C’erano i vescovi dell’Emilia-Romagna al completo, oggi, nella cattedrale di San Pietro a Bologna, per dare l’ultimo commosso saluto al cardinale Giacomo Biffi, scomparso lo scorso 11 luglio, a seguito di una lunga malattia. Con loro anche numerosi sacerdoti della Chiesa bolognese, il presidente della Conferenza Episcopale italiana, Angelo Bagnasco, l’arcivescovo emerito di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, e i rappresentanti delle diverse istituzioni cittadine.
Una cerimonia solenne, un funerale degno di “un grande uomo di Chiesa”, come clero e popolo lo hanno sempre comunemente definito, innamorato della “bella Sposa” che era la chiesa felsinea, “che il Papa gli aveva dato” e che guidò per oltre un ventennio (1984-2003), come ha ricordato l’arcivescovo Carlo Caffarra nella sua omelia.
Ma Biffi fu anche teologo dalla rara e lucida profondità, un cardinale schietto che non fece marcia indietro quando dovette esprimere critiche verso la Chiesa di Bologna e universale. Soprattutto fu un sincero testimone di fede. Sempre. Anche quando la tormentata malattia culminò, nel maggio scorso, con la dolorosa amputazione di una gamba.
“Il vescovo Giacomo fu maestro di fede anche nella lunga tribolazione della malattia”, ha sottolineato infatti Caffarra. “Non potrò mai dimenticare il modo con cui accettò l‘amputazione di una gamba. Il volto emanava serenità, pace, abbandono”. Per il cardinale “la fede era diventata vita nel senso più profondo”. Una fede poggiata saldamente in Gesù Cristo verso cui viveva come in un sorta di “con-centrazione”: “Ha costruito la sua vita, il suo pensiero teologico, il suo ministero pastorale sulla roccia di quella professione: il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, ha evidenziato il porporato. Ciò “non solo non lo distoglieva dalla vicenda umana, ma nel suo cristocentrismo ne trovava la chiave interpretativa ultima”.
Lo stesso atteggiamento il cardinale lo pretendeva dalla ‘sua’ chiesa di Bologna: “Sentiva come una sorta di gelosia perché la sposa non guardasse con desiderio altri all’infuori di Cristo”, ha detto Caffarra, spiegando che proprio “da questa mistica gelosia” nasceva “la messa in guardia di questo gregge santo di Bologna dagli errori, dimostrandone - a volte in modo tagliente - l‘intima inconsistenza”.
Biffi, inoltre, “aveva un concetto molto alto del dialogo”, e “disprezzava profondamente chi lo praticava o come sforzo di ridurci tutti ad un minimo comune denominatore o al perditempo della chiacchiera da salotto”. Per questo aveva “una grande venerazione della fede dei piccoli, dei semplici, e non permetteva che fosse minimamente vulnerata da sedicenti teologie”. Fulcro del suo ministero fu infatti “l’esercizio della carità verso chi si trovava in difficoltà di ogni genere, anche economiche”, anche se tale aspetto rimase poco conosciuto ai più.
Il cardinale Caffarra si è dunque abbandonato ai ricordi personali, rammentando come più di una volta poté constatare che quando il suo predecessore “parlava del disegno di Dio dentro la storia umana, era preso come da una sorta di incanto che lo affascinava. Un religioso, visitandolo negli ultimi giorni, meravigliato dalla sua serenità e pace interiore, gliene chiese la ragione. Rispose: ‘La considerazione dell‘unitotalità che ho imparato leggendo i teologi russi‘. Cioè la considerazione che tutto è integralmente e simultaneamente sotto lo sguardo della misericordia di Dio”.
Questo guardare oltre la realtà, questo mistico distacco, dava al porporato “una grande libertà di giudizio”. Il suo motto era infatti “ubi fides, ibi liberta”, e ciò sia “sui fatti di oggi e del passato”, sia anche “dal punto di vista rigorosamente storico”.
Si può dire, quindi, riecheggiando le parole di san Massimo il Confessore, che “il nostro vescovo Giacomo ci ha insegnato a pensare ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo, e Gesù Cristo per mezzo di ogni cosa”, ha affermato l’arcivescovo di Bologna. “E Dio solo sa quanto oggi nella nostra Chiesa italiana abbiamo bisogno di una fede capace di generare un giudizio sugli avvenimenti”, ha aggiunto.
Il cardinale Biffi è quindi tornato alla Casa del Padre, sepolto nella cripta della cattedrale come da lui espressamente richiesto; la Chiesa, però, – ha concluso Caffarra - “non può, non deve perdere la sua memoria, ma deve custodire i suoi ricordi fedelmente”.