Festa dell’Ascensione: il linguaggio della preghiera e della poesia

In un componimento della mistica Francesca Farnese il valore contemplativo dell’ascesa al cielo di Gesù

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L’Ascensione è l’ultimo atto della vita terrena di Gesù e, come ogni manifestazione del Figlio di Dio, associa al valore trascendente, che possiamo intuire solo per dono di fede, un valore simbolico che parla alla nostra esperienza concreta.

“Poi Gesù condusse i suoi discepoli verso il villaggio di Betània. Alzò le mani sopra di loro e li benedisse. Mentre li benediceva si separò da loro e fu portato verso il cielo. I suoi discepoli lo adorarono”. In questi pochi versi del Vangelo di Luca (cfr. Lc 24,1-53) è racchiuso il mistero dell’Ascensione. Siamo già oltre i limiti dello spazio-tempo e al di là del significante della parola umana.

È un momento puramente contemplativo: “I suoi discepoli lo adorarono”. Ma pochi istanti prima, Gesù aveva ricordato loro il significato della sua missione: “Ora deve essere portato a tutti i popoli l’invito a cambiare vita e a ricevere il perdono dei peccati”. L’intuizione del trascendente rafforza e avvalora il senso del messaggio: Gesù non propone all’uomo un’ideologia religiosa o una filosofia metafisica ma, attraverso la sua incarnazione, morte, resurrezione e ascensione, rende manifesta la proiezione ultraterrena della vita umana.

“L’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi.” Queste parole di papa Francesco sono citate in apertura della Lectio Divina di monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, che abbiamo pubblicato su ZENIT il 17 maggio 2015, giorno in cui si è celebrata la festa dell’Ascensione.

“È dunque corretto dire che uno degli insegnamenti che ci vengono dal fatto dell’Ascensione è che anche noi possiamo salire in alto, ma solo se rimaniamo legati a Gesù”, commenta Monsignor Follo. “Dobbiamo avere chiaro che l’entrare nella gloria di Dio esige la fedeltà quotidiana alla sua volontà, anche quando questa richiede sacrificio e accettare la nostra croce quotidiana”.

Il messaggio di Gesù è, al tempo stesso, concreto e simbolico. E offre una risposta alle grandi domande che si ripropongono sempre alla mente dell’uomo: qual è il senso della vita? perché dobbiamo morire? esiste una vita dopo la morte? Con il lascito testimoniale della sua esperienza terrena, Gesù ci spiega che la nostra breve apparizione in questo mondo non esaurisce i limiti dell’esistenza, il cui fine ultimo è costruire qui, con le nostre mani, giorno dopo giorno, il futuro ultraterreno che costituisce la naturale proiezione dell’anima. Ma la dimensione dell’Oltre, sebbene effettivamente esistente nel piano di Dio, non è rappresentabile alle limitate capacità cognitive della nostra mente. L’unico linguaggio che ci è concesso per tentare una rappresentazione dell’inesprimibile è quello della preghiera e della poesia.

Preghiera e poesia: due risorse dell’anima che si fondono mirabilmente nel corpus poetico della venerabile clarissa Francesca Farnese (1593-1651), nel quale si esprime la spiritualità sua e della comunità clariana in cui vive. E proprio all’Ascensione di Gesù è dedicato un componimento di spiccato lirismo, dove l’intuizione mistica e visionaria oltrepassa ogni interpretazione riduttiva del linguaggio logico:

O mio sposo celeste,
Che trionfante al tuo bel Regno ascendi,
Cinto di bianche veste,
E di vago splendor, deh’l mio cor prendi.
Portalo teco in Cielo
Nascosto, chiuso entr’il tuo divin petto,
Acciò si strugga il gelo,
Che lo circonda, e à tè rechi diletto.
E se quivi serrato
Lo terrai nel tuo seno un sol momento,
Come tutto cangiato
Lo vedrò al fin con mio sommo contento.
Piglialo, ò mio thesoro,
Menalo come schiavo incatenato;
Ch’io qui mi struggo, e ploro,
Per desio di vederlo in tale stato.
Questo già ti fè guerra,
Hor che vai trionfante, e con vittoria,
Da questa nostra terra
Alla felice tua perpetua gloria.
Nel tuo trionfo altero,
Il dover vuol, ch’l tuo nemico vada,
Giunto poscia al tuo Impero,
Fallo morir di fuoco, e non di spada.
Il fuoco sia’l tu’amore,
Che lo consumi tutto à poco à poco,
E per il grand’ardore
Non trovi che in te, rifugio e loco.
Si che forzato sia
Andarti sempre e nott’, e dì cercando,
E à ogni altra compagnia,
Che levi da tè, dar tosto bando.
E nel tuo dolce ardore
Qual Salamandra viva, e si nutrisca,
Fin che punto d’amore
Morto affatto à se stesso, à te s’unisca.

***

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Massimo Nardi

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