L'industria schiavista dell'utero in affitto

Affari milionari sulla pelle di donne e bambini considerati merce, eugenetica, aborti selettivi: ecco cosa comporta il “diritto al figlio” di ricchi occidentali

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C’è un velo di ipocrisia che copre la realtà di sfruttamento e di sofferenza conosciuta con il nome di maternità surrogata. Giri d’affari milionari sulla pelle di donne e bambini considerati alla stregua di una merce, eugenetica, gravidanze interrotte coercitivamente: qualsiasi persona di buon senso insorgerebbe dinanzi a questa ridda di misfatti legati alla pratica dell’utero in affitto. Eppure, malgrado la diffusa sensibilità ai diritti umani, quando si parla di questo tema prevale un’indifferenza che spesso confina in una forma di cinismo alquanto stravagante: il desiderio del ricco sopravanza la dignità del povero e il diritto del bambino.

Un’inchiesta come quella uscita sull’ultimo numero della rivista trimestrale Info-dienst bio-ethik (Info-service bioetica) di Aktion Leben (Movimento austriaco per la protezione della vita), serve a render pubblico ciò che in molti ignorano riguardo l’utero in affitto. La rivista punta i propri riflettori su quello che chiama il “turismo riproduttivo”, il quale “banalizza di proposito” la maternità surrogata.

Aktion Leben invoca a gran voce che questa pratica venga vietata in tutto il mondo. Martina Kronthaler, segretaria generale del Movimento, ne spiega i motivi: “La riproduzione è diventata una grande industria in tutto il mondo”. E dietro i messaggi pubblicitari delle agenzie che lavorano per organizzare viaggi a questo scopo, nei quali sono ritratti bambini felici e genitori raggianti, si nasconde il fatto che “c’è quasi sempre lo sfruttamento delle donne e l’inganno ai bambini ai quali viene nascosto il legame prenatale”.

Un esempio che la Kronthaler indica per dimostrare come una patina edulcorata stia rivestendo gli interessi di profitto e lo sfruttamento delle madri surrogate è la pagina principale del sito del “Bridge Clinic”, in Nigeria. Questa clinica, con la quale collaborano esperti della riproduzione austriaci offre “madri in affitto che sostituiscono il seno materno”.

Una pubblicità, quella della “Bridge Clinic”, che secondo la Kronthaler testimonia una “intenzionale presentazione semplicistica di quello che è invece lo spettacolo nudo e crudo di donne reclutate in zone di grande povertà dalle agenzie specialistiche, e usate come incubatori umani in fattorie dove vengono alloggiate”.

A queste donne è negato sapere – evidenzia ancora Aktion Leben – il numero di embrioni che vengono loro impiantati e quanti ne vengano uccisi nel loro ventre. Difficile quantificare il numero di aborti, che spesso vengono richiesti dai “clienti” stranieri perché le caratteristiche del bambino “acquistato” non corrispondono a quelle desiderate.

Ciò avviene negli Stati Uniti, dove la maternità surrogata è legale, praticata in circa 400 cliniche e produce un fatturato annuo di diversi miliardi di euro. Si stima ad oggi che 35 mila americani siano venuti al mondo attraverso la fecondazione artificiale, donazione di ovuli, donazione di sperma o madri in affitto.

Queste “pratiche disumane” – per mutuare Aktion Leben – consentono alle donne dei Paesi del Terzo Mondo guadagni assai inferiori rispetto a quelli delle donatrici americane. Tuttavia, si legge su Info-dienst bio-ethik, soltanto in India il mercato della maternità surrogata è stimato intorno ai 2,3 miliardi di dollari, 400 milioni di dollari l’anno secondo uno studio dell’Onu.

Mercato sul quale si allungano le ombre fosche dell’eugenetica. Avvenire riportava la scorsa settimana le dichiarazioni del dott. Vinay, medico del centro per la fertilità di Milann, dove il fenomeno dell’utero in affitto è particolarmente diffuso. “Il nostro obiettivo – le parole del dottore – è sempre e comunque quello di rispondere alle richieste del paziente. Supponiamo che una coppia sia di origini mongole, cinesi o giapponesi. In tal caso, desideriamo che il figlio abbia tratti somatici simili ai loro”. Persino, aggiunge il dott. Vinay, si cerca di accontentare anche coloro che “pretendono l’appartenenza a una casta specifica” per il loro bambino on-demand.

Spesso, come sottolinea la dott.ssa Annamma Thomas, a capo del Dipartimento di ostetricia e ginecologia del St. John’s Medical College di Bangalore, il ricorso alla fecondazione in vitro è dovuto alla scelta di diventare genitori in età avanzata, quando l’indice di fertilità è fisiologicamente più basso.

La Thomas afferma che c’è oggi “un abuso di queste tecniche” per “esaudire i bisogni più egoisti”. Spiega ancora ad Avvenire che “cercano la fecondazione in vitro, o la surrogazione di maternità, persone che sono al top delle loro carriere e non vogliono rinunciare allo status acquisito. O che, avendo ritardato il momento in cui mettere al mondo un bambino, incontrano normali problemi legati all’età”. E “se si sposassero un po’ prima…” – sospira la Thomas – forse si eviterebbe la proliferazione di questa enorme industria di sfruttamento.

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Federico Cenci

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