Vi sono domande che non cercano risposte, ma sembrano piuttosto delle pistole puntate. Come quelle poste a Gesù da alcuni farisei, “per metterlo alla prova” su un tema cruciale duemila anni fa come oggi, alla vigilia del Sinodo Straordinario sulla Famiglia.
I farisei conoscevano perfettamente la Torah e quello che stabiliva Mosè circa il ripudio. Interrogano Gesù per sapere come interpretava la Legge, cercando di smascherarlo come eretico. Ma Lui risponde, come molte altre volte, con un’altra domanda, diversa dalla loro, perché piena d’amore.
Avrebbe potuto stare lì a discutere, umiliare, deridere, vincere la sua battaglia ideologica, smascherare la perfidia e l’ipocrisia di quei farisei. Lo potrebbe fare mille volte con noi. Invece il suo amore incarnato nelle sue parole, come una lama a doppio taglio, penetrano sino alle giunture più recesse dello spirito rivelando il “cuore indurito” di ogni fariseo che è in noi.
“Sklerokardia” infatti è la malattia del nostro cuore. Si tratta di un termine rarissimo nel Nuovo Testamento, usato solo qui (e nel parallelo di Mt. 19,8) e nel finale di Marco, quando Gesù risorto, apparendo ai discepoli, li rimprovera per la loro incredulità e durezza di cuore. Ciò che paralizza il cuore è dunque l’incredulità.
Le parole di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio si comprendono meglio se poste nel contesto della fede. I farisei, come i discepoli che, in uno stolto paradosso, volevano impedire a Gesù di benedire i bambini ai quali poco prima Egli aveva paragonato proprio loro che lo seguivano, sono ciechi, non comprendono nulla di Gesù. Non hanno fede perché ancora impigliati nella menzogna del demonio.
Ma chiedendo ai farisei “quale ordine” avesse dato Mosè circa il ripudio, Gesù prepara la trappola con cui smascherare il cuore doppio di quei farisei. Mosè infatti non aveva dato alcun “ordine” riguardo al ripudio. In Dt. 24,1-4, l’unico passo della Torah che ne tratta, il divorzio è scontato, perché si riferisce al caso di un uomo che ha ripudiato la moglie e vuole sposarla di nuovo, dopo che ella è stata sposa di un altro uomo.
I farisei, che conoscono la Legge, rispondono che non v’è nessun “ordine” in materia, ma solo un “permesso”. Ora, si “permette” qualcosa non solo perché sia valida, ma, a volte, solo per riguardo alla “debolezza”, o per la “durezza del cuore.” Non si tratta quindi di liceità o non liceità.
Il matrimonio, infatti, è qualcosa di molto più grande, riguarda il “principio”, e quindi Dio che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza come “maschio e femmina” perché l’amore nel quale l’ha plasmato potesse muoverlo verso la carne della sua carne.
Il peccato d’orgoglio di Adamo ed Eva ha rotto l’equilibrio d’amore pensato da Dio. La durezza del loro cuore provocata dall’incredulità nella quale sono caduti per aver dato ascolto al serpente, ha frustrato il progetto originario di Dio sulla sua creatura.
Ma le parole di Gesù svelano proprio il matrimonio come la Buona Notizia, la possibilità che Dio offre all’uomo di ritornare al “principio” della sua opera. Per parlare del rapporto tra Dio e l’uomo, la Scrittura usa infatti immagini nuziali di rara bellezza e di sconosciuta misericordia.
Dio ha sempre avuto misericordia del suo Popolo, anche quando ne è stato tradito più vergognosamente. E lo ha sempre amato e perdonato. Non vi era dunque solo un “principio” davanti agli occhi di quei farisei. Vi era anche una storia di secoli e misericordia dalla quale attingere per comprendere il mistero del matrimonio.
Ma la storia sino a quel giorno non era bastata, come non basta per noi. Era necessario qualcosa di più, l’amore sino alla fine di Cristo. La croce, il letto d’amore dove Dio, nel suo Figlio, ha sposato tutti noi; il legno dove ci ha fatti carne della sua carne e ossa delle sue ossa.
Sulla croce, infatti, Gesù ha compiuto quello che oggi ci annuncia. Il “principio” trova il compimento sul Legno dove Egli si è consegnato alla sua Sposa, e dove ci dà ogni giorno appuntamento per essere con Lui una sola carne. E, in lui, una sola carne marito e moglie, spesso “croci” gli uni per gli altri, e, quindi, nel Signore, più saldamente e indissolubilmente uniti.
Il verbo greco “synezeuxen” che indica “congiunto” infatti, è formato dalla preposizione – prefisso “syn” (con) e dalla radice “zeug”-, che descrive anche due animali uniti dal “giogo” (zeugos). Il “giogo” che unisce gli sposi è la Croce di Cristo, mite e umile di cuore. Esso è leggero e dolce perché è l’unico adeguato a ciascuno dei due, l’unico che li fa, giorno dopo giorno, una sola carne.
Non può esservi giogo diseguale, pena inciampare, cadere, rompere l’unità. Il giogo di Cristo come le sue braccia distese ad unire gli sposi, il suo amore infinito che ogni giorno perdona, e fa perdonare; ama e dona di amare.
Che Dio ci conceda che, “rientrando a casa”, cioè nella comunità cristiana, possiamo sperimentare il suo amore che ci riunisce a Lui nel sangue benedetto del suo Figlio. Vogliamo davvero comprendere l’indissolubilità del matrimonio? Occorre partire proprio dalla durezza del nostro cuore che ci ha resi adulteri.
Quante volte abbiamo “ripudiato” il nostro Creatore? E quante volte abbiamo “ripudiato” suo Figlio che veniva a salvarci? Moltissime, vero? E in quei momenti che cosa hai sperimentato? A parte l’ebbrezza effimera dell’autonomia drogata offertaci dal demonio, solo frustrazione e angoscia. Perché “ripudiare” Dio è “ripudiare” se stessi, come se ci si suicidasse. E’ innaturale, come lo è “ripudiare” colei o colui che è carne della tua carne e osso delle tue ossa. “Ripudia” il tuo coniuge chiudendoti invece di aprirti con lui alla vita; “ripudialo” umiliandolo nell’indifferenza del tuo egoismo. “Ripudialo” e ti scoprirai solo, senza più identità e senso nella vita. Si, farai molte cose, magari ti trovi pure un’amante più giovane, ma sarai un cadavere che galleggia sui giorni.
Perché “non è lecito” andare contro se stessi, e non perché lo dicono i preti, ma perché lo testimonia la tua esperienza di peccato. Proprio il nostro cuore “indurito” ci rivela l’indissolubilità del matrimonio che si fonda su un cuore docile e capace di donarsi. Soffriamo con la nostra durezza che ci pesa ancorandoci al grigiore di chi ha smesso di camminare verso una meta; e vorremmo pazienza, mitezza, misericordia, amore e gioia per guardare avanti e avvicinarci al compimento della vita.
Per questo Gesù vince la nostra stoltezza prendendo tra le braccia i bambini e imponendo le mani sopra di loro per benedirli; è un gesto profetico con il quale “si indigna” contro il nostro cuore indurito e chiuso alla misericordia. Quante volte lo abbiamo sgridato perché non benedisse la nostra piccolezza alla quale appartiene il regno dei Cieli.
Niente da fare, abbiamo preferito la scorciatoia del ripudio che non risolve nulla, al perdono dei peccati che ci fa rinascere come bambini dal cuore ancora tenero, pronto ad accogliere l’amore di Dio. Nell’Israele del primo secolo il bambino era un simbolo di mancanza di stato sociale e di diritti legali. Era una sorta di “non-persona”, completamente dipendente dagli altri per il sostentamento e la protezione.
Ma Dio ha scelto proprio “ciò che è debole nel mondo, per confondere la forza; quello che nel mondo è di ignobili natali (i figli di nessuno), e quello che viene disprezzato, quello che non è per annientare quello che è, affinché nessuna carne abbia a gloriarsi davanti a Dio” (1 Cor. 1,26-29). Gesù è andato per orfanotrofi a cercarsi i discepoli, per ridare il “principio” a chi lo aveva perduto a causa del demonio.
Il suo amore, le sue mani benedicenti, le sue mani crocifisse ci vengono incontro in questa domenica per guarire il nostro cuore. “Lasciate che i bambini venga
no a me” dice a tutti, perché Lui ci vuole con sé. La sua chiamata brucia ogni tentativo del demonio di impedire e proibire che la nostra debolezza sia oggetto delle sue benedizioni.
I nostri matrimoni saranno santi e compiuti solo se ogni giorno resteremo nella verità della nostra piccolezza; se cioè, nella Chiesa scenderemo i gradini dell’umiltà per scoprire di essere bambini, e accogliere il Regno di Dio che ci appartiene come riceve un regalo chi è consapevole di non aver fatto nulla per meritarlo. Con lo stupore, la gratitudine e la gioia di un bambino, identica a quella di un condannato a morte graziato pochi istanti prima dell’esecuzione. Chi vive così si stringerà ogni istante di più a Cristo, per fondare il matrimonio sull’indissolubilità e incorruttibilità del suo amore.