Gänswein: "Finora, Francesco è l’unica voce convincente che dice le cose come stanno"

Il pontificato di Bergoglio, la rinuncia di Ratzinger, le sfide della Chiesa di oggi, il Sinodo di ottobre: tutto nell’intervista con il prefetto della Casa Pontificia, segretario di “due Papi”

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Le stanze vaticane impressionano. Contrariamente a quanto accade negli studi televisivi – che dal vivo sono più piccoli di quanto appaiano dallo schermo – qui tutto è più grande: la Porta Sant’Anna, il Palazzo Apostolico, la maestosa scalinata, il Cortile di San Damaso. Magniloquenza storica: alcune sue parti infatti hanno più di 500 anni. Splendida ma, contrariamente a quanto alcuni continuano a dire, non ostentata; direi proprio il contrario. Mons. Georg Gänswein (1956) ci ha ricevuti in una di quelle stanze: non troppo grande, rossa, luminosa, antica ed elegante.  In mons. Gänswein non si riscontra quell’alterigia che ci si potrebbe aspettare da uno nella sua posizione, così vicino a due delle persone più influenti al mondo. Nel 1996 cominciò a lavorare col cardinale Ratzinger alla Congregazione per la Dottrina della Fede, divenendone nel 2003 il segretario personale, posizione che ha mantenuto anche all’elezione del cardinale al soglio pontificio. Nel 2012 è stato nominato prefetto della Casa Pontificia e, con il nuovo pontificato, Francesco lo è confermato nella carica. Correva l’anno 2013, giusto nel mese in cui un caldo intenso paralizzava Roma… ma non Papa Bergoglio! Era il 31 agosto. Quindi, mons. Gänswein è, ad oggi, l’unica persona nella storia della Chiesa che serve due papi contemporaneamente. Vive con il Papa tedesco: la mattina, concelebra con lui, pregano insieme il rosario, passeggiano per una mezz’ora nei Giardini Vaticani. Nel pomeriggio, invece, lavora con il Papa argentino.

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Come fa a collaborare con due Papi? Non pare facile adattarsi a due personalità così diverse…

Certamente sono molto diversi tra loro; e per me, dopo una lunga esperienza come segretario del cardinale Ratzinger, poi Benedetto XVI, iniziare a lavorare anche con Papa Francesco non è stato facile. Diciamo che, usando un linguaggio informatico, ho dovuto ‘rendermi compatibile’, perché è stato un cambiamento abbastanza intenso. Avevo già ricevuto l’incarico di prefetto, che Francesco ha voluto riconfermare. Quello che facciamo – i miei collaboratori ed io – è servire. E questo è tutto. Come si fa? Dipende molto dal modo in cui il Papa guida la Chiesa. Tuttavia, devo dire che c’è un grande vantaggio in tutto questo: vivere e lavorare con due papi, e fare esperienza di questa diversità, mi ha aiutato e mi aiuta a crescere umanamente e siritualmente.

Al di là delle differenze fisiche – le scarpe, la croce, ecc – sembra a volte che tra i due ci sia una distanza anche in ciò che dicono…

Tutte queste storie che sentiamo dall’inizio del pontificato, come ad esempio che usi scarpe nere, oppure il materiale della sua croce pettorale sia o meno d’argento, sono secondarie: sono cose esteriori, modi di fare. Se si guarda un po’ meglio ai contenuti, si vedrà che nell’esercitare il munus petrinum c’è continuità con Benedetto XVI. Ed è giusto così. Stiamo parlando di un sudamericano e di un tedesco, di due personalità molto diverse. Il primo è educato e formato dalla spiritualità gesuita, ed è logico che il suo modo di pensare, di fare ed anche di esercitare il servizio petrino sia diverso da quello di chi ha avuto una formazione anzitutto accademico-universitaria.

Spesso Francesco mi ricorda Giovanni Paolo II…

Sì, può essere. Anche se sono arrivati alla Sede di Pietro con vent’anni di differenza. Entrambi avevano già accumulato un’enorme esperienza pastorale, anche se in un contesto politico e culturale molto diverso. Papa Francesco dopo aver diretto una diocesi grande e non facile come quella di Buenos Aires; san Giovanni Paolo II alla guida della Chiesa di Cracovia che, all’epoca, era l’unico luogo dove esprimersi in modo libero. Penso che possiamo paragonarli in questo, ma anche in alcuni aspetti della loro personalità.

Quali?

Francesco, ad esempio, parla molto della ‘cultura dell’incontro’: incontrare persone, ed incontrarne il più possibile. Giovanni Paolo II non ha parlato espressamente di questa cultura, ma la ha costantemente messa in pratica. È il contatto con gli altri, incluso il contatto fisico, che colpisce dei due Papi.

Qualche volta ho sentito dire: “Giovanni Paolo II è il Papa della speranza; Benedetto XVI il Papa della fede; Francesco il Papa della carità”. Lei pensa che, anche se semplice, possa essere una buona analisi della realtà?

È difficile riassumere in una parola un intero pontificato. Ogni volta che si cerca di racchiudere in una parola qualcosa di complesso si corre sempre un rischio. Direi che Papa Francesco è il Papa dei gesti, il Papa della misericordia. Siamo ancora in cammino; in ogni caso, dopo due anni, credo che definirlo ‘il Papa dei gesti’ possa servire almeno a dare un’idea.

A due anni dalla rinuncia, a cosa si riferiva Benedetto parlando del suo “pellegrinaggio terreno”?

Nel suo ultimo breve discorso, a Castel Gandolfo, Benedetto XVI ha parlato della “ultima tappa del pellegrinaggio terreno”. E prima aveva detto che lui non sarebbe sceso dalla croce, che non avrebbe lasciato il Signore. Sale sul monte a pregare per la Chiesa e per il suo Successore. Il suo ruolo ora è spirituale: pregare per la barca di Pietro. È importante ricordare che la Chiesa non la si governi solo con decisioni e strategie, ma anche e soprattutto con la preghiera. La Chiesa è una ‘squadra di preghiera’, e sappiamo bene che, quante più persone pregano meglio è. In questa squadra il Papa emerito ha un posto particolare da “pellegrino”.

Alcuni ancora non capiscono la rinuncia e la interpretano come come una strategia per bloccare alcuni tentativi di causare ‘grossi danni’…

Potremmo scrivere un intero libro di ipotesi e teorie al riguardo! Papa Benedetto XVI, quell’11 febbraio, ha letto una breve e chiarissima dichiarazione esponendo le sue ragioni. Tutto ciò che di altro è stato detto ed ipotizzato è del tutto privo di fondamento. Se c’erano singole persone, o addirittura delle correnti, contro Benedetto, e irrilevante rispetto alla rinuncia. È ovvio che una persona come lui abbia riflettuto a lungo su una questione con una tale importanza. Non si è lasciato intimidire da nessuno. È stato molto chiaro nel suo colloquio con Peter Seewald, parecchi anni prima della rinuncia: “Quando ci sono i lupi, quando c’è il pericolo, il pastore non deve lasciare il suo gregge”. Non lo ha fatto allora, e non lo ha mai fatto; la sua non è una fuga. Questa è la verità, ed è l’unica spiegazione sul perché della rinuncia.

In alcune occasioni Lei ha parlato dei “frutti” di questa rinuncia. Quali potrebbero essere questi frutti?

Papa Benedetto si è reso conto che per guidare la Chiesa di oggi è necessario avere forza spirituale ma anche forza fisica. È un atto di grandissima umiltà rinunciare al papato per far posto a qualcuno più giovane e forte. Penso che si tratti di un grande esempio di amore per il Signore e per la Chiesa; un esempio che non tutti possono o vogliono comprendere. Osservando il pontificato di Papa Francesco, si può percepire come l’immagine della Chiesa sia cambiata in meglio. Papa Benedetto ha fatto il primo passo per il cambiamento: ha aperto la porta per percorrere questa strada. Credo che potrebbe essercene anche in futuro.

Ammetterà comunque che per Lei quei giorni del febbraio 2013 non furono proprio tranquilli: chissà quali sentimenti contrastanti l’avranno attraversata…

Indubbiamente. Per me furono giorni molto difficili, ma il travaglio cominciò in realtà nel momento in cui il Papa mi disse ciò che voleva fare, molti mesi prima. Naturalmente ho dovuto tacere e, come si può ben immaginare, ciò richiedeva un grande sforzo. Quel famoso 11 febbraio e, poi, il 28, ero attraversato da sentimenti di gra
titudine…, ma anche di tristezza, e pure da qualcosa di paragonabile ad una sorta di lutto. Ma il Santo Padre aveva preso la sua decisione, una decisione di coscienza, coram Deo, e quindi da rispettare e da seguire.

Secondo Lei perché Joseph Ratzinger la scelse come segretario?

Che domanda! Lui aveva 75 anni, ed era convinto che Giovanni Paolo II avrebbe accettato le sue dimissioni. Io lavoravo già alla Congregazione per la Dottrina della Fede ed il suo segretario di allora aveva appena ricevuto un nuovo incarico presso la Congregazione per la Vita Consacrata. Il cardinale aveva bisogno di qualcuno che fungeva da segretario e ha scelto me. Non mi ha mai spiegato il perché ha scelto me, ed io non lo ho mai chiesto. Sono rimasto sorpreso, certamente; ma lui prese questa decisione ed io accettai.

Credo che la sorpresa di vedere che il suo cardinale stava diventando Papa fu enorme…

Sì, naturalmente. Non lo avrei mai immaginato, e credo tanto meno il cardinale stesso. È stato eletto. Lui voleva ritirarsi, ma il futuro è stato del tutto diverso! Ha accettato l’elezione da Papa perché ha visto in essa la volontà di Dio. Ed io sono diventato segretario di un Papa. Anche quei giorni furono per me come uno tsunami, come si può immaginare.

Con l’avvento del nuovo Papa ha mai pensato che probabilmente lei avrebbe lasciato la carica di prefetto della Casa Pontificia, e che la sua vita sarebbe quindi stata un pò più ‘tranquilla’?

No. Non perché fossi sicuro che sarei stato confermato, ma perché tutto ciò non mi preoccupava. Perciò non ci ho pensato molto, e non ho avuto paura al momento del cambio. È normale che il Papa, quando vuole, quando lo ritiene opportuno, cambia la squadra. Nel 2013 ha deciso di farmi rimanere in carica, ed io sono qui. Ora penso solo a servire nel miglior modo possibile.

A suo parere, e ricordando che per Papa Ratzinger la lotta al relativismo fu molto imporante, quale ritiene essere il tema più caro al Papa attuale?

La questione della verità rimane sempre importante e credo che Francesco la pensi allo stesso modo. Non è che non sia interessato alla lotta del relativismo, ma vede chiaramente che Dio, nel suo pontificato, gli chiede di concentrarsi su altri punti, su altre sfide. Gli sta molto al cuore di parlare di una “Chiesa missionaria, povera”; gli piace il concetto della Chiesa come ’ospedale di campo’ o “Chiesa in uscita”. È in questi ambienti che Papa Francesco attualmente sta lottando.

Una delle sfide è la famiglia. Perché pensa che siano circolate così tante notizie confuse sull’ultimo Sinodo e su quello che si terrà nel prossimo mese di ottobre?

Ci sono persone che hanno scritto o scrivono senza essere ben informate o ben preparate, e inoltre ci sono delle “correnti”. Perciò è molto importante che i Pastori della Chiesa ed anche i fedeli abbiano chiare le idee e il contenuto e le esprimono con franchezza e sincerità. Il Sinodo in ottobre deve partire non da un problema particolare, ma dalla tematica principale e cioè da “L’evangelizzazione e la famiglia”. Chiaro è che la Chiesa non chiude gli occhi davanti alle difficoltà dei fedeli che vivono in situazione difficili. Tuttavia la Chiesa deve offrire risposte sincere che si orientanto non allo spirito dei tempi, ma al Vangelo, alla Parola di Gesù Cristo e alla tradizione cattolica.

Quali sono le sfide attuali in questo campo?

Una sfida sono certamente i cristiani che si trovano in una situazione matrimoniale, teologicamente detto, “irregolare”. Vuol dire persone che hanno divorziato e si sono risposate civilmente. Dobbiamo aiutarle, certamente, ma non in modo riduttivo. È importante avvicinarsi a loro, creare contatto e mantenerlo, perché sono membri della Chiesa come tutti gli altri, non sono espulse tantomeno scomunicate. Essi vanno accompagnati, ma ci sono problemi riguardo alla vita sacramentale. Si deve essere molto sinceri da parte della Chiesa, anche da parte dei fedeli che vivono in questa situazione. Non si tratta solo di dire: “Possono non possono”. E lí, secondo me, si dovrebbe affrontare in modo positivo. La questione dell’accesso alla vita sacramentale è da affrontare in modo sincero sulla base del magistero cattolico. Spero che nei mesi di preparazione prima del Sinodo si presentino delle proposte che aiutino e servano per trovare le giuste risposte a tali pesanti sfide.

Alcune di queste dispute provengono dalla sua terra d’origine, la Germania. Perché?

Sì. È vero che non tutti gli errori vengono da là, ma il punto in questione certamente sì: vent’anni fa Giovanni Paolo II, dopo una lunga e impegnativa trattativa, non accettò che i cristiani risposati potessero accedere all’Eucaristia. Ora, non possiamo ignorare il suo magistero e cambiare le cose. Perché alcuni pastori vogliono proporre ciò che non è possibile? Non lo so. Forse cedono allo spirito del tempo, forse si lasciono guidare dal plauso umano causato dai media… Essere critico contro i mass media è certamente meno piacevole; ma un pastore non deve decidere in base agli applausi o meno dei media; la misura è il Vangelo, la fede, la sana dottrina, la tradizione.

Perché pensa che questi media che ha appena menzionato dicano poco o nulla sui cristiani perseguitati? Il Papa è da solo?

Il Papa è molto chiaro su questo punto e, purtroppo, grandi istituzioni tacciono o, se parlano, lo fanno in modo inconsistente. E ciò è molto grave. Si tratta di un comportamento inaccettabile. Fino ad ora il Papa è l’unica voce convincente e coraggiosa che dice le cose come stanno. Non ha paura e non cerca il plauso della gente. Agisce come san Paolo, cioè interviene in modo chiaro opportune e importune.

La giornata del Papa è intensa, e ne concludo che anche la sua lo sia: non ha il tempo per giocare a tennis, come certamente vorrebbe, o dedicarsi all’attività universitaria. Avrebbe forse desiderato un’altra vita?

Non mi sono mai posto questa domanda. Perché non mi sono mai detto: “Voglio fare questo, questo, o questo…”. Quando mi è arrivato un incarico, lo ho accettato. Papa Benedetto mi ha chiesto qualcosa, e quindi lo ho accettato e l’ho fatto volentieri. Lo stesso vale per Papa Francesco.

Ripercorrendo la sua storia a partire da quei giorni di gioventù – in cui aveva i capelli lunghi (ride) – fino ad oggi, cosa direbbe Georg Gänswein della sua vita?

Quando guardo indietro da questa prospettiva rido un pò di tutto ciò… Io avevo 18, 19 anni, e in quell’epoca – fine liceo e inizio di seminario – era di moda: non ero l’unico! A mio padre non piaceva, e ciò causò piccoli momenti di tensione. Ma personalmente mi è sempre stato utile un principio di vita: ‘fìdati, ma bada bene di chi’. E anche un altro, che in tedesco dice: Tue recht und scheue niemanden. Cioè, ‘fai tutto ciò che ritieni giusto e non avere paura di nessuno’.

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L’intervista a mons. Gänswein è pubblicata in spagnolo e catalano su www.sumandohistorias.com/author/jaumefv/

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ZENIT Staff

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