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L'uomo che salva le donne schiave dell'Isis

È chiamato Abu Shujaa (Padre dei Valorosi), è un mercante iracheno che ha messo su una squadra di soccorritori che rischiano la vita per liberare i prigionieri dello Stato islamico

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Un fascio di luce si posa sui territori del Medio Oriente in cui imperversa la bandiera nera dello Stato islamico. Negli stessi luoghi in cui predoni drogati di ferocia razziano, distruggono, terrorizzano e massacrano, gruppi di volenterosi con a capo un generoso mercante iracheno rischiano la propria vita per salvare quella di centinaia di vittime della violenza dell’Isis.

L’ideatore di questo ambizioso e pericoloso progetto è conosciuto da tutti come Abu Shujaa (Padre dei Valorosi), uomo di religione yazida che da un anno si muove costantemente tra l’Iraq, che è il suo Paese, la Siria e la Turchia per liberare donne e bambini ridotti in schiavitù dagli jihadisti del Califfato e portarli in salvo in Kurdistan. È lui stesso a raccontare sulle pagine del Guardian una delle imprese che ha condotto insieme ai suoi uomini.

L’operazione ha consentito di trarre in salvo sette donne dalla casa di due australiani arruolatisi nell’Isis a Raqqa, capitale dello Stato islamico. Abu Shujaa spiega che per diversi giorni sono stati effettuati una serie di appostamenti intorno all’abitazione. Una volta studiati accuratamente gli ingressi e le abitudini dei proprietari, il gruppo ha atteso che i due australiani uscissero insieme, per intervenire. “Due uomini sono entrati, mentre altri tre facevano la guardia fuori, monitorando la situazione”, afferma Abu Shujaa. Il quale aggiunge che le donne sono state trasferite dapprima in una casa sicura non lontano dalla roccaforte jihadista e il giorno seguente sono state portate a Gaziantep, città turca di confine.

Le donne yazide catturate e schiavizzate dall’Isis sono vittime di sofferenze atroci. Le testimonianze provenienti da quante sono riuscite a fuggire lasciano trapelare una realtà abominevole: marchi a fuoco sulla pelle, stupri, somministrazione di morfina, pestaggi continui fino all’uccisione e molestie nei confronti di bambine rappresentano il quotidiano agire dei “guerrieri” agli ordini del Califfo.

La consapevolezza di questa situazione, per Abu Shujaa, padre di famiglia prima ancora che dei valorosi, era diventata insostenibile. “La catastrofe degli yazidi era così enorme che mi ha spinto a fare qualcosa”, spiega. Contando su un vasto tessuto di contatti in tutta l’area, l’uomo si è quindi dato da fare per metter su questa squadra di liberatori di donne e di bambini.

Umilmente si dice “né migliore né più coraggioso” delle altre persone, tuttavia chi decide di intraprendere una tale strada non può non avere una buona dose di altruismo e di audacia. Quest’ultima gli fu riconosciuta già quando aveva appena 18 anni: all’epoca, sfidando il regime di Saddam Hussein, compieva viaggi illegali in Siria per accrescere la sua attività professionale.

Di qui il soprannome Abu Shujaa. Che oggi convalida grazie a queste operazioni di soccorso. I gruppi di incursori sotto la sua guida sono piccoli, come vuole la guerriglia: composti da un minimo di tre a un massimo di sette persone. Si nascondono in rifugi sicuri nelle aree controllate dall’Isis e si avvalgono di una fitta e segretissima rete di abitanti che decidono di collaborare.

<p>L’audacia però spesso non basta. Abu Shujaa non lesina un pizzico di polemica nei confronti della comunità internazionale. “Nessuno nel mondo si interessa di noi, nessuno ci protegge. Dobbiamo far scappare la gente con le nostre forze”. E questo rende il lavoro oltremodo impervio. A febbraio due suoi uomini sono stati catturati a Raqqa e decapitati, le loro teste sono state esposte come pubblico pro-memoria in una rotonda della città.

Lo stesso Abu Shujaa ha rischiato di fare una fine simile. Durante la liberazione delle sette donne schiavizzate dagli australiani fedeli al Califfo, l’uomo è stato fermato da un posto di blocco dell’Isis. Gli è andata bene, perché i miliziani hanno evitato di approfondire lasciandolo procedere dopo un controllo sbrigativo.

Se solo avessero saputo che si trattava di lui, la sua sorte sarebbe stata infelice e oggi non avrebbe potuto rilasciare quest’intervista. È da mesi un bersaglio dello Stato islamico, le minacce che gli vengono indirizzate su internet stanno a dimostrarlo. Lo definiscono un “nemico di Dio” predicendogli un destino tra le fiamme dell’inferno.

Per ora, il suo impegno consente a tante donne yazide di salvare il proprio di destino, da una morte sicura tra le grinfie dell’Isis. Una di queste, di nome Samira, ha deciso di offrire la propria testimonianza al Guardian. Rapita quando era incinta insieme al figlio di due anni, ha partorito nel corso della prigionia un secondo bambino. È stata sequestrata in una zona occidentale dell’Iraq e dopo due mesi è stata portata a Raqqa dove, messa in vendita come un oggetto, è stata acquistata da un miliziano d’origine saudita.

Nell’aprile scorso, l’uomo che la aveva sotto sequestro ha chiesto un riscatto alla sua famiglia. Ricevuta la prima metà della somma pattuita, egli ha però cambiato idea, tenendosi sia i soldi sia Samira. Il padre della ventunenne ha allora contattato Abu Shujaa. Quest’ultimo, parlando al telefono, si è finto un familiare di Samira ed è riuscito ad ottenere qualche utile informazione al sequestratore.

A giugno, approfittando di esser rimasta a casa senza il suo aguzzino, Samira ha indossato l’abaya nero di ordinanza ed è uscita insieme ai due figli. Raggiunto un luogo indicatole telefonicamente da Abu Shujaa, è salita su una macchina che la stava aspettando ed è stata portata fuori da Raqqa, dove ha potuto finalmente riabbracciare la sua famiglia. “Non riesco a spiegare quanto sia importante ciò che Abu Shujaa e i suoi uomini stanno facendo”, ha detto. Finora, circa 200 yazidi come Samira debbono la vita a questo manipolo di valorosi.

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Federico Cenci

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