Nell’avvicinarsi della ripresa dopo la vacanza estiva (lunga, breve o inesistente…), vorrei riflettere su quello che ci aspetta, senza soffermarmi sul “carnet de doléances” così facilmente compilabile a partire dai problemi dell’oggi e dalle soluzioni sempre inadeguate dei potenti di turno (si pensi solo alla sfida delle migrazioni!), per servirmi invece della forza evocatrice della poesia. Parto dal poeta toscano Renzo Barsacchi, nei cui versi fede e poesia s’incontrano in modo alto, struggente. In una lirica dal titolo Tu puoi soltanto attendere, Barsacchi descrive il tempo dell’attesa, di cui è impastata la vita, muovendo dalla sola certezza che il domani ci raggiungerà sempre come sorpresa: “Il tempo è incerto. In bilico il sereno / e la pioggia. Ma né l’uno né l’altro / dipendono da te. / Tu puoi soltanto attendere, scrutando / segni poco leggibili nell’aria. / Ti affidi al desiderio / ascoltando il timore. Le tue mani / sono pronte a difendersi e ad accogliere. / Così non sai quando Dio ti prepari / una gioia o un dolore e tu stai quasi / origliando alla porta del suo cuore, / senza capire come sia deciso / da quell’unico amore, / lo splendore del riso o delle lacrime” (Marinaio di Dio, Nardini, Firenze 1985, 74). Fra desiderio e timore, il nostro andare incontro al domani resta passione e lotta, anche quando si tinge dei colori della speranza e delle sue possibili aurore. La sola certezza che può darci forza è quella dell’amore, precisamente nella sua misteriosità e nell’indeducibilità delle sue ragioni. Una poetessa, Elena Bono, esprime in maniera intensissima quest’idea della forza generatrice di vita che ha ogni vera relazione d’amore, in particolare quella con Dio. Bellissimi questi suoi versi: “Quando tu mi hai ferita? / Forse ero ancora nel seno di mia madre / o forse solo nei tuoi pensieri. / Tu mi amasti da sempre. / Io non ho che un piccolo tempo da darti / ed un piccolo amore. / Ma mi perdo nel tuo, / questo mare che brucia / e di sé si alimenta. / Allorché mi feristi / io non sapevo / quanto il tuo amore facesse male. / Ed è questo che vuoi, / soltanto questo in cambio dell’infinito amore: / che io soffra l’amor tuo, / che me lo porti come piaga profonda / e non la curi” (I galli notturni, Garzanti, Milano 1952, 77). È l’amore che apre al domani, nel suo essere inseparabilmente lotta e resa, ferita incancellabile e dono prezioso…
Consiste in questo agone anche la fede, un lottare con Dio con passione d’amore, un lasciarsi rapire dall’Invisibile, riconoscendo l’assente Presenza, che ci raggiunge nella notte del cuore e parla per le vie della Sua rivelazione storica, chiedendo ascolto e fiducia. Se dura è la resa, resta vero che l’affidarsi all’intangibile Altro riempie il futuro di speranza affidabile e ne fa il luogo dell’incontro, che vivifica e trasforma. È ancora una citazione poetica a rendere il senso di questa lotta, che rende bella la vita, testimoniando la possibilità di una relazione d’amore con Dio, vissuta nel profondo e feconda nelle nostre relazioni con gli altri. Si tratta dei versi di Ada Negri intitolati Atto d’amore: “Non seppi dirti quant’io t’amo, Dio / nel quale credo, Dio che sei la vita / vivente, e quella già vissuta e quella / ch’è da viver più oltre: oltre i confini / dei mondi, e dove non esiste il tempo. / Non seppi; – ma a Te nulla occulto resta / di ciò che tace nel profondo. Ogni atto / di vita, in me, fu amore. Ed io credetti / fosse per l’uomo, o l’opera, o la patria / terrena, o i nati dal mio saldo ceppo, / o i fior, le piante, i frutti che dal sole / hanno sostanza, nutrimento e luce; / ma fu amore di Te, che in ogni cosa / e creatura sei presente. Ed ora / che ad uno ad uno caddero al mio fianco / i compagni di strada, e più sommesse / si fan le voci della terra, il tuo / volto rifulge di splendor più forte, / e la tua voce è cantico di gloria. / Or – Dio che sempre amai – t’amo sapendo / d’amarti; e l’ineffabile certezza / che tutto fu giustizia, anche il dolore, / tutto fu bene, anche il mio male, tutto / per me Tu fosti e sei, mi fa tremante / d’una gioia più grande della morte. / Resta con me, poi che la sera scende / sulla mia casa con misericordia / d’ombre e di stelle. Ch’io ti porga, al desco / umile, il poco pane e l’acqua pura / della mia povertà. Resta Tu solo / accanto a me tua serva; e, nel silenzio / degli esseri, il mio cuore oda Te solo” (Il dono, in Poesie, Mondadori, Milano 19663, 847s). Sono parole che fanno eco alle alterne vicende del “secolo breve”, il Novecento, e a quelle d’una vita intensamente vissuta nel profondo del cuore: e tuttavia, in quanto parole d’amore, questi versi sanno essere voce di un’esperienza che ci riguarda tutti, che ci intriga nel profondo dell’anima e che – quando non c’è – è avvertita come ferita e dolorosa assenza. Esse testimoniano una sfida, alla quale verrebbe facilmente la tentazione di sottrarsi per consumare senza problemi l’immediato fruibile. Eppure, senza un senso più alto, privi di un ultimo orizzonte e di una meta verso cui andare, saremmo tutti più poveri. La ripresa vuol dire rinnovare ragioni di vita e di speranza. Proprio così, aprirsi con fiducia al domani è una via necessaria per tutti, una soglia con cui misurarci senza fuggire, perché la fuga è già perdita e vuoto. Questa lotta, analoga a quella di Giacobbe con l’Angelo al guado dello Yabbok, è resa con parole forti dal cuore pensante di Søren Kierkegaard: “Non permettere che dimentichiamo: Tu parli anche quando taci. Donaci questa fiducia: quando siamo in attesa della Tua venuta Tu taci per amore e per amore parli. Così è nel silenzio, così è nella parola: Tu sei sempre lo stesso Padre, lo stesso cuore paterno e ci guidi con la Tua voce e ci elevi con il Tuo silenzio…” (Diario III,1229). Ascoltare, riconoscere, lodare: è questa l’attesa di cui, consapevoli o meno, abbiamo tutti bisogno per affrontare i sempre nuovi inizi della vita e dare senso alle opere e ai giorni. Forse perciò i mistici e i poeti sono capaci di dirci tanto nel tempo che prepara questi inizi: “Dire è meditare, comporre, amare: un inchinarsi quietamente esultante, un giubilante venerare, un glorificare, un lodare: laudare… Il poeta deve corrispondere a questo mistero della parola a fatica intravisto e solo nella meditazione intravedibile” (Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano 1984, 180). E il mistico è chi di questo domani ha già fatto e fa esperienza nell’incontro col Dio vivente, sommamente amato.
Il testo è stato pubblicato su “Il Sole 24 Ore” di domenica 23 agosto, pp. 1 e 10.