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Pakistan: una legge per rendere "illegale" la tortura

La risoluzione invita a rispettare i diritti umani fondamentali e chiede una norma che ponga fine all’impunità delle forze dell’ordine

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Rispettare i diritti fondamentali della persona umana, proteggere e riabilitare le vittime della tortura. È quanto chiedono gli attivisti cristiani e musulmani in Pakistan, denunciando come troppo spesso nel Paese non venga rispettata la Convenzione dell’Onu contro la tortura approvata nel 1984. Solo pochi mesi fa, a marzo, l’intervento di attivisti e della società civile ha consentito l’apertura di un’inchiesta per la morte di un ventenne cristiano che sarebbe stato torturato e ucciso dalla polizia.

In occasione della recente giornata internazionale del 26 giugno — riferisce l’agenzia AsiaNews — l’Alleanza pakistana contro la tortura ha sottoscritto una risoluzione che chiede al Governo di approvare una legge per rendere “illegale la tortura” e per la chiusura delle celle di isolamento carcerario. Il documento invita a rispettare i diritti umani fondamentali e chiede l’intervento delle autorità per renderne effettiva la protezione.

In particolare, la risoluzione chiede di approvare una norma che metta fuori legge i metodi di tortura e ponga fine all’impunità delle forze dell’ordine. In questa prospettiva, viene chiesto al Governo l’impegno nel costruire centri di recupero per le vittime, il rispetto dei trattati internazionali, la modernizzazione del sistema giudiziario, e anche per garantire la sicurezza degli attivisti per i diritti umani, i giornalisti, gli oppositori politici, gli intellettuali e gli studenti.

In una conferenza stampa Tanveer Jahan, direttrice della Commissione democratica per lo sviluppo umano, ha esposto i risultati di una recente ricerca basata su interviste a circa mille detenuti, raccolte nei tribunali di tre distretti del Punjab, provincia centro-orientale del Paese. “La metà degli intervistati ha raccontato di aver subito delle torture”, ha detto, “sono rimasta sbalordita per le loro dichiarazioni coraggiose rese di fronte ai poliziotti. Sapevano che avrebbero pagato care le loro dichiarazioni una volta riportati in prigione la sera”.

“La polizia e le agenzie di sicurezza — ha aggiunto Jahan — sono i maggiori responsabili di crimini di tortura. Una persona detenuta è al sicuro solo se ha influenze politiche o se può dare mazzette ai funzionari. Ormai è diventata un’abitudine torturare ed estorcere confessioni dai sospettati e minacciare gli individui in custodia”.

Parole forti sono giunge anche dal direttore del Centro per l’educazione dei diritti umani, Samson Salamat, per il quale nel Paese “vengono ancora applicati i metodi primitivi dei tre gradi di tortura. Chi sopravvive ha un’esistenza distrutta – afferma – condizioni imprescindibili per un’inchiesta giudiziaria libera dalla tortura sono un’effettiva legislazione, un sistema legale corretto e tolleranza zero per i trasgressori”.

 

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ZENIT Staff

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