ecclesiale, che avviene, cioè, mediante i sacramenti della C
hiesa. L’espressione aveva, ai nostri orecchi di cattolici, delle risonanze vagamente protestanti. È chiaro che quello che si propone non è un incontro personale con Cristo che sostituisca quello sacramentale, ma di fare sì che l’incontro sacramentale sia anche un incontro liberamente deciso o ratificato, non puramente nominale, giuridico o abitudinario. Se la Chiesa è il corpo di Cristo, l’adesione personale a Cristo è l’unico modo per entrare, esistenzialmente, a far parte di essa.
Per capire cosa vuol dire realizzare un incontro personale con Gesù, bisogna dare uno sguardo, per quanto sommario, alla storia. Come si diventava membri della Chiesa nei primi tre secoli? Con tutte le differenze da individuo a individuo e da luogo a luogo, ciò avveniva dopo una lunga iniziazione, il catecumenato, ed era il frutto di una decisione personale, per giunta anche rischiosa per la possibilità del martirio.
Le cose cambiarono quando il cristianesimo diventò, dapprima religione tollerata e poi, in breve tempo, religione favorita, quando non addirittura imposta. In questa situazione, l’accento non è messo più sul momento e sul modo con cui si diventa cristiani, cioè sul venire alla fede, ma sulle esigenze morali della fede stessa, sul cambiamento dei costumi; in altre parole, sulla morale.
La situazione, nonostante tutto, era meno grave di quanto possa apparire a noi oggi perché, con tutte le incoerenze che sappiamo, la famiglia, la scuola, la cultura e a poco a poco anche la società aiutavano, quasi spontaneamente, ad assorbire la fede. Senza contare che, fin dall’inizio della nuova situazione, erano nate forme di vita, come il monachesimo e poi i vari ordini religiosi, in cui il battesimo era vissuto in tutta la sua radicalità e la vita cristiana frutto di una decisione personale, spesso eroica.
Questa situazione detta “di cristianità” è cambiata radicalmente. Di qui l’urgenza di una nuova evangelizzazione che tenga conto della situazione nuova. Si tratta in pratica di creare per gli uomini d’oggi delle occasioni che permettano loro di prendere, nel nuovo contesto, quella decisione personale libera e matura che i cristiani prendevano all’inizio nel ricevere il battesimo e che facevano di essi dei cristiani reali e non solo nominali.
Il “Rituale della Iniziazione Cristiana degli Adulti” del 1972 propone una specie di cammino catecumenale per i battesimo degli adulti. In alcuni paesi a religione mista, dove molte persone chiedono il battesimo da adulti, questo strumento si è rivelato di grande efficacia. Ma che fare per la massa dei cristiani già battezzati che vivono come cristiani puramente di nome e non di fatto, completamente estranei alla Chiesa e alla vita sacramentale?
Una risposta a questo problema sono gli innumerevoli movimenti ecclesiali, aggregazioni laicali e comunità parrocchiali rinnovate, apparse dopo il concilio. Il contributo comune di tutte queste realtà, pur nella grandissima varietà di stile e di consistenza numerica, è che esse sono il contesto e lo strumento che permette a tante persone adulte di fare una scelta personale per Cristo, di prendere sul serio il loro battesimo, di diventare soggetti attivi della Chiesa.
Ma non mi soffermo su questi aspetti pastorali del problema. Quello che vorrei sottolineare, al termine di questa meditazione, è ancora una volta l’aspetto spirituale ed esistenziale che ci riguarda individualmente. Cosa vuol dire incontrare e farsi incontrare personalmente da Gesú? Significa pronunciare la frase “Gesù è il Signore!” come la pronunciavano Paolo e i primi cristiani, decidendo, cioè, con essa, per sempre, di tutta la propria vita.
Gesú non è più un personaggio, ma una persona; non più qualcuno di cui si parla, ma qualcuno a cui e con cui si può parlare, perché risorto e vivo; non più soltanto una memoria, per quanto liturgicamente viva ed operante, ma una presenza. Vuol dire anche non prendere nessuna decisione di qualche importanza senza prima averla sottoposta a lui a nella preghiera.
Ho detto all’inizio che non si accetta Cristo per amore della Chiesa, ma si accetta la Chiesa per amore di Cristo. Cerchiamo dunque di amare Cristo e di farlo amare e avremo reso il miglior servizio alla Chiesa. Se la Chiesa è la sposa di Cristo, come ogni sposa, ella genera nuovi figli unendosi per amore al suo Sposo. La fecondità della Chiesa dipende dal suo amore per Cristo. Il servizio più prezioso che ciascuno di noi può rendere alla Chiesa è perciò quello di amare Cristo e crescere nell’intimità con lui.
[1] J. Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pp. 9-16).
[2] Cf. S. Giovanni Paolo II, “Novo millennio ineunte”, 42. 45.
[3] Cf. H. U. von Balthasar, Sponsa Verbi, Saggi teologici,II, Morcelliana, Brescia 1972, pp. 139 ss. (ed. tedesca Sponsa Verbi, Johannes Verlag, Einsiedeln 1961).
[4] Joseph Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pp. 9-31).
[5] S. Agostino, Discorsi, 272 (PL 38, 1247 s.).
[6]Cf. H. de Lubac, in Corpus Mysticum. L’Eucharistie et l’Eglise au Moyen Age, Aubier, Paris 1949 (trad.ital. Corpus Mysticum. L’eucaristia e la chiesa nel Medioevo, Jaka Book, Milano 1996).
[7] Cf. Origene, In cant. cant. III (GCS 33, p. 185 e 190); S. Ambrogio, Exp. Ps. CXVIII, 6,18 (CSEL 62, p. 117).
[8] S. Ambrogio, Sui misteri, 7, 39, cit da H. de Lubac, Exégèse mediévale, I, 2, Paris, Aubier, 1959, p.650.
[9] Cf. J. Zizioulas, L’être ecclésial, Labor et fides, Genève 1981 (trad. Ital. Ed. Qiqajon, Comunità di Bose 2007).
[10] J. Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, cit.
[11] Ni. Cabasilas, Vita in Cristo, IV,3 (PG 150, 593).
[12] S. Ilario di Poitiers, De Trinitate, 8, 16 (PL 10, 248): “Eius tantum in se adsumptam habens carnem, qui suam sumpserit”.
[13] K. Wojtyla, Tutte le opere letterarie, Bompiani. Milano 2000, p. 75.
[14] B. Elisabetta della Trinità, Lettera 261, alla mamma (in Opere, Roma 1967, p. 457).