Nell’incontrarci, prima che io formuli qualunque domanda, il prof. Llobell mi chiede di fare una premessa alla nostra intervista. “Vorrei fare un’osservazione preliminare: è complicato offrire un’adeguata esposizione del tema sul quale parleremo nei pochi minuti di questa intervista. È facile, pertanto, che io non sia sufficientemente preciso. Inoltre, ci sono questioni che non affronterò perché sono particolarmente complesse e richiedono un tempo di cui non disponiamo. Per una spiegazione e una giustificazione del processo di nullità del matrimonio rispetto alla nuova legge, mi permetto di rimandare al mio recente libro I processi matrimoniali nella Chiesa, pubblicato pochi mesi fa”.
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Cosa c’era che non andava nel procedimento che è stato modificato?
Probabilmente, la sua inadeguatezza nell’ottenere la finalità per la quale era stato creato. In effetti, da molti anni, certamente a partire dal Concilio Vaticano II, esiste la radicata e giustificata convinzione, da parte di numerosi vescovi, che il processo finora vigente richiede molto tempo e sacerdoti con una qualificata formazione in diritto canonico, cioè, teologica e giuridica; e la constatazione della carenza di tali operatori del diritto in numerose diocesi.
Allo stesso tempo, la profonda “mondanizzazione” di un’alta percentuale di battezzati nella Chiesa cattolica ha comportato, oltre ad un notevole incremento di coppie che non si sposano “in Chiesa”, anche di sposi il cui matrimonio fallisce. Questo fallimento è dovuto a volte a un cattivo uso della libertà (infedeltà, evitare la procreazione, ecc.), però altre volte a gravi difetti della volontà coniugale al momento delle nozze, che può comportare la nullità del matrimonio. È giustificato pensare che nell’attualità ci siano più matrimoni nulli che quarant’anni fa. Alcuni di questi possibili matrimoni nulli potrebbero facilmente dichiararsi tali in casi di “nullità manifesta” (della quale tratta il nuovo canone 1683, n. 2), senza la necessità di tutti i requisiti formali previsti nella legge finora vigente.
D’altra parte, la dichiarazione della nullità del matrimonio richiede abitualmente una “istruttoria” (la raccolta delle prove che possano dimostrare il motivo per il quale il matrimonio era nullo sin dalla celebrazione) successiva alla richiesta della nullità. Papa Francesco ha voluto rendere il più agile possibile tanto le “nullità manifeste” – con il processo breve dinanzi al vescovo –, quanto il processo ordinario – consentendo tribunali formati da un solo giudice in prima istanza, se non è possibile costituire un tribunale di tre giudici –, e che i tribunali collegiali possano essere costituiti da due giudici laici (donne e uomini) presieduti da un chierico, abrogando l’obbligo della doppia sentenza conforme a favore della nullità del matrimonio per poterne celebrare uno nuovo, ecc. La ricerca di strumenti processuali per facilitare il raggiungimento di questi obiettivi è richiesta dal “diritto al giusto processo” che comporta una decisione esecutiva tempestiva, ottenuta con un processo di durata ragionevole, come stabilisce l’ordinamento canonico, nello specifico il canone 1453 del Codice di Diritto Canonico, ma anche l’articolo 111 della Costituzione italiana o l’articolo 6, paragrafo 1 della Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Perché è sbagliato parlare di “divorzio cattolico”?
Perché il divorzio ha una natura “costitutiva”, cioè crea una realtà distinta, provando a rompere qualcosa di esistente: il matrimonio valido. Il processo di nullità del matrimonio, al contrario, non cambia la situazione degli sposi. La Chiesa si limita a “dichiarare” quello che già esisteva sin dalla celebrazione delle nozze: o che non consta la nullità del matrimonio, per cui si continua a considerarlo valido e indissolubile nonostante sia fallito, o che consta la nullità, nel senso che questa unione era solo apparentemente matrimoniale perché uno o entrambi gli sposi diedero un consenso falso, avevano una infermità psichica di tale gravità che li rendeva incapaci di sposarsi, ecc.
In cosa consiste il potere che la nuova legge conferisce al vescovo diocesano?
Il vescovo diocesano è giudice nella sua diocesi per diritto divino, non per concessione del Papa. Tuttavia, tutti i vescovi devono applicare la legge processuale stabilita dal Papa, tra l’altro perché questa uniformità legislativa è richiesta dal diritto di appellare la sentenza di prima istanza davanti a un tribunale di un altro vescovo, applicando la stessa legge del tribunale che ha pronunciato la sentenza appellata. La nuova legge stabilisce che la decisione a favore della nullità del matrimonio nell’innovativo “processo breve” nei casi di “nullità manifesta” la possa prendere soltanto il vescovo diocesano, e non un tribunale (collegiale o con un giudico unico) che agisca in nome del vescovo.
La ragione di questa riserva la indica Papa Francesco nel prologo della stessa legge: questo processo abbreviato, se fosse utilizzato male, potrebbe “mettere a rischio il principio dell’indissolubilità del matrimonio; appunto per questo ho voluto che in tale processo sia costituito giudice lo stesso Vescovo […] il maggiore garante dell’unità cattolica nella fede e nella disciplina”. In ogni modo, questa decisione del vescovo (che ha natura giudiziale, no amministrativa) si può impugnare davanti al tribunale di appello competente: uno locale, vicino al vescovo diocesano, e, sempre, davanti alla Rota Romana.
È frequente ascoltare commenti critici rispetto all’abolizione della “doppia sentenza conforme” e ai motivi che possono giustificare il processo breve davanti al vescovo diocesano. Perché queste norme possono suscitare il timore che si introduca il divorzio nella Chiesa?
Perché subentra un’applicazione erronea della nuova legge, come ugualmente accadeva con la legge modificata. Infatti, i Papi, da Pio XII a Francesco, si sono lamentati con frequenza degli abusi divorzisti da parte di alcuni tribunali della Chiesa, come spiega Papa Francesco nel paragrafo della nuova legge che ho appena citato. Gli abusi nel giudicare la nullità del matrimonio ci sono sempre stati nella storia della Chiesa, come dimostra, ad esempio, un testo del IV secolo di un autore ignoto, conosciuto come l’“Ambrosiaster”, secondo il quale l’adulterio della donna permetteva al marito la celebrazione di un nuovo matrimonio. Però è anche frequente ascoltare critiche allarmistiche senza conoscere bene la nuova legge.
Per esempio?
Mi limito ai due temi sui quali mi ha appena chiesto. In primo luogo, non è del tutto esatto dire che si sia abolita la “doppia sentenza conforme”. Ciò che è stato abrogato è l’“obbligo” (o la “necessità”) della doppia sentenza conforme (per motivi equivalenti) a favore della nullità del matrimonio per potersi risposare. Cioè, con la nuova legge la sentenza di prima istanza può permettere la celebrazione di un secondo matrimonio nel momento in cui scadono i termini per appellare questa sentenza. Però, se c’è un appello non si può celebrare questo secondo matrimonio perché l’appello “sospende” l’efficacia della sentenza appellata. Questa impugnazione della sentenza la possono richiedere sia il coniuge che non è d’accordo con la sentenza stessa, ma anche il “difensore del vincolo”, la cui presenza è necessaria tanto nel processo “abbreviato” come in quello ordinario. Se la sentenza di seconda istanza dichiara che non consta che il matrimonio sia nullo, si potrà appellare questa sentenza di seconda istanza davanti ad un tribunale di terzo grado (la Rota Romana, tranne qualche tribunale privilegiato). Se la terza sentenza è conforme con la prima, si potrà celebrare un secondo matrimonio, pe
rò se quest’ultima decisione afferma che non consta la nullità del matrimonio, queste seconde nozze non saranno possibili. Cioè, se si esercita il diritto di appello, che la nuova legge conserva, la situazione è sostanzialmente la stessa di quella stabilita fino ad ora dal Codice di Diritto Canonico del 1983 e dalla Istruzione “Dignitas connubii” del 2005.
E rispetto alle perplessità circa i motivi che possano giustificare il processo breve davanti al vescovo diocesano, raccolti nelle Regole procedurali della nuova legge?
Le perplessità sarebbero giustificate se questi motivi (la cui enumerazione non è tassativa, visto che la lista comincia con un “per esempio” e termina con un “eccetera”) costituissero per se stessi supposti “automatici” di nullità del matrimonio. Però non è così. E qui è necessario menzionare il concetto, tipico dell’ordinamento canonico, della “certezza morale”, ricordato dalla nuova normativa.
[La seconda parte del’intervista sarà pubblicata domani, 18 ottobre 2015]
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Intervista a cura di Giovanni Tridente, pubblicata su «Palabra» (Madrid), Ottobre 2015, pp. 16-19