Benchè pubblicato in prima edizione nel 1976, continua a creare scalpore il libro Il gene egoista (Mondadori) scritto dal biologo evolutivo, membro della Royal Society, Richard Dawkins. La tesi di Dawkins è semplice: tutta la teoria dell’evoluzione può essere spiegata dal gene egoista, perchè è l’egoismo più radicale che permette a individui, animali, insetti, piante, di sopravvivere.
Secondo il biologo, i geni che vengono trasmessi sono solamente quelli utili a soddisfare i propri stessi interessi: “Io sosterrò che una quantità predominante da aspettarsi in un gene che abbia successo è un egoismo spietato. Questo egoismo del gene provocherà, in genere, egoismo nel comportamento dell’individuo”, scrive. Questo sarebbe il centro della storia, la causa prima che regola tutto l’universo, e che spiegherebbe anche tutta la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin, secondo cui il più adatto alla sopravvivenza è quello più ‘forte’, dunque il più egoista.
Nella seconda edizione del suo libro, del 1989, il professore racconta di alcune reazioni tra i lettori de Il gene egoista. “Uno degli editori stranieri del mio primo libro – riporta – mi confessò che la lettura del testo gli aveva procurato tre notti d’insonnia, tanto, a suo dire, il messaggio era cupo, freddo, terribile. Altri lettori si stupiscono persino ch’io abbia voglia di alzarmi la mattina. Un insegnante di un lontano paese mi espresse il suo biasimo perchè, dopo aver letto quel mio volume, un’alunna si era presentata in lacrime dicendo che la vita è vuota e insensata, e lui gli aveva raccomandato di non passare il libro di Dawkins ai suoi amici per non contagiarli”.
Per portare ragioni alla sua tesi Dawkins, raccontava inoltre di alcune forme di cannibalismo nel mondo animale e nel mondo degli insetti, come la Mantide religiosa femmina che divora il maschio con cui si accoppia. Sulla base di questi ragionamenti lo scienziato inglese arrivava a considerare come folli le leggi in cui “un feto umano, che ha sentimenti quanti ne può avere un’ameba, gode di una venerazione ed una protezione legale, molto maggiore di quella che viene concessa ad uno scimpanzè adulto”. E sosteneva pure che l’approccio degli umani di compassione e attenzione verso la debolezza e fragilità di un feto è espressione di “una forma di razzismo” (specismo) nei confronti delle altre specie.
Una importante risposta contro le tesi di Dawkins è giunta recentemente dagli Stati Uniti, grazie alle teorie di David Sloan Wilson, biologo evoluzionista di grande spessore culturale, docente di Biologia e Antropologia presso la Binghamton State University di New York. Wilson ha appena pubblicato un saggio dal titolo L’altruismo, la cultura, la genetica e il benessere degli altri (Bollati Boringhieri), in cui sintetizza una decennale ricerca che dimostra come, dalle cellule umane fino alla vita animale e vegetale, è sempre stato l’altruismo planetario a guidare l’evoluzione.
Dopo aver spiegato quanti siano gli individui nei vari campi della vita disposti a sacrificarsi pur di aiutare gli altri e salvare e sostenere il bene comune, il gruppo sociale, la comunità, l’autore afferma: “L’altruismo esiste (…) ed è responsabile dell’organizzazione funzionale a livello di gruppo che osserviamo in natura. L’altruismo esiste anche come criterio che utilizziamo per scegliere il comportamento o le politiche da adottare quando il nostro obiettivo non è l’interesse ristretto di un individuo o di una fazione, ma il benessere di un intero gruppo (…) È grazie agli altruisti di tutto il mondo che le nostre famiglie, i quartieri, le scuole, le associazioni di volontariato, il mondo del lavoro e i governi funzionano così bene”.
Secondo il professore statunitense, la complessità dei processi vitali di ogni singolo organismo, così come la capacità dei nostri antenati di sopravvivere e riprodursi, è frutto di comportamenti che reprimono gli istinti egoistici per favorire quelli collettivi. Una visione che non è utopica tantomeno naif, ma che, su basi scientifiche, dimostra chiaramente come la storia dell’economia, dalla rivoluzione agricola a quella industriale, è stata mossa sempre dalla capacità culturale e motivazionale di una organizzazione multifunzionale il cui motore è stato l’altruismo, ovvero la capacità di donare e donarsi in funzione del bene di tutti.
Nel libro si confronta poi questo altruismo con la psicologia, la storia, l’economia, le religioni. In particolare in quest’ultimo ambito l’autore riferisce dei tanti incontri, studi e ricerche che vanno a definire la cosiddetta “scienza del perdono”. Tra le varie citazioni colpisce quella estratta da uno scritto della setta cristiana Hutterita, secondo cui: “Il vero amore è crescita di tutto l’organismo: tutte le sue membra sono interdipendenti e ognuna di esse è al servizio delle altre. Tale è la forma esteriore dell’opera interiore dello Spirito, l’organismo del Corpo governato da Cristo. Si osserva la stessa cosa tra le api, che lavorano tutte con ugual zelo per raccogliere il miele”.
Wilson, infine, è particolarmente critico nei confronti dei sostenitori dei “fondamentalisti del mercato”, coloro cioè che considerano egoismo e avidità come spinte propulsive dell’economia. Chiede infatti: “Perché si è affermata l’idea che gli affari debbano essere governati dall’avidità? Perché quasi tutte le business school hanno adottato la visione del mondo che l’homo oeconomicus è guidato unicamente dall’avidità? E chi può dire che le società possano funzionare bene basandosi interamente sull’interesse egoistico?”. “Se vogliamo che il mondo diventi un posto migliore – sottolinea – le nostre iniziative e i nostri criteri di selezione dovranno avere in mente il benessere di tutto il mondo. Dobbiamo diventare altruisti planetari”.