Mentre il mondo guarda con preoccupazione l’incedere dei miliziani dello Stato islamico, la Turchia del suo presidente Recep Tayyip Erdogan interviene militarmente nel Kurdistan iracheno, ma per bombardare i combattenti curdi del Pkk, che nell’immaginario di molti rappresentano un argine nei confronti dei terroristi del Califfato.
Gli attacchi turchi “cominciano a fare paura”, hanno provocato “morti, feriti e distruzioni” e la regione vive “una nuova situazione di pericolo”. L’analisi all’agenzia Asianews è di mons. Rabban al-Qas, vescovo di Duhok (Kurdistan iracheno), luogo in cui sono fuggiti migliaia di cristiani dalla piana di Ninive, invasa dallo Stato islamico. “La notte dal villaggio di Komane – aggiunge il prelato – si vedono i caccia turchi bombardare le montagne curde, dove si rifugiano i combattenti del Pkk. Gli abitanti dei villaggi, i profughi cristiani sono impauriti”.
Mons. Rabban chiede alla comunità internazionale di esercitare “pressione” nei confronti della Turchia, perché metta fine “ai bombardamenti nella nostra regione” dopo aver “lasciato aperte le frontiere agevolando gli spostamenti e i rifornimenti a Daesh [acronimo arabo per lo Stato islamico, ndr]”.
In questo contesto di pericolo, tuttavia, la vita delle famiglie di profughi cristiani prosegue verso una “lenta normalizzazione”, spiega mons. Rabban. “Molti di loro lavorano, alcuni hanno aperto delle attività, si cercano di formare gruppi di collaborazione, contando sull’aiuto delle associazioni”, racconta. Fra queste vi sono in prima fila “le realtà cattoliche, che danno sostegno materiale e assistenza tecnica, conoscenze, esperienza”.
Continua anche la vita di comunità. Il vescovo riferisce che il prossimo fine settimana “più di 50 fra bambini e bambine della diocesi riceveranno la prima comunione. E poi battesimi, matrimoni, cresime…”. Molte famiglie fuggite da Mosul e dalla piana di Ninive un anno fa “ora si sono stabilizzate, ad Ankawa come a Duhok, hanno comprato casa e si stanno ricostruendo una vita perché hanno capito che non potranno tornare a breve nei loro villaggi – conclude il vescovo – e sono determinate a restare qui in Kurdistan”.